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Eraclito - Roberto Radice
Il filosofo
È particolarmente importante comprendere che tipo fosse da vivo Eraclito di Efeso perché, come vedremo nelle sezioni successive, i pochi frammenti rimasti della sua opera sono piccola cosa, e inoltre non rendono un pensiero coerente, né introducono a una tradizione unitaria. La tradizione è infatti spezzata in due: la linea del fuoco
– ossia la dottrina che considera il fuoco come principio – e la linea del moto
– cioè la dottrina che considera il divenire come principio. Lo stesso identico destino è toccato agli anti-eraclitei, cioè gli Eleati: il pensiero di Parmenide appare spezzato in due parti non unificabili. In ambedue i casi la responsabilità è per lo più dei discepoli diretti: Cratilo per Eraclito; Zenone e Melisso per Parmenide.
Nel caso di Eraclito, seguirono la linea del fuoco
gli stoici e invece seguirono la linea del moto
gli scettici. Questi ultimi, con una specie di capriola filosofica, condannavano tutte le dottrine in quanto dogmatiche e prive di dimostrazione, ma per fare ciò si appoggiavano alla filosofia eraclitea, precisamente nella versione data dal suo discepolo Cratilo.
Tuttavia, fu soprattutto l’eraclitismo degli stoici – che assorbe quasi tutta la dottrina dell’Efesino e la sviluppa in direzione etica – che fa specie. Fu una filosofia filantropica che da un lato proclamava l’amore fra gli uomini (così Crisippo in SVF III 292: «Amore è armonia nelle cose della vita, […] è una comunione di vita, un’amicizia e un affetto ardente e conforme a retta ragione») e dall’altro bandiva ogni forma di misericordia, perché
«NON C’È INDULGENZA CHE MUOVA IL SAGGIO, NÉ PERDONO PER ALCUN DELITTO; PERCHÉ SOLO L’INSIPIENTE E LO SCIOCCO POSSONO TROVARE MISERICORDIA» (così Zenone in SVF I 214).
La questione da porsi è la seguente: poteva riconoscersi il padre Eraclito nella filosofia dei lontani nipoti stoici?
Eraclito è passato alla storia con l’epiteto di oscuro perché scriveva per enigmi, in perfetta tradizione oracolare, a imitazione del sacerdote di Delfi che «non dice né nasconde, ma allude» (DK 22 B 93). La cosa sorprendente è che Eraclito faceva apposta a non farsi capire, perché quando depose la sua opera filosofica come offerta nel tempio di Artemide la trascrisse «nella forma più oscura possibile, affinché vi si accostassero soltanto quelli che erano in grado di capirlo» (DK 22 A 1). Era insomma «altero e sprezzante» fino al punto di diventare misantropo e da ultimo, a parere di Teofrasto, decisamente matto «a motivo della melancolia, ossia della bile nera». Del resto la pazzia per il filosofo è la morte sua
, come la polenta per il baccalà. Qualcosa del genere è successo anche a Democrito, e forse a Empedocle; neppure Lucrezio alla fine era molto lucido. Tutti costoro da giovani avevano pensato troppo!
Ma com’erano effettivamente i rapporti fra gli Efesini e il nostro autore? Lo spiega bene Temistio nel frammento 22 A 3b: «Gli Efesini erano abituati a una vita di lusso e di piacere; ma scoppiò una guerra contro di essi, e i Persiani circondarono e assediarono la loro città. Tuttavia essi continuavano a vivere divertendosi, secondo le loro abitudini. Ma, a un certo momento, nella città incominciarono a scarseggiare i viveri. Quando la fame incominciò a farsi sentire in maniera grave, i cittadini si riunirono per decidere sul da farsi, in modo che non venissero meno i mezzi di sostentamento. Però nessuno si sentiva di dare a loro il consiglio di porre limiti alla loro vita di lusso. E proprio mentre essi erano tutti radunati, un uomo di nome Eraclito, seduto in mezzo a loro, prese farina d’orzo, la mescolò con acqua e la mangiò, e questa fu una lezione data in silenzio a tutto il popolo.
Coloro che, senza parlare, mediante segni dicono ciò che si deve dire, non sono forse lodati e ammirati in modo straordinario? Così come Eraclito, il quale, pregato dai cittadini di pronunciare una sentenza sulla concordia, dopo essere salito sulla tribuna, prese una tazza di acqua fredda, vi sparse sopra della farina di orzo e dopo aver agitato il miscuglio con un rametto di erba di menta, lo bevve e poi se ne andò via, dimostrando loro che la città si mantiene in pace e in concordia, se ci si accontenta di ciò che si ha a disposizione, senza aver bisogno di cose lussuose. La storia dice che gli Efesini compresero subito l’ammonimento, e che non ce ne fu bisogno di nessun altro, ma se ne andarono, in quanto avevano constatato di fatto che dovevano in parte delimitare il loro lusso perché il cibo non mancasse. Ma quando i nemici vennero a sapere che gli Efesini avevano imparato a vivere in modo misurato, e che regolavano i pasti in base al consiglio dato da Eraclito, si allontanarono dalla città, e, pur essendo vincitori per le armi, di fronte all’orzo di Eraclito sgombrarono il campo».
