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Plotino - Roberto Radice
Il filosofo
È una mania di casa Platone quella di moltiplicare gli enti e di moltiplicare i canali di comunicazione, complicando non poco la vita degli interpreti. Ha contagiato quasi tutti i platonici, Plotino compreso. Ma sulla cattiva strada – cattiva per gli esegeti – li aveva messi Socrate con l’uso dell’ironia, che in greco vuol dire dissimulazione
, ma che si può anche tradurre con prendere in giro
, per quanto a fin di bene.
Platone aveva fatto un passo in più. L’esperienza gli aveva insegnato che un conto è la filosofia espressa e un conto quella recepita, e che alla verità, semmai, si arriva in comitiva e non da soli,
«SFREGANDO INSIEME NON SENZA FATICA NOMI, DEFINIZIONI, VISIONI E SENSAZIONI, LE UNE CON LE ALTRE E METTENDOLE A PROVA IN CONFRONTI SERENI E SAGGIANDOLE IN DISCUSSIONI FATTE SENZA INVIDIA».
È a tal punto – qualche volta, ma non sempre – che improvvisa scaturisce una scintilla la quale fa luce su tutto. E qui, approfittando dell’evento, ciò che si riesce a vedere va messo al sicuro – in memoria – perché l’occasione potrebbe non più presentarsi.
Se questi sono i presupposti della ricerca, i risultati dipendono dalle persone con cui si interagisce, dalla loro disposizione d’animo, dalla fiducia reciproca e, non ultima, dalla capacità di comunicazione e di confronto. Ecco perché Platone ha scelto la forma del dialogo, e le cose di maggior valore
le ha riservate alla comunicazione orale: per il fatto che ambedue le modalità danno l’idea dell’indagine filosofica e realizzano concretamente il progresso del pensiero. In effetti sono di per sé strumenti plastici ed elastici, suscettibili di costanti e progressive correzioni e, oltre a ciò, sono capaci di selezionare l’uditorio.
Questo metodo ha fatto sì che il platonismo via via assumesse una forma di sistema, stabilizzandosi intorno a tre livelli soprasensibili e uno sensibile: quello dei principi, quello delle Idee, e quello psichico-demiurgico (cosidetto degli intermedi
) nell’ambito dello spirituale e quello cosmico nella sfera del materiale. I primi tre livelli sono interdipendenti e quello superiore determina l’inferiore. Questo schema arriva fino a Plotino che vi apporta formidabili correzioni e innovazioni e gli conferisce coerenza articolandolo in tre ipostasi l’Uno – al posto dei due principi platonici dell’Uno/Diade – l’Intelligenza/Spirito – al posto delle Idee e del demiurgo – e l’Anima/Cosmo.
Come vedremo nelle prossime pagine, il punto saliente di questa trasformazione della dottrina platonica è la via di accesso alla dimensione spirituale che abitualmente prende il nome di astrazione metafisica
. L’astrazione metafisica
, nel nostro caso, risulta più facilmente comprensibile se ci rifacciamo a quello che in psicanalisi si chiama regressione, la quale tra l’altro ha un corrispettivo terminologico nella via del ritorno
di Plotino. In effetti, la regressione indica il ritorno a una condizione antica, ad esempio all’infanzia, e a episodi o fatti di quel periodo che hanno molto influito sul nostro vissuto – e talora sulle nostre attuali difficoltà – e di cui si è persa la memoria. Questo stato sembra essere la chiave di volta per curare molti problemi psicologici, perché l’oblio ha prodotto una frattura nello sviluppo della personalità con gravi conseguenze; riportare alla coscienza questi stati e sanare tali fratture sembrerebbe il primo passo verso la salute. Con il ruolo importante della dimenticanza incomincia pure la ricerca filosofica di Plotino:
«CHE COSA È MAI QUELLO CHE HA CAUSATO NELLE ANIME LA DIMENTICANZA DI DIO PADRE E HA FATTO SÌ CHE, PUR ESSENDO PARTI DI LASSÙ, NON AVESSERO PIÙ ALCUNA CONOSCENZA DI LUI, NÉ DI SÉ, NÉ DI QUEL LUOGO».
