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Marco Aurelio - Roberto Radice
Il filosofo
Lo stoicismo di cui Marco Aurelio faceva parte invita a formare un neologismo, i preistoici
, certo un po’ audace, considerato che va ad aggiungersi alle categorie che la storia ha già coniato a proposito di questa filosofia, e cioè vetero-stoici
, medio-stoici
e neo-stoici
. Però da questa classificazione resterebbero esclusi gli autori che hanno anticipato gli Stoici o hanno suggerito intere parti della loro dottrina. Così, in perfetta simmetria con la storia generale che a precedere la storia antica ha messo un’epoca preistorica, noi a precedere i vetero-stoici metteremo i preistoici
.
Ma da dove viene questa idea? Dal fatto che è la prima volta – o al massimo la seconda, dopo Epicuro con gli atomisti – che un pensiero viene riproposto a distanza di tempo e rinasce con un nome diverso e praticamente uguale nel contenuto, ma in un’ottica e con una profondità e una calibratura differenti. In effetti lo stoicismo è una forma di eraclitismo.
Marco Aurelio come si rapporta allo stoicismo?
Innanzitutto fu l’ultimo della serie degli Stoici e preso come individuo fu un unicum: il più grande imperatore di Roma, reggitore del mondo come lo sarebbe stato il logos medesimo se si fosse incarnato. Il precedente grande stoico, Epitteto, a cui il nostro filosofo deve non poco, fu il più piccolo cittadino dell’impero, uno schiavo, ossia l’ultima persona in cui la Ragione, cioè il principio del logos, si sarebbe incarnato. Non certo per razzismo, ma perché da Aristotele in avanti tutti sapevano che se gli schiavi sono quel che sono dipende dal fatto che non hanno ragione sufficiente a governarsi da soli.
Questo finale col botto
ci parla dell’evoluzione dello stoicismo dal momento in cui si è trasferito da Atene a Roma: durante il viaggio ha subito una radicalizzazione intimistica, ha perso buona parte della dimensione logica e poi di quella fisica, polarizzandosi esclusivamente sull’etica.
Ma anche all’interno dell’etica si è dovuto notare il nascere della figura eroica del saggio, unico rappresentante della giustizia anche contro la volontà del logos (ad esempio nella figura di Catone nell’opera di Lucano in seguito citata), mosso da un iperbolico senso del dovere, mentre nell’antico stoicismo il dovere era ritenuto una condizione minima rispetto alle azioni rette. Il privilegio concesso all’interiorità con la scelta morale (prohairesis) di Epitteto e la cittadella interiore
di Marco Aurelio spesso hanno dettato anche il carattere autobiografico delle opere. In ciò gli ultimi esponenti della scuola potevano vantare l’illustre precedente di Eraclito che da giovane «aveva indagato se stesso, e aveva appreso tutto quanto da sé». A questo punto sono gli eventi quotidiani, o meglio la riflessione su di essi, a dettare il tema della ricerca e dell’opera, secondo un principio di universalizzazione che sa distillare dal caso specifico la regola universale.
Eugène Delacroix intende celebrare in questo olio su tela del 1844 le Ultime parole dell’imperatore Marco Aurelio. L’opera è conservata presso il Museo di Belle Arti di Lione.
In tal senso al nostro filosofo non si può chiedere un elevato livello di coerenza, perché a seconda dello stato emotivo in cui si trova e della sorte che deve fronteggiare reagisce con i suoi strumenti di stoico: talora esprimendo tutto il suo pessimismo come risposta al caso particolare che lo coinvolge (umano, politico o naturale), oppure come reazione alla condizione umana e morale del presente, talaltra mostrandosi straordinariamente confidente nell’universale (la Ragione, la Provvidenza, Dio), quasi per contrastare lo stato di cose che si trova davanti. Per questo qualcuno, come Ernst Renan, lo ritenne un non-filosofo, visto che era privo di ogni dogmantica, capace solo di tenere in sospeso problemi insoluti e fondamentali come se niente fosse, senza mai risolvere alcuna controversia.
