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Seneca - Roberto Radice
Il filosofo
Seneca non sarà stato il più bravo filosofo del mondo, ma il più ricco sì. Marco Aurelio forse lo era di più: non in quanto imprenditore, ma in quanto imperatore.
E poi Seneca, tutti i suoi soldi se li era meritati. Era abbastanza spregiudicato come consulente politico, lungimirante come amministratore, tanto che scrisse il trattato I benefici («sulla bontà e sulla casistica del rapporto tra benefattore e beneficato»: in pratica sulle tangenti), inserendo un po’ di regole in un campo di per sé disordinato, ma che avrebbe avuto un ampio sviluppo in seguito fino ai nostri giorni. Era colto, di buona famiglia, aperto a tutti i nuovi influssi, senza pregiudizi. Osò perfino rendere pubblico onore al famigerato Epicuro, da tutti ritenuto un impresentabile edonista – quando in verità era un perfetto asceta – e, quel che conta, suo diretto concorrente: epicurei contro stoici era una specie di derby, durante l’Ellenismo.
E poi era insuperabile come scrittore: moderno, agile e incisivo come un giornalista; essenziale, mai erudito, e lineare come uno dei sette saggi. Un periodare costruito con «frasi brevi, staccate, acute, luminose, improvvise […] ha fatto di lui, fra gli scrittori latini, quello che parla a noi la lingua più viva». (Giovanni Reale)
Immagine seguita da didascaliaSeneca accompagnò l’ascesa al trono di Nerone e lo guidò durante il cosiddetto periodo del buon governo
, cioè il primo quinquennio del principato. Questo gli procurò enormi ricchezze.
Questo non era solo un dono di natura, ma corrispondeva a un habitus intellettuale prodotto da una vera e propria scienza della comunicazione di lunga tradizione, nata in ambiente sofistico e sviluppata in ambiente socratico con la scuola cinica. Furono i cinici a scoprire la capacità seduttiva dell’esempio e a creare di conseguenza l’immagine del saggio distinta da quella del filosofo. Saggio che spesso – è questo il caso di Diogene – non aveva grandi pensate, ma sapeva generare un’aneddotica che faceva tendenza.
Diogene viveva in una botte e si racconta che alla richiesta di quale fosse la sua professione rispondesse: «Comandare agli uomini». Dopo di che additò un tale di Corinto che indossava una veste pregiata di porpora e disse: «Vendimi schiavo a quell’uomo: ha bisogno di un padrone». Due indicazioni a complemento. La botte era presso il tempio di Cibele, luogo di gran traffico. La sua presenza non passava inosservata. Così la sua fama divenne incontenibile. E poi farsi vendere come schiavo per comandare a un ricco padrone era come dire, senza sillogismi né astratte deduzioni, che la sapienza di Diogene era più forte di qualsiasi ricchezza. Una lezione indimenticabile. Aveva in mano la chiave della pubblicità e il linguaggio dei media.
Poi l’intuizione dei cinici passò agli stoici. E questo non fu tanto effetto della filosofia, ma dell’iniziativa e dello spirito imprenditoriale di Zenone e soci. Costoro semplicemente si annessero il cinismo come si erano annessi l’arte poetica, non perché l’uno e l’altra avessero a che fare con la verità (Zenone sapeva benissimo che «il poeta alcune cose le dice secondo opinione, altre secondo verità») o dessero un contributo teoretico alla loro dottrina, ma per il fatto che attraevano l’attenzione della gente e facevano tendenza. Per lo stoico Apollodoro di Seleucia «il saggio dovrà essere cinico, perché il cinismo è la via breve alla virtù» (uno stoicismo che fa effetto subito!) e secondo Cleante per il motivo che
«LA STRETTA DISCIPLINA DELLA POESIA RENDE PIÙ SQUILLANTI I NOSTRI SENTIMENTI».
Insomma, è come se gli stoici avessero acquisito una società di comunicazione e pubblicità già affermata sul mercato, senza stare a guardare al suo statuto dottrinale.