Ciò che risulta da queste testimonianze è la fiducia e la stima che gli abitanti di Efeso ebbero per il loro filosofo, e altresì l’intelligente ricezione dei suoi messaggi. D’altro canto risulta pure la capacità di Eraclito di comunicare per gesti e simbolicamente, producendo eventi significativi che si impongono all’attenzione, secondo lo stesso metodo che in forma più radicale ed esagerata metteva in pratica il suo discepolo Cratilo per quanto si legge nel frammento 4:
«CRATILO FINÌ COL CONVINCERSI CHE NON SI DOVESSE NEPPURE PARLARE, E SI LIMITAVA SEMPLICEMENTE A MUOVERE IL DITO».
Tutto ciò, a ben vedere, non dimostra disprezzo o disattenzione per gli altri, ma la ricerca di un modo nuovo di comunicare, che sarebbe divenuto di moda ai tempi dei cinici, come cerchiamo di dimostrare nella sezione dei testi. Del resto per quale ragione dovrebbe considerarsi misantropo chi, come Eraclito, ha dedicato un terzo del proprio sapere alla politica, elevandola allo stesso livello della cosmologia e della teologia?
«IL LIBRO TRAMANDATO SOTTO IL NOME DI ERACLITO È UN TRATTATO DAL TEMA PRINCIPALE SULLA NATURA; PERÒ SI DIVIDE IN TRE PARTI: UNA COSMOLOGICA, UNA POLITICA E UNA TEOLOGICA» (22 DK A 1).
Certo non tutto filò sempre liscio, ma d’altra parte nel processo educativo c’è spazio anche per duri scontri, improvvise fratture e correzioni esemplari. Come quella volta che Eraclito «ritiratosi presso il tempio di Artemide, giocava a dadi con i bambini e, poiché gli Efesini gli si fecero attorno, disse: Di che cosa, o pessima gente, vi meravigliate? Non è forse meglio fare questo, piuttosto che prendere parte alla vita politica insieme con voi?
» (DK 22 A 1).
Il nostro filosofo nei suoi atteggiamenti fu un precursore del cinismo, e i cinici furono precursori dello stoicismo; anzi, potremmo dire, parti integranti dello stoicismo, da quando Zenone, Cleante e Crisippo inclusero il modo di vita dei cinici nella loro dottrina come via breve
alla saggezza. In questo modo avrebbero incluso anche il nostro pensatore, per quello che pensava, viveva e comunicava.
E d’altra parte anche lui era a suo modo un medico della sua città, come Socrate lo era per Atene: un medico rigoroso e inflessibile, poco propenso a condividere le pene dei sofferenti (senza misericordia come gli stoici), perché i sofferenti sono tutti stolti, ed è per questo che soffrono. Essere solidali con gli stolti significherebbe condividere la loro ignoranza; così farebbe il medico pietoso, che però, come vuole il proverbio, fa la piaga cancerosa
.
Ma sarà vero che Eraclito fu così insensibile come ci aspetteremmo da uno stoico-cinico ante litteram? Se dovessimo credere a una notizia diffusa da Seneca, non si direbbe proprio.
Fin dai tempi di Seneca la tradizione ha presentato un ossimoro – cioè una coppia antitetica – basata sulle figure di Eraclito piangente e Democrito ridente, a rappresentare due diversi atteggiamenti di fronte alla condizione umana.
I testi di origine sembrano essere i seguenti:
«ERACLITO, OGNI VOLTA CHE USCIVA DI CASA E SI VEDEVA ATTORNO TANTI INDIVIDUI CHE VIVEVANO MALE, ANZI MORIVANO MALE, PIANGEVA E AVEVA COMPASSIONE DI QUANTI GLI SI FACEVANO INCONTRO CONTENTI E FELICI: ERA D’ANIMO MITE, MA TROPPO DEBOLE, ERA DEGNO ANCHE LUI DI COMPIANTO. DICONO INVECE CHE DEMOCRITO NON SIA MAI COMPARSO IN PUBBLICO SENZA SCOPPIARE A RIDERE: FINO A QUESTO PUNTO NON GLI PAREVA SERIO NULLA DI CIÒ CHE ERA STATO FATTO SUL SERIO. C’È POSTO PER L’IRA, IN QUESTA SITUAZIONE IN CUI TUTTO È DA RIDERE O DA PIANGERE?» (De ira, II 10,5)
Seneca, condivideva con qualche riserva la posizione di Democrito e non quella di Eraclito:
«A QUESTO DUNQUE DOBBIAMO SFORZARCI DI ASPIRARE, A CHE TUTTI I VIZI DEI COMUNI MORTALI CI SEMBRINO NON ODIOSI MA RIDICOLI E A IMITARE PIUTTOSTO DEMOCRITO CHE ERACLITO».