In effetti non si può dar torto a questo studioso se si tiene conto del frequente riferirsi di Marco Aurelio alle soluzioni stoiche o atomistiche (cioè epicuree) come se fossero equivalenti, quando invece, storicamente, le due scuole furono antitetiche.
A tal proposito si notino le disinvolte equiparazioni in Pensieri, IX, 28: «Perchè stai in tensione? In qualche modo, o gli atomi o il destino [stanno a capo del mondo]»; in Pensieri, VII, 32: «Sulla morte: o dispersione, se ci sono gli atomi; se invece c’è l’unità, o spegnimento o trasferimento»; in Pensieri, IX, 39 «O tutti gli accadimenti, venendo da una sola fonte intelligente, capitano come a un solo corpo […], o ci sono gli atomi e, quindi, nient’altro che mescolanza e dispersione!»; in Ricordi, X, 6: «Ci siano gli atomi o la natura, rimanga innanzitutto stabilito che io sono parte di una realtà che oscilla paurosamente». E ancora si considerino questi passaggi: Pensieri, VI, 36 «Tutto di là viene, prendendo impulso da quel comune egemonico o discendendone come conseguenza. Dunque, le fauci del leone, ciò che è tossico, ogni cosa atta a produrre fastidi, come spine e fango, sono effetti secondari di quelle realtà belle e piene di dignità. Di conseguenza, non rappresentarti queste come estranee a ciò che è oggetto della tua pietà religiosa, ma pensa alla fonte di tutte le cose!»; Pensieri, IX, 14 «Tutto ciò è consueto a livello di esperienza, effimero quanto al tempo, sudicio per la materia» e Pensieri, IX, 36 «Il putrido della materia, sostrato di ciascuna cosa, è l’acqua, la polvere, le ossa, lo sporco».
Renan ha ragione: Marco Aurelio non è un filosofo, perché altrimenti non tollererebbe tali contraddizioni (tutti i filosofi sono allergici alle contraddizioni), ma non è vero che sia estraneo alla filosofia. In verità è più di un filosofo: è un saggio. Un saggio di serie B. Gli stoici, invero, ebbero anche saggi di serie A: quelli che sono belli perché l’aspetto dell’animo è migliore di quello del corpo (SVF, III, 591), che sono austeri (SVF, III, 637), grandi, robusti, sublimi e possenti (Zenone, SVF, I, 216), imperturbabili e inerranti (Zenone, SVF, I, 54), invincibili (SVF, III, 592), gli unici veramente liberi (SVF, III, 544) e così via.
Ma esisteranno davvero saggi fatti così? «Fino a oggi, riferisce la tradizione stoica, non si è riusciti a trovare nemmeno un saggio come loro [gli stoici] dicono» (Diogene di Babilonia, SVF, III, 32) e sorge perfino il dubbio che neppure i fondatori della scuola stoica fossero dagli stessi discepoli conteggiati fra i saggi.
Ecco, Marco Aurelio non era un saggio di serie A, ma di serie B, quelli che la tradizione vetero-stoica classificava come progredienti sulla via della virtù, ma per niente virtuosi e per niente felici.
«MA, A QUESTO PUNTO, RESTA UN MISTERO, QUASI QUASI UN’IDEA FOLLE, CHE COSA SI INTENDA QUANDO SI DICE PROGRESSO, SE È VERO CHE QUELLI, CHE GRAZIE APPUNTO AL PROGRESSO, SI SONO LIBERATI DALLE PASSIONI E DALLE INFERMITÀ DELL’ANIMA, SE PURE NON COMPLETAMENTE, SONO ALTRETTANTO INFELICI DI CHI NON SI È ALLONTANATO DI UN PASSO DAI PEGGIORI VIZI» (SVF, III, 535).
E ancora:
«L’UOMO CHE ABBIA GIÀ COMPIUTO SIGNIFICATIVI PROGRESSI IN DIREZIONE DELLA VIRTÙ È NON MENO IN MISERIA DI QUELLO CHE NON HA FATTO NESSUN PROGRESSO» (SVF, III, 530).
