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Parmenide - Roberto Radice
Il filosofo
Potremmo usare un modello per spiegare in forma intuitiva il pensiero di Parmenide che fa tutt’uno con quello dei suoi seguaci e così diventa quasi subito pensiero di Elea. In tutta Elea erano solo in tre a pensare, uno dopo d’altro ma in sintonia totale: il primo, Parmenide, dava l’avvio e poneva le basi; il secondo, Zenone, difendeva la dottrina del maestro; infine il terzo, Melisso di Samo, la fortificava, cioè la metteva a sistema.
Poi tutto finisce qui.
Anzi, finirebbe qui, se il pensiero di Parmenide, nel frattempo trasformatosi nella filosofia di Elea, non fosse divenuto simile a una bomba, un ordigno teoretico ad alto potenziale.
Dopo Melisso l’innesco è completo e la bomba detona. Siccome la forza delle bombe si capisce dopo che sono scoppiate (e non prima) dagli effetti che hanno – siano essi buoni, quando servono a scavare e ad approfondire, come in questo caso, o cattivi, quando servono a distruggere –, nei Temi e nell’Antologia abbiamo dovuto occuparci soprattutto di questi.
Quanto potente sia stata la deflagrazione di Elea nel pensiero antico è facile da capire, se ancora mille anni dopo, in pieno Neoplatonismo, se ne colgono le conseguenze.
Cominciamo da chi ha armato questo ordigno: Senofane di Colofone (VI sec. a.C.). Questi, assecondando la tradizione dei naturalisti a partire per lo meno da Anassimandro, identificò il principio con dio. Trattandosi di dio, l’arché non poteva essere fallibile come un filosofo, miope e debole come un uomo (DK 21 B 24 e 25), senza fissa dimora come un girovago (DK 21 B 26), e neanche molteplice quasi fosse una delle cose che ci stanno intorno.
Si scopre alla fine che il dio-arché altro non è che il cosmo nella sua interezza, di cui per la prima volta non si parlava in termini cosmologici, ma, almeno occasionalmente, in termini ontologici: come in quel frammento in cui Senofane proclamava l’impossibilità che «l’Essere nasca dal non-Essere», e nel contempo la necessità che esso sia uno, immobile perché intorno a sé non trova alcun non-Essere
(vuoto) verso cui andare.
Ma il termine dio (in senso filosofico) di cui Senofane si serve a profusione è troppo vago per lasciare traccia duratura nella tradizione. Infatti Parmenide non lo usa e, pur assorbendo termini e nozioni senofanei, del divino si serve in un solo caso: quello della dea rivelatrice.
Bisogna pensare che la dea nel poema di Parmenide sia la voce narrante fuori dalla scena e che il suo dire, peraltro mitico, serva a dare autorità e prestigio a quanto afferma, non perché col suo carisma lo faccia vero, ma perché col suo carisma insegna a usare la ragione, alla quale spetta distinguere ciò che è vero e ciò che non lo è. Questa dea non ha dunque il valore religioso-superstizioso degli dei di Senofane, perché espone la verità, è al servizio del logos – che in greco vale sia ragione
che discorso
– e di conseguenza non cade sotto l’accusa di empietà riservata agli dei della religione (DK 21 B 11: «Agli dei Omero ed Esiodo attribuiscono / tutto ciò che per gli uomini è onta e vergogna: rubare, / commettere adulterio, ingannarsi a vicenda»).
Senofane e gli eleati in tal senso anticipano gli stoici (IV-III sec. a.C.). Anche loro ebbero tre fondatori come Parmenide, Zenone e Melisso; e furono Zenone Stoico, Cleante e Crisippo. Zenone fu l’iniziatore della Scuola, Crisippo assunse il ruolo di difensore e sistematore della dottrina (al pari di Zenone di Elea e Melisso), Cleante (simile in questo a Senofane) è noto soprattutto per aver fuso temi religiosi con temi filosofici, usando dio come principio insieme alla materia, come risulta da questo frammento:
«SEMBRA LORO CHE CI SIANO DUE PRINCIPI DEL TUTTO: QUELLO ATTIVO E QUELLO PASSIVO. IL PRINCIPIO PASSIVO È LA SOSTANZA PRIVA DI QUALITÀ, LA MATERIA; IL PRINCIPIO ATTIVO È IL LOGOS IMMANENTE IN ESSA: CIOÈ DIO. QUESTO, ESSENDO ETERNO E DIFFUSO IN ESSA, PRODUCE OGNI COSA. […]» (SVF, I, 493).
In generale un tale atteggiamento sospende la scomunica di Senofane, perché «cerca di mettere in linea la tradizione che risale ad Orfeo e a Museo, nonché le posizioni di Omero, di Esiodo, di Euripide e di altri poeti» (SVF, I, 539), con quelle dei filosofi, affidandosi alla dea rivelatrice.