Del resto la dottrina stoica era già predisposta a questa finalità sia quando sosteneva che il saggio doveva in qualche misura far tralucere la sua bellezza interiore anche all’esterno (Crisippo: «solo chi raggiunge la saggezza è veramente bello […] e per questo il saggio è grande, imponente, alto e forte», e incute soggezione, rispetto e ammirazione) sia quando affermava che la lingua non è solo il veicolo di comunicazione del logos, ma anche strumento costitutivo di esso nel senso che le prime voci
, cioè i nomi dati agli oggetti dai primi uomini, avrebbero imitato le cose, rivelando la presenza del logos. Tale manifestazione passa attraverso il linguaggio e la voce umana, di modo che, anche se la fissazione dei nomi è storicamente opera di uomini, nella sostanza dipende dalla natura in quanto logos. Si capisce allora perché la poesia che è maestra di nomi goda di una così alta considerazione.
Seneca dunque si inserisce a pieno titolo in questa linea di pensiero, innanzitutto semplificando i contenuti da diffondere, per evitare che un esagerato numero di dati o un eccesso di astrattezza scoraggino i lettori con la loro lunghezza e complicazione:
«IO NON AFFERMO CHE NON BISOGNA NEPPURE DARE UNO SGUARDO A QUESTE COSE SOFISTICATE, MA SOLO UNO SGUARDO E UN SALUTO DALLA SOGLIA, UNICAMENTE PERCHÉ NON CE LA DIANO A INTENDERE, FACENDOCI CREDERE CHE IN ESSE CI SIA UN QUALCHE GRANDE BENE NASCOSTO. PERCHÉ TORMENTARSI E CONSUMARSI SU UN PROBLEMA CHE SAREBBE PIÙ INTELLIGENTE TRASCURARE CHE RISOLVERE?» (Lettera 49, 6).
In secondo luogo Seneca fissa l’attenzione sull’etica e, o tutt’al più, su quei concetti della fisica che sono strettamente connessi all’etica – ad esempio la provvidenza, il logos, la necessità, dio –, per condurre senz’altro il lettore in medias res:
«IO, LUCILIO, SONO SOLITO FARE COSÌ: DA OGNI NOZIONE, ANCHE SE NON HA NIENTE A CHE VEDERE CON LA FILOSOFIA, CERCO DI ESTRARRE E DI OTTENERE QUALCOSA DI UTILE. CHE COSA C’È DI PIÙ ESTRANEO AL MIGLIORAMENTO DELLA CONDOTTA MORALE DEGLI ARGOMENTI OR ORA TRATTATI? COME POSSONO RENDERMI MIGLIORE LE IDEE PLATONICHE? QUALE INSEGNAMENTO NE RICAVERÒ CHE TENGA A FRENO LE MIE PASSIONI?» (Lettera 58, 26).
In terzo luogo il nostro filosofo non trascura del tutto i casi umani e i precetti particolari (ad esempio quelli che convengono al marito nei rapporti con la moglie, o al padre riguardo ai figli, o al figlio nei confronti della madre) per approfondire solo i principi etici generali (quelli che abbracciano la vita nel suo complesso
), perché in tal modo si possono meglio affrontare i problemi della gente nella loro concretezza.
Infine lo stesso linguaggio sapienziale
usato da Seneca particolarmente nelle lettere e nei trattati ha un grande effetto sulla condivisione del sapere e la sua divulgazione, perché è costruito per imprimersi nella memoria del lettore, per essere citato e mantenersi stabile come fosse inciso sulla pietra. Molti suoi discorsi includono espressioni lapidarie che sembrano fatte apposta per essere citate, e alcune di esse effettivamente sono diventate celebri. Ad esempio, per limitarci a quelle che abbiamo usato in questo libro: «facere docet philosophia non dicere» (la filosofia insegna ad agire e non a parlare
); «homo sacra res homini» (l’uomo è una cosa sacra per l’uomo
); «ducunt volentem fata, nolentem trahunt» (i fati conducono chi li accetta, e trascinano chi non li accetta
); «velle non discitur» (la volontà non si impara
); «video meliora proboque, deteriora sequor» (vedo il meglio e lo approvo, ma seguo il peggio
). Tutte espressioni che al solo citarle in una frase – meglio se in latino – la impreziosiscono quanto al senso, e nobilitano chi le pronuncia.