E infine:
«DICE CRISIPPO: CHI HA REALIZZATO IL MASSIMO PROGRESSO ADEMPIE COMPLETAMENTE A TUTTI I DOVERI, SENZA TRASCURARNE ALCUNO. A SUO GIUDIZIO, LA VITA DI COSTUI NON È ANCORA FELICE, MA LA FELICITÀ SOPRAVVIENE QUANDO LE AZIONI INTERMEDIE IN QUANTO TALI SI CONSOLIDANO E ACQUISTANO LA LORO STABILITÀ ABITUALE» (SVF, III, 510).
Tuttavia le cose in filosofia si evolvono come nei tornei di calcio, e in una stagione fortunata con giocatori di gran classe (Musonio, Seneca, Epitteto e Marco Aurelio in campo e Giovenale e Lucano in panchina) la situazione si capovolse. Il saggio di serie A perse peso e al seguito della sua esaltazione etica finì fra le nuvole e non fece più ritorno in campo; quello di serie B, grazie alla guida di Seneca, che rivoluzionò tutti i moduli del gioco, e alla preparazione atletica di Musonio (il teorico dell’esercizio in filosofia, perché la fatica dell’allenamento cura sia l’anima che il corpo), entrò nel massimo torneo e in breve ne uscì vincitore.
Ed ecco quanto è da dirsi sulla preparazione atletica dei neostoici:
«DELL’ESERCIZIO UN TIPO DOVREBBE ESSERE GIUSTAMENTE PROPRIO DELLA SOLA ANIMA, L’ALTRO TIPO COMUNE A QUESTA E AL CORPO. L’ESERCIZIO COMUNE A ENTRAMBI DA UN LATO LO SI AVRÀ QUANDO CI ABITUEREMO INSIEME AL FREDDO E AL CALDO, ALLA SETE E ALLA FAME […], ALLA PRIVAZIONE DEI PIACERI E ALLA SOPPORTAZIONE DELLE FATICHE. È ATTRAVERSO QUESTE E SIMILI ABITUDINI CHE SI RINFORZA IL CORPO […] E ANCHE L’ANIMA CHE VIENE FATTA ESERCITARE ATTRAVERSO LA SOPPORTAZIONE DELLE FATICHE IN VISTA DELLA VIRILITÀ E ATTRAVERSO LA PRIVAZIONE DEI PIACERI, IN VISTA DELLA TEMPERANZA» (Musonio, Diatriba, VI).
Ma Musonio non ignorava che nei tornei di filosofi mente e corpo, se pure devono subire un’educazione comune, non per questo devono essere equiparati. Sono le virtù che hanno un duplice aspetto: per metà materiali – da condursi nella vita concreta di tutti i giorni – e per l’altra metà radicate nell’anima, nella sfera delle intenzioni e dei valori. E neppure il saggio può sottrarsi a questa necessità.
Ecco la dichiarazione dell’allenatore in capo, il teorico della saggezza, Lucio Anneo Seneca: «I filosofi non mettono in pratica ciò che dicono. È già un buon metterlo in pratica il parlarne e il concepirlo con onestà di mente; se, per giunta, le loro azioni corrispondessero ai loro discorsi, quale essere risulterebbe più felice di loro? Dunque non è giustificato il tuo disprezzo per i buoni discorsi e per i cuori colmi di buoni pensieri. La meditazione sulle proprie aspirazioni al bene è già lodevole, anche a prescindere dai risultati. È meraviglia se non raggiungono la vetta, avviati come sono su un sentiero scosceso? Se sei uomo, ammira il loro generoso tentativo, anche quando li vedi cadere. È impresa nobile il tentare non a misura delle proprie forze, ma di quelle della propria natura, l’attaccare vette eccelse ed il concepire disegni superiori anche alle capacità di chi è naturalmente magnanimo. Un uomo si è proposto: Guarderò la morte con lo stesso volto che ho quando ne sento parlare. Mi assoggetterò alle fatiche, per gravose che siano, sorreggendo il corpo con l’animo. Disprezzerò ugualmente le ricchezze che ho e quelle che non ho, senza rattristarmi se si trovano in casa d’altri, senza imbaldanzirmi se splendono attorno a me […] quando la natura mi toglierà il respiro o la ragione lo congederà da me, me ne andrò rendendo testimonianza d’aver amato la buona coscienza e le buone aspirazioni, e che nessuno ha subìto da parte mia diminuzioni della sua libertà, meno ancora io
. L’uomo che si proporrà, deciderà, tenterà di attuare questo programma, camminerà verso gli dei e certo, anche se non li raggiunge, almeno cade nell’ardita impresa» (Seneca, La vita felice, 20, 1 e ss.).