È possibile calcare la mano su questa nozione di regressione e parlare di una regressione filogenetica, ossia relativa alla specie e non all’individuo. In tal caso sarebbero messi a nostra disposizione fenomeni della vita psichica non riconducibili a un’eredità personale – di quando eravamo piccoli –, bensì a un’eredità arcaica e originaria di quando l’uomo non era ancora umano, ma solo un vivente.
Ma quale continuità può esserci fra uno scimpanzé e un filosofo triste che va in analisi? L’evoluzione della specie biologica.
Se si prescinde dalla menzione della specie biologica – la quale avrebbe fatto inorridire il nostro filosofo che, personalmente, si vergognava di essere in un corpo –, la dottrina di Plotino non sarebbe estranea a questo esempio: anch’egli, indagando sulla sua anima e imboccando la via del ritorno alle origini, si trova innanzi a presenze aliene, cioè non sue. Si tratta dei dati dell’anamnesi o reminiscenza, che non sono derivati dall’esperienza, ma che rendono possibile ogni sorta di ragionamento: ad esempio – per tornare a un celebre concetto platonico –, l’idea di identico non fa capo ad alcuna sensazione – infatti al mondo non v’è nulla che sia perfettamente uguale –, ma se non la possedessimo fin dalla nascita non avremmo neppure l’idea di simile – il quasi uguale – e quindi la possibilità di compiere alcuna valutazione comparativa.
Questo, dunque, è un a priori, residente nell’anima da sempre e per sempre e, per così dire, a essa coessenziale.
Plotino ha quindi buon gioco a dedurre da esso la preesistenza dell’anima rispetto al corpo
e la sua eternità. Tuttavia lo specifico dell’anima non è il conoscere, ma l’atto del vivere
e la conoscenza le viene dalla partecipazione all’ipostasi superiore, ossia dall’Intelligenza. Ecco allora la regressione dell’anima secondo Plotino: riportata al suo stadio originario, l’anima si scopre Intelligenza, cioè un’altra natura, un’altra cosa di un altro mondo, che lui stesso nel testo appena citato chiama «dio padre […] di lassù».
Tanto per farsene un’idea, inventandoci una metamorfosi al contrario dove le farfalle diventano bruchi, e figurandosi un bruco triste che va dallo psichiatra, immaginiamo che quest’ultimo lo facesse regredire allo stato di farfalla. In questo preciso momento il suo mondo si dilaterebbe all’inverosimile, con la possibilità di volare di fiore in fiore nutrendosi di vari colori, in una luce varia e avvolgente, mentre prima era sempre all’ombra dello stesso albero, lento, impacciato e sempre tenuto alla medesima dieta. Da questa condizione l’anima del paziente non sarebbe più tornata perché avrebbe rotto la continuità della sua esistenza, non si riconoscerebbe più per quello che era prima e la sua guarigione consisterebbe proprio nel non essere più se stesso, ma – direbbe Plotino – un altro dio di ordine sovrapposto.
Questi sono gli esiti dell’astrazione metafisica plotiniana, per cui si passa dall’individuale – la coscienza individuale – allo Spirito e da ultimo all’unificazione col principio.
C’è però un prezzo da pagare per siffatto viaggio perché, oltre a essere disposti a perdere se stessi, tale via che abbiamo rappresentato nella regressione-sublimazione è descritta dal nostro filosofo come una sorta di ardua e faticosa semplificazione, sulla base del principio che tutte le cose che ci appartengono sono inessenziali, tutte quelle che ci costituiscono sono essenziali
.
Questa dipende dal fatto che al vertice della realtà si trova una sorta di forza unificante di portata infinita
, la quale richiama a sé tutte le realtà che essa stessa ha prodotto in maniera necessaria, lasciando la loro natura plurale e frammentaria per ridursi alla loro semplice natura e originaria unità.