Resta il fatto che le sue indicazioni valgono oltre i limiti del pensiero eleatico e sono efficaci per molti secoli. Si tratta, come vedremo, di tre vie: quella dell’Essere (della verità), quella del non-Essere (della falsità) e quella dell’opinione veritiera dei mortali (cioè della doxa nel senso di opinione).
Tutte e tre insieme non ci stanno, sono incompatibili, sicché Parmenide non lascia alcuna alternativa ai posteri, i quali si trovano costretti a sostenere che il suo pensiero, per quanto paradossale – nega infatti il movimento che è assolutamente evidente – è, se non proprio vero, certamente incontrovertibile, e cioè non può essere confutato.
Gli eleati sembrano mettere in mano ai successori una bomba con la miccia accesa. Chi accetta le loro tesi, oltre a mettere in contrasto il proprio agire e sentire con il suo pensare, non ha null’altro da fare che ripetere il principio che l’Essere è
e invece il suo contrario non è. Certo è una formula che dà sicurezza e toglie ogni dubbio, ma che alla lunga diventa un mantra
, cioè una frase un po’ monotona, rilassante, ripetuta perché l’ha trasmessa la dea come una preghiera rituale: il massimo per un sacerdote e il minimo per un filosofo.
Ma forse Parmenide non conosceva bene il motore della tradizione filosofica, che è nella sostanza una specie di indefinita staffetta in cui il testimone che gli atleti si passano non consiste in pensieri, ma in problemi: il maestro, anche se non lo sa e se non lo vuole, lascia in eredità delle aporie (ragionamenti non conclusi o non verificati) e il discepolo cerca di dare a esse soluzione, quando è possibile interpretando e correggendo il maestro, quando non è possibile smentendolo.
La sconfessione del maestro è un atto estremo; avviene solamente allorché si riconosce che il problema tràdito è mal posto e non quando la soluzione precedente è ritenuta sbagliata, perché questo in filosofia è di default. Ma anche in tal caso non capita che la tradizione si azzeri e riparta di bel nuovo, perché i termini e i concetti che il maestro (se pur fallibile) ha introdotto costituiscono il punto di partenza.
Immagine seguita da didascaliaNaturalmente non conosciamo i tratti di Melisso, discepolo di Parmenide. Nell’immagine ne vediamo dunque un’effigie ideale tratta dalle Cronache di Norimberga, storia illustrata del mondo, dovuta ad Hartmann Schedel e pubblicata nel 1493.
Come accenneremo nella sezione dei Temi, Parmenide ha dato una spinta insuperabile alla filosofia e mai nessuno, nemmeno Kant, è stato stimolante come lui. Ciò dipende dal problema trasmesso ai successori che era molteplice, polivalente e refrattario a ogni mediazione. Inglobando la cosmologia nell’ontologia ha ridotto quest’ultima a una scelta secca: «o è per intero, o è per nulla», e di conseguenza, «la decisione intorno a tali cose / sta in questo: è
o non è
». Pertanto un parmenideo
, per essere all’altezza del suo compito, o cambiava registro (come fece Socrate quando lasciò lo studio della realtà naturale per occuparsi della sapienza umana
) o cercava una soluzione. Per questo il pensiero eleate era ineludibile.
La sua carica aporetica era particolarmente forte perché trasformava la doppia costituzione dell’uomo (corpo/mente) in una forma dualistica, dove una parte era opposta e contraddittoria rispetto all’altra.
Tale opposizione è ben nota alla scienza psicologica (con il nome di schizofrenia), ma è catalogata non sotto le forme della sapienza, ma sotto le specie della pazzia, in un caso perché trasforma l’uomo da razionale in ragioniere
(si intende un ragioniere teoretico, iper-razionale, come chi volesse mettere in ordine di colore tutti i ciottoli sul greto del fiume, perché, così come sono, sono disordinati), nell’altro caso perché trasforma l’uomo da ragionevole in irrazionale o ipo-razionale, simile agli animali.
Nel caso della filosofia la contraddizione si poneva in ambito conoscitivo fra pensiero e sensazione e in ambito metodologico fra evidenza e coerenza. Nella normale prassi teoretica sono tutti elementi necessari alla conoscenza umana, e dividerli appare impossibile.
Se il motore della filosofia è il problema, quello di Parmenide era un concentrato di problemi: dunque un motore col turbo. Per questo dopo di lui l’accelerazione della tradizione filosofica fu evidente e divenne frenetica.