Tutto questo vale per le sue opere in prosa, ma quando si passa a quelle in poesia tutto cambia. Seneca compose nove tragedie di ambientazione greca (Ercole furioso, Troiane, Fenice, Medea, Fedra, Edipo, Agamennone, Tieste ed Ercole sull’Eta) e per quanto non sembrino destinate a una pubblica rappresentazione, ma alla declamazione in gruppi ristretti, oggi non si direbbe una gran fortuna essere parte di questo pubblico selezionato.
Le sue tragedie sono truculente, improntate a «un’amplificazione retorica dei motivi», ben lontane dall’equilibrio della struttura classica; esagerate nei temi e nelle situazioni talvolta spinte al limite del grottesco.
Ma c’è una ragione anche per questo: Seneca ritiene che le tragedie altro non siano se non «il racconto in versi delle passioni che toccano agli uomini viziosi privi di ogni freno e inibizione, quasi fossero uno specchio in cui il pubblico vede ingigantiti i propri difetti» e, di conseguenza, è invitato a potenziare la volontà di correggerli.
Immagine seguita da didascaliaL’attività di drammaturgo di Seneca si giova spesso delle grandi figure della mitologia greca, anche se con minuta reinvenzione delle vicende. Tra queste Medea, cui George Romney nel 1786 attribuirà le fattezze di Lady Hamilton.
La tragedia non è solo un’opera d’artista, ma anche un’opera da filosofo, cioè «una categoria metafisica sviluppata al fine di illustrare la condizione umana».
Dunque anche quest’arte pare assimilata a una forma di comunicazione di temi morali. Quanto alla crudezza e alla caduta di stile di certe scene, è bene non dimenticare che il nostro filosofo e il pregiato pubblico invitato alle sue tragedie frequentavano la casa di Nerone, e fra quello che vedevano in scena e quello che accadeva nella famiglia dell’imperatore non passava una gran differenza.
Immagine seguita da didascalia«A chi mai era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai più, dopo aver ucciso madre e fratello, che aggiungere l’assassinio del suo educatore e maestro». Così commenta Tacito la morte del filosofo. Seneca fu costretto al suicidio dall’imperatore, che aveva preso a pretesto la congiura dei Pisoni per condannarlo.
La retorica e l’arte di Seneca sono dunque costruite in funzione della comunicazione, partecipano al progetto di moralizzazione generale che nelle sezioni seguenti cercheremo di illustrare, e altresì realizzano l’intenzione terapeutica dell’anima che il neostoicismo romano aveva ben presente e aveva sviluppato con fine penetrazione psicologica.
È certo che se vivesse ai nostri tempi sarebbe nel ramo della comunicazione, un creatore di slogan e di immagini pubblicitarie. L’icona della sua filosofia campeggerebbe su tutti i palazzi del centro e sarebbe l’immagine di un carro che corre in discesa con due cani legati: l’uno che ne asseconda il moto con andatura disinvolta e sciolta e con minimo sforzo, l’altro che si oppone al movimento del carro, eppure vi è trascinato pesto e sanguinante. E sotto l’immagine la didascalia «Io non obbedisco a dio: sono d’accordo con lui».
È la sua filosofia!
Molti lo seguirebbero; e qualcuno apprezzerebbe perfino le sue tragedie quasi fossero film dell’orrore, come ai tempi di Nerone, perché anche la realtà di oggi sa essere truculenta e drammatica ancor peggio della fantasia tragica.