In verità, nella prospettiva di Plotino, l’unità progressiva degli enti non è un continuum, ma comporta di tanto in tanto dei salti di livello, corrispondenti ai livelli di degenerazione a cui la disunità ha condotto. Ne offre un esempio il mondo fisico quando elementi diversi si uniscono fino alla formazione di un organismo; questo non è più dello stesso livello dell’agglomerato originario, ma è di un ordine sovrapposto, ossia è vivo.
Da questo momento l’insieme è più della somma delle parti. Qualcosa di analogo avviene nell’ambito spirituale: quando le anime potenziano la loro unità interiore e giungono a essere puro-pensiero-senza-alcun-oggetto-da-pensare (perché questo implicherebbe comunque un apporto esteriore all’anima), si trovano in un’unità di pensiero (soggetto) e pensato (essere), che è l’orizzonte proprio dell’ipostasi dell’Intelligenza. Quanto poi le anime volessero superare non solo la divisione, ma anche la distinzione fra pensante e pensato si troverebbero assimilati all’Uno in una sorta di estrema semplificazione che prende il nome di estasi.
E qui non c’è più modo di pensare, né di conoscere, né di esprimere in ragionamenti ciò che si è divenuti. L’unica via sarebbe quella del silenzio, che però non è comunicativa. Oppure c’è anche la via a posteriori – quando si tratta di un oggetto a partire dai suoi effetti –, che parla non di questo stato di assimilazione, bensì dell’esperienza legata a questo stato. In un certo senso qui si trova l’apogeo e la sintesi della metafisica plotiniana. Siccome siamo informati da Porfirio che Plotino più di una volta nella sua vita aveva goduto di esperienze estatiche, non resta che affidare alle sue parole gli effetti di questo stato:
«SOLLECITATO DALLE NOSTRE PAROLE, CI FOSSE ALMENO QUALCUNO CHE VOGLIA RISALIRE A LUI L’IPOSTASI UNO
PER COMPRENDERLO! E MAGARI
RIUSCIRÀ ANCHE A CONTEMPLARLO, MA STIA CERTO CHE POI NON SARÀ IN GRADO DI ESPRIMERE QUELLO CHE AVREBBE VOLUTO. DOPO AVERLO CONTEMPLATO IN SE STESSO, TRALASCIANDO OGNI PAROLA, TERRÀ PER VERO CHE EGLI È QUELLO CHE È PER CAUSA DI SE STESSO, TANTO CHE, SE PER CASO AVESSE UN ESSERE, QUESTO GLI SAREBBE SOGGETTO E, IN UN CERTO SENSO, GLI SAREBBE DEBITORE DEL PROPRIO ESSERE. ALLA SUA VISTA, PERTANTO, NESSUNO OSEREBBE ANCORA AFFERMARE CHE È COME GLI CAPITÒ
DI ESSERE; ANZI NON POTREBBE DIRE PROPRIO NULLA. E SE PURE TROVASSE IL CORAGGIO DI PARLARE, NE RESTEREBBE ATTERRITO, E NELL’AGITAZIONE NON TROVEREBBE UN DOVE
IN CUI ESSO SIA, PERCHÉ È COME SE L’UNO GLI FOSSE SEMPRE INNANZI, DAVANTI AGLI OCCHI DELL’ANIMA, E DOVUNQUE SI GIRASSE NON VEDREBBE CHE L’UNO, SALVO CHE, LASCIATO IL DIO, NON VOLGA L’ATTENZIONE A QUALCOS’ALTRO, NON PENSANDO PIÙ A LUI». (Enneadi, VI 8 19)
Si capisce bene che quella di Plotino non è una normale dottrina, in quanto non conosce la verità, dato che essa per principio non è conoscibile, ma è una filosofia a ontologia variabile
che cambia il modo d’essere delle persone man mano che avanzano sulla via cella ricerca. Certo, come direbbe Hegel, in questa avventura si perde il concreto e l’individuale, e ciò non è un bene in filosofia, anche se essere un po’ astratti
qualche volta aiuta a sopravvivere.