E spiegava la sua scelta con la seguente motivazione:
«È MEGLIO ACCETTARE LE ABITUDINI COMUNI E I DIFETTI UMANI SERENAMENTE SENZA CADERE NÉ NEL RISO NÉ NELLE LACRIME; INFATTI TORMENTARSI PER LE DISGRAZIE ALTRUI SIGNIFICA INFELICITÀ INFINITA, PROVAR PIACERE DELLE DISGRAZIE ALTRUI È UN PIACERE DISUMANO, COSÌ COME QUELL’INUTILE ATTO DI COMPASSIONE CHE È PIANGERE PERCHÉ QUALCUNO PORTA A SEPPELLIRE IL FIGLIO, E ADATTARE A QUESTA CIRCOSTANZA LA PROPRIA ESPRESSIONE» (De tranquillitate animi, 15, 2-6).
Da questa vicenda, sia nel caso di Eraclito sia in quello di Democrito, non viene comunque un’immagine di insensibilità.
Luciano in Una vendita di vite all’incanto conferma questa idea. Qui si immagina che Zeus ed Ermes mettano all’asta i sapienti delle diverse scuole, fra i quali vengono offerti «i due migliori filosofi, i due pensatori più saggi di tutti»: Democrito ed Eraclito. Il primo per tutto il tempo non smette di ridere e il secondo non fa che piangere. Democrito spiega il suo atteggiamento dicendo che non c’è «nulla di serio nei problemi dell’uomo, solo un vuoto di atomi e spazio infinito». Eraclito invece spiega che il suo pianto è spinto dalla pietà per l’infelice condizione umana: «O straniero, io penso che tutte le faccende umane siano tristi e deplorevoli e nessuna si sottrae alla morte. Per questo sento pietà per voi uomini e piango. Il presente non è una gran cosa e il loro futuro è certo peggiore (mi riferisco alla grande conflagrazione e al collasso dell’universo; per questo io piango, perché nulla è stabile), ma tutte le cose sono unite insieme in una specie di miscuglio e tutto, gioia e pianto, sapienza e insipienza, grande e piccolo sono lo stesso; girano senza tregua su e giù nel gioco del tempo circolare».
Il profilo psicologico che la tradizione ci permette di tracciare mostra, nel caso dei due personaggi, un comune sfondo pessimistico, ma reazioni umane all’apparenza differenti. Però, se ancor oggi vale l’espressione ridere per non piangere
, una ragione ci deve pur essere. È quella espressa dal compratore delle Vite, che rifiutò entrambi i personaggi in quanto completamente inutili all’umanità.
Fecero bene gli stoici che, per umanizzare la filosofia, introdussero nel mondo di Eraclito lo spirito della provvidenza, la filantropia e la società solidale fra gli uomini e gli dei.
I temi
Immagine seguita da didascaliaUn intenso Eraclito viene rappresentato da Hendrick ter Brugghen (Deventer, 1588-Utrecht, 1629) in questo suo olio su tavola del 1628 (conservato ad Amsterdam, Rijksmuseum).
IL PRINCIPIO
Eraclito apparteneva a quella categoria di filosofi a cui va il merito di aver fondato la disciplina che professava: merito non piccolo, se si tiene conto che la loro tradizione continua tuttora e noi stessi siamo qui a onorarla. Sempre la tradizione ha raccolto i primi pensatori sotto il nome di filosofi della natura
per indicare che l’obiettivo della loro ricerca era il mondo fisico che accoglie noi tutti: la motivazione sta nel fatto che quanto esso ci è familiare nell’esperienza quotidiana risulta oscuro se non è illuminato dalla ragione. Certo, non lo si può dire caotico o casuale, ma non si può nemmeno considerarlo del tutto razionale e ordinato come avrebbero preteso i pitagorici. D’altra parte non si può neanche ritenerlo malvagio – considerato che ci ha messo al mondo e bene o male finora ci ha nutriti e conservati in vita –, ma neanche buono, visto che ci fa vivere troppo poco e di solito troppo male.
Un mondo come il nostro sembra fatto apposta per suscitare problemi. E infatti tutti i primi pensatori ne furono affascinati e cercarono di darne ragione, sostanzialmente costruendo uno strumento di indagine a cui diedero il nome di arché, di solito tradotto con principio
.
Nel modo d’impiego usuale, il termine sta per inizio
, punto di avvio
, ma la mentalità filosofica da Talete in avanti ne ha approfondito il senso. Gli ha dato infatti il significato di generatore
, per cui il suo principio (l’acqua) è arché per il fatto che dà origine a tutto il resto. Anassimene ha individuato l’aria con lo stesso intento. Ambedue hanno scelto fra tutto quello che la natura offriva alla loro esperienza l’elemento che sembrava più stabile e originario rispetto agli altri.
Il nostro Eraclito compì un salto di qualità e anziché scegliere fra quanto l’esperienza gli presentava lo definì per via di ragione, grossomodo con questa formula:
«BISOGNA SEGUIRE CIÒ CHE È IDENTICO PER TUTTI, OSSIA CHE È COMUNE. INFATTI CIÒ CHE È UGUALE PER TUTTI COINCIDE CON CIÒ CHE È COMUNE» (DK 22