Scena di battaglia in questo particolare della Colonna di Marco Aurelio. Realizzata nel 180-193 in onore dell’imperatore, si trova in Piazza Colonna a Roma.
Marco Aurelio, come vedremo dalle pagine che seguono, ha fatto tesoro degli insegnamenti dell’uno e dell’altro filosofo, non è divenuto il saggio onnipotente, ma quello che ce l’ha messa tutta
. Però, per lo meno, ha avuto un posto di prim’ordine nella storia umana.
I temi
Immagine seguita da didascaliaLa statua equestre di Marco Aurelio che possiamo ammirare oggi sostituisce l’originale del 176 che Michelangelo, in base alla risistemazione architettonica progettata per papa Paolo III nel 1534-38, pose al centro della piazza del Campidoglio e che, dopo un restauro, si trova ora nei Musei Capitolini.
ALLE ORIGINI DEL PENSIERO DI MARCO AURELIO
Se si dovesse ridurre tutto a filosofia, e lasciar perdere i tratti personali, la sensibilità, e anche gli umori di una persona, il profilo del nostro filosofo sarebbe nel complesso semplice da tracciare.
Tutto cominciò da Eraclito. O forse da Cratilo, discepolo diretto di Eraclito. Il primo aveva messo in circolo una dottrina fondata soprattutto sull’elemento del fuoco come principio cinetico e vitale del cosmo; il secondo ha sviluppato quasi esclusivamente l’aspetto dinamico della realtà nella celebre massima del panta rei, ossia «tutto scorre». Ebbene, una tale concezione non significa solamente che niente al mondo sta fermo, ma anche che un medesimo oggetto può scorrere
in più modi contemporaneamente: ad esempio, un maratoneta corre, si accalora, diventa rosso, pensa alle strategie di gara tutto nello stesso tempo. Così qualsiasi concetto io mi faccia di lui – o di un qualsiasi ente – non ha modo di fissarsi, vuoi per la volubilità di chi lo pensa, vuoi per il fluire della sostanza e per la mutevole collocazione dell’ente pensato. E perché no, anche per il moltiplicarsi delle prospettive e delle qualità che i soggetti e gli oggetti senza sosta assumono.
A questa stregua non è più possibile neanche pensare e neppure pronunciare una parola che abbia un senso reale. E infatti Cratilo (DK 65, 4) «finì col convincersi che non si dovesse neppure parlare, e si limitava a muovere semplicemente il dito».
Nasceva in questo modo, in senso gnoseologico, una linea scettica che di per sé tendeva a sovrapporsi sia al pensiero di Eraclito sia a quello di Pirrone di Elide (IV-III sec. a.C.), il fondatore dello scetticismo.
Pirrone muoveva da questo principio: «niente è più questo che quello», ossia non ci sono elementi che permettano di discernere in maniera netta il vero dal falso e pertanto nessuno può decidere inequivocabilmente pro o contro una tesi. Quindi, dal punto di vista della conoscenza, bisogna sospendere il giudizio.
Tuttavia, se questa inconcludenza vale dal punto di vista della verità, nella prospettiva morale – in ordine all’essere felici e al modo agire – non si può restare eternamente in sospeso, perché la vita incalza. E, d’altra parte, non è neppure necessario restare in sospeso, dal momento che, tolta ogni costruzione astratta, la retta condotta e