I temi
Questa immagine è un dettaglio del sarcofago detto «di Plotino», realizzato a Roma alla fine del III secolo e ora conservato presso i Musei Vaticani. Il defunto, al centro, è raffigurato nelle vesti di un intellettuale, mentre dispiega un rotolo di papiro.Questa immagine è un dettaglio del sarcofago detto «di Plotino», realizzato a Roma alla fine del III secolo e ora conservato presso i Musei Vaticani. Il defunto, al centro, è raffigurato nelle vesti di un intellettuale, mentre dispiega un rotolo di papiro.
L’EREDITÀ DI PLATONE E I SUOI PROBLEMI
La filosofia di Plotino si presenta allo storico come un evento improvviso, con un grado di novità e un livello di coerenza che non hanno precedenti. È il primo vero sistema della storia della filosofia, dove è visibile lo sforzo dell’autore per sistemare
nello schema principale che ha ideato tutti gli aspetti del suo sapere.
L’effetto sorpresa è determinato dalla genialità di Plotino, ma anche dal fatto che le notizie dei filosofi platonici e pitagorici che lo hanno preceduto sono piuttosto scarse e imprecise, e all’infuori di Numenio di Apamea grandi nomi non compaiono. Insomma, si viaggia nella nebbia e si vola basso, sicché, quando si incontra un rilievo di una certa consistenza esso sembra di proporzioni himalayane.
Tuttavia, nonostante queste considerazioni, la linea di evoluzione del platonismo è abbastanza chiara e rende onore sia alla grandezza del nostro personaggio, sia all’orientamento che ha seguito.
Platone aveva lasciato in eredità una dottrina quanto mai ricca e stimolante ma piuttosto squilibrata al vertice, perché effettivamente, quando egli giunge alla sommità della sua speculazione, anziché una vetta ne trova due: un principio (l’Uno) e un contro-principio (la Diade). In tali condizioni nessuno dei due può essere la cima, ma solo quello più in alto.
E allora perché non ammettere due principi ex aequo? Quante partite sono finite pari, e quante diarchie hanno funzionato nella storia dell’uomo? Certo: nella storia sì, ma non nella logica. Soprattutto quando uno volesse mettere due contraddittori al vertice della medesima realtà.
Eppure Platone una certa soluzione a questo problema l’aveva già proposta quando, nonostante tutto, cercava di privilegiare l’Uno sulla Diade (cfr. pp. 49-50), e nel contempo inventava un particolare tipo di rapporto polare
fra i due principi. Rapporto polare
traduce in filosofia quello che si osserva nel caso di una calamita – o di una batteria – in cui i due poli sono sempre presenti ed uno è la condizione dell’altro, tant’è vero che quando si spezza un magnete non è che si perda uno dei due poli, ma ricompaiono ambedue in ogni frammento.
Però questo è un esempio, e non una dimostrazione filosofica. E poi vale per il mondo sensibile e non per quello intelligibile – a cui appartengono le Idee –, in relazione al quale i due poli sono pur sempre idealmente
esistenti. Per tali ragioni si può ritenere che Platone non sia mai arrivato al fondo delle questioni di cui trattiamo e che abbia consegnato ai successori un sistema instabile, che nella tradizione platonica in più occasioni ha cercato nuovi equilibri. A dire il vero con una certa fatica, perché i filosofi medioplatonici che lavorarono su questi temi non presero in considerazione la più radicale teoria dei principi e si fissarono sui concetti di demiurgo e di Idee da un lato (considerarono, infatti, le Idee non come oggetti intelligibili, ma come pensieri di dio) e sul principio materiale dall’altro. In tal modo anch’essi si appoggiarono a una diarchia