Seneca ci avrebbe scommesso quando diceva:
«TUTTE LE EPOCHE GENERERANNO DEI CLODI [SIMBOLO DEL VIOLENTO E DEL FAZIOSO], NON TUTTE DEI CATONI [SIMBOLO DELL’ONESTÀ E SAGGEZZA]. SIAMO INCLINI AL MALE, PERCHÉ NON CI MANCA MAI UNA GUIDA O UN COMPAGNO, E POI PERCHÉ AL MALE SI VA ANCHE SENZA UNA GUIDA O UN COMPAGNO».
Non c’è dubbio, geniale com’era, filosofo e anche opinion maker, se rivivesse diverrebbe ancora una volta il più ricco dei filosofi.
I temi
Immagine seguita da didascaliaLa minuzia barocca di questo busto di Seneca, dovuto a un anonimo del XVII secolo e conservato presso il Prado di Madrid, restituisce il volto del filosofo vicino al suicidio: fu infatti costretto a congedarsi dalla vita poco prima dei settant’anni.
LE PREMESSE DELLA FILOSOFIA DI SENECA
Lo stoicismo che arriva all’orecchio di Seneca, e si presenta alla sua riflessione, non è quello della prima generazione, quello dei fondatori d’età ellenistica – Zenone, Cleante e Crisippo –, e neppure è lo stoicismo della seconda – i cosiddetti mediostoici del II-I sec. a.C. Si tratta piuttosto dello stoicismo di terza generazione, di formazione romana, migrato dalla Grecia e ben accetto alla mentalità della penisola, adottato dalla classe dei senatoriali, oppure dai sopravvissuti di una rigida e virile
sapienza quando ormai il mondo del regime imperiale non era più né rigido né virile, ma viscido e lascivo. Del resto anche i primi stoici al tempo dell’Ellenismo erano dei sopravvissuti, e tutti i filosofi di quel tempo parevano medici più che teoreti, e così pure i loro seguaci sembravano sofferenti, spaesati e senza più un riferimento certo: altrimenti non si sarebbero rivolti ai filosofi, ma a qualcuno di meglio.
C’è da dire che questi filosofi – soprattutto gli epicurei e gli stoici – non erano degli sprovveduti e non vivevano nelle nuvole, ma avevano ben compreso la nuova aria e le esigenze dei tempi, con questo assumendo la veste e i metodi di medici. Semplici medici ambulatoriali, però, che non inventavano i loro rimedi ma prendevano le medicine in commercio e le adattavano ai malati a seconda delle necessità e della loro consistenza intellettuale. Naturalmente prescrivevano farmaci di pronta assimilazione perché facessero effetto subito, non come quelli che consigliavano Platone e Aristotele, destinati a entrare in circolo dopo vent’anni che venivano assunti e al seguito d’una vita di studio e d’impegno.
Gli stoici presero da Eraclito ed Epicuro dagli atomisti. In prospettiva teoretica era un regresso strepitoso, ma l’efficacia dal punto di vista della consolazione, dell’edificazione morale e della comunicazione filosofica fu un progresso straordinario. Si potrebbe dire che i loro farmaci erano di formula semplice ma di buon effetto.
Il merito di ciò stava anche nei maestri di questa nuova filosofia, i quali, sulla scia di Socrate, non erano solo pensatori, ma anche saggi. Dei santoni che insegnavano con l’esempio oltre che, naturalmente, con la parola. A dire il vero qualcuno di loro insegnava quasi solo con l’esempio, come ad esempio il cinico Diogene che tranne qualche battuta non ha detto quasi nulla.
Però gli stoici si ritenevano a tutti gli effetti filosofi e desideravano dare stabilità alla loro dottrina. Così la articolarono in tre discipline di cui due – la logica e la fisica – erano a sostegno della terza: l’etica. Tuttavia nel passaggio dallo stoicismo punto zero
(lo stoicismo antico) allo stoicismo punto due
(il neo-stoicismo) ci fu un’evoluzione del programma nel senso della semplificazione. Seneca, ad esempio, si era convinto che non occorresse puntellare e giustificare la morale, perché questa, se è buona, si regge da sé nell’esercizio di fatto. E