I pluralisti, adottando il modello della scatola di costruzioni, cercarono di ridurre la portata della via della verità
, relegandola alla sola sfera dei principi. Ottennero il risultato di sottrarre la nascita e la morte dalla logica Essere/non-Essere per ridurla al rapporto aggregazione e disgregazione di sostanze elementari, le quali non sono fra loro in contraddizione, ma semplicemente opposte (come la luce e la notte, il caldo e il freddo). Ma non fu possibile assimilare a un sistema fisico l’omogeneità
dell’Essere richiesta da Parmenide, perché questa abbatteva ogni individualità nella natura.
Platone inventò un livello sovraordinato rispetto a quello sensibile a cui usualmente si volge la mente: il sovrasensibile
, con le sue regole e i suoi elementi (le Idee
). In tal modo giustificava l’opzione di fondo di Parmenide per la ragione e non per i sensi. Ma anche a lui non fu possibile assimilare l’unicità dell’essere e la sua unità assoluta.
Così fu anche per Aristotele, che sulla linea del maestro iniziò subito il suo discorso filosofico mettendo bene in chiaro che l’Essere «si dice in molti modi» – perché così è l’evidenza –, ma che questi modi hanno tutti relazione con un unico significato di sostanza.
L’apporto di Zenone all’Eleatismo non restò senza imitatori e seguaci, sia in campo socratico, con Euclide di Megara, sia in campo sofistico, con Gorgia. Costui fu un eleate al contrario
, in quanto si limitò a scambiare i termini: il non-Essere al posto dell’Essere, il nichilismo al posto dell’ontologia.
In verità dopo questa sostituzione gli restò ben poco; non dimostrò un granché se non che il pensiero di Parmenide poteva essere capovolto e che la ragione (e la verità astratta) è strumento al servizio di qualsiasi soluzione, purché formalmente ineccepibile o convincente (in Grecia si chiamava eristica
, ovvero l’arte di convincere per il gusto di convincere senza ritegni). Gorgia rappresenta la via dell’errore, nonché il fatto che anche l’errore può insegnare qualcosa, mentre per Parmenide era «il sentiero su cui nulla si apprende».
Parmenide visse e insegnò nella città di Velia. Le sue rovine si trovano oggi in provincia di Salerno.
Intanto anche lungo la linea della doxa (l’opinione plausibile) correva l’onda d’urto degli eleati. In essa, a giudizio di Parmenide, non si trova nulla di stabile e assoluto perché «tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura», ma, nonostante ciò, lo sforzo del filosofo sarebbe proprio quello di riportare all’unità dell’Essere questa deludente precarietà.
Non così per lo scettico Pirrone di Elide (IV-III sec. a.C.), per il quale quanto appare (il fenomeno) è esattamente ciò che è in realtà. Per lui «niente è più questo di quello», ma la rinuncia a una conoscenza certa, non può che far bene alla psiche dell’uomo, perché la riavvicina alla natura senza più fisime e pretese intellettualistiche.
Da ultimo l’esplosione eleatica va a infrangersi contro la roccaforte di Plotino, il fondatore del neoplatonismo che, a proposito dell’ontologia eleatica, non fa cambiamenti di rilievo e si limita ad accogliere quelli del suo maestro Platone (e pure di Aristotele).
Però tenta un’impresa radicale: abbassa il livello dell’Essere, e nello stesso tempo unifica il rapporto fra la mente e i suoi oggetti. Per lui non esiste un’idea senza un pensiero che la pensa, forse non a livello individuale e umano, ma certamente a livello ontologico e universale. A differenza di Platone, non riteneva che esistesse un’intelligenza per il fatto che esiste un intelligibile che si lascia pensare, ma considerava il pensiero come una forza creatrice, che nel momento in cui conosce crea il suo oggetto. Il pensiero estetico dell’artista contemporaneo o il pensiero musicale del compositore ne sono esempi chiari, perché prima che pensassero il loro oggetto – la loro melodia o il loro quadro – questo non esisteva proprio. Nell’ordine della filosofia ciò significa che l’intelligenza (come ipostasi, cioè principio assoluto) crea l’Essere, il quale non è più il principio, ma il principiato (una parte inferiore della totalità del reale), una delle tante, come «la luce e la notte di cui tutto è pieno in ugual misura».
"Esse sequitur operari,
prima c’è l’energia e poi l’Essere!", avrebbe esclamato Plotino al colmo della sua speculazione, se invece di leggere il Poema sulla natura avesse letto Einstein.
I temi
Immagine seguita da didascaliaIn questo busto viene tradizionalmente identificato proprio Parmenide. Fu rinvenuto negli anni Sessanta del XX secolo a Velia. È oggi conservato nel relativo Antiquarium.
CHE COSA NON SI CAPISCE DI PARMENIDE
Parmenide è un eccitante; anzi se cambiassimo l’accento e lo chiamassimo Parmenìde
