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Cicerone - Roberto Radice
Il filosofo
Cicerone si occupò di filosofia quando lo licenziarono dalle sue occupazioni di uomo politico e di avvocato. Quindi il suo mestiere originariamente non era quello di filosofo; tuttavia si trattava di un uomo che negli anni per lui orribili del 45-46 a.C. sperimentò l’utilità della filosofia nel consolare gli afflitti e nel dar cura ai loro mali, anche se in verità la filosofia non cura proprio niente, perché i turbamenti dell’anima hanno poco o niente di logico e molto di passionale, mentre questa disciplina al contrario ha tutto di logico e niente di passionale. Però serve almeno a svagare
l’afflitto: lo fa pensare ad altro, e non alle grane e alle disgrazie presenti. Siccome il suo oggetto è la totalità del reale, l’eternità e pure la dimensione che manca del tempo, riesce a trascinare con sé, nel suo mondo, il malcapitato.
Si dirà che anche la geometria e la matematica fanno lo stesso. E infatti il primo matematico fu Pitagora, che era un filosofo, e i maggiori filosofi dell’antichità – a partire da Platone – assorbirono sia l’una sia l’altra scienza come veicolo per portar via
gli uomini dal mal tempo labile e precario della vita e condurlo al buon tempo – quello immobile – delle dottrine dei numeri, dove nulla muore e nulla nasce. Del resto è noto a tutti che i filosofi hanno il buon tempo.
Ma, considerato lo stato di sviluppo del pensiero ai suoi tempi, il fatto che non fosse un professionista della materia fu per tutti un gran vantaggio. Lo obbligò infatti ad assumere l’occhio dello studente-lavoratore che vuole alzare il tono e il decoro delle sue prestazioni, abbandonato l’occhio sprezzante del filosofo che sa tenere una lezione.
Un tale atteggiamento Cicerone non l’ha mai approvato neppure nei veri filosofi. E del resto, si chiede il nostro pensatore, quando mai Socrate, il principe della filosofia, ha fatto qualcosa di simile?
Bisogna comunque sapere che dai tempi dei grandi metafisici di Atene – Platone e Aristotele – la filosofia aveva molto ridotto le sue pretese fino a produrre un’immagine diversa di sé, non più tesa a ottenere una verità assoluta e incontrovertibile, ma a creare un punto di vista ispirato a ragione, che fosse personale ma ad ampio raggio. Insomma, osserva il nostro filosofo, la filosofia aspira ad un punto di prospettiva per tutta la realtà, non dimenticando che questo non è né sarà l’unico, ma uno fra i tanti in concorrenza fra loro. Il che non significa che la verità abbia perso il suo fascino, ma semplicemente si fa più lontana e raggiungibile da varie vie, alcune delle quali l’avvicinano di più, altre di meno. Sappiamo che il vero esiste con il suo carattere razionale, sistematico e universale, ma non ignoriamo che noi uomini abbiamo non una sola immagine di esso, ma più immagini, di diversa chiarezza. Di queste per lo più dobbiamo accontentarci.
Pertanto nessuno può essere sapiente in senso proprio, né alcuno può dirci con sicurezza perché le cose esistono e come esistono, ma ognuno – se vuol essere filosoficamente formato – può trovare il suo pertugio aperto nel muro dell’ignoranza per guardare alla realtà con intenzione universale, in un orizzonte di 360 gradi. Ecco perché la formazione filosofica di Cicerone è prevalentemente eclettica. Essa ha raccolto dal deposito di tutti i saperi filosofici la sua prospettiva, scegliendo in ragione delle proprie esigenze, delle condizioni storiche in cui si trova e delle attitudini. L’esempio dominante non è quello platonico o aristotelico dello scalatore che raggiunge la vetta (cioè il principio assoluto), ma quello dell’astronomo, che è teoreta
(cioè contemplatore) per il fatto di scrutare tutta intera la volta celeste, ma ne trae conoscenze in ragione degli strumenti e delle competenze di cui dispone. Queste ultime dipendono dal momento storico in cui vive.
Perciò si può dire che Cicerone abbia personalizzato la filosofia e si sia cucito addosso un abito intellettuale su misura, intessendolo delle sue esperienze, degli stati emotivi e di quanto la vita gli riservava. Una tale forma mentis ha fatto tendenza e si riscontra anche in Seneca e in Marco Aurelio, tutt’e due stoici e tutt’e due di ambiente romano.
Tale aspetto del nostro autore risulta particolarmente presente nell’atteggiamento verso la religione. In quanto scettico, Cicerone non avrebbe dovuto avere un’opinione definitiva e stabile sull’esistenza degli dei, perché questo non è lecito a chi crede che tutto sia suscettibile di dubbio. Però in quanto politico non poteva neppure ignorare il contributo insostituibile della religione alla vita pubblica e alla coesione dei popoli. Nel terzo libro del De natura deorum, al capitolo 2, 5-6, il nostro fa dire a Cotta (difensore della posizione accademica, critica degli stoici): «Da te o Balbo [difensore dello stoicismo, spesso contraddetto, ma ritenuto una dottrina umanamente superiore alle altre] devo accogliere la filosofia della religione, ma dai nostri antenati devo accogliere senza pretendere alcuna spiegazione razionale». Infatti – continua il personaggio – «sul culto degli dei immortali ho imparato meglio dal diritto dei pontefici, dalla tradizione dei nostri avi che da tutti i ragionamenti degli stoici». Del resto furono proprio i pontefici romani a garantire che la città sarebbe stata meglio difesa dalla religione che dalle sue stesse mura (De natura deorum, XL, 94).
Entro certi limiti Cicerone condivideva la posizione degli stoici riguardo alla teologia, in quanto portava a una completa razionalizzazione della religione. Questa posizione traeva origine direttamente dalla intuizione di Zenone, il fondatore dello stoicismo, che il padre di tutti gli dei fosse in verità identico al principio cosmico e alla ragione, come risulta da queste testimonianze: «Sia che la si chiami intelletto, o destino, o Zeus o con molti altri nomi, la natura divina è unica» (Zenone, SVF, I, 102, 2) e
«LA LEGGE COMUNE, OSSIA LA RETTA RAGIONE, È DIFFUSA NEL TUTTO, E SI IDENTIFICA CON ZEUS, CHE PRESIEDE ALLA DIREZIONE DELLA REALTÀ» (Zenone, SVF, I, 162, 4).
Considerando la funzione politica che la religione garantiva, Cicerone, per quanto si sentisse impegnato a dare un fondamento razionale e teologico a essa, non era favorevole all’interpretazione filosofica delle regole del culto e dei miti. Pertanto su questa linea non seguì fino in fondo la prospettiva stoica di una radicale razionalizzazione dei miti e dei culti attraverso il metodo dell’allegoria.
Tutto sommato era convinto che la trasformazione dalla devozione istintiva e naturale politicamente feconda, in un livello astratto del pensiero di dio, avrebbe diluito la stessa forza aggregante della religione.
Immagine seguita da didascaliaFrontespizio di un’edizione del De officiis stampata da Christoph Froschauer nel 1560.
Immagine seguita da didascaliaUna miniatura tratta da un’edizione quattrocentesca del De oratore.
L’esperienza gli insegnava che nella realtà le formule filosofiche servono a dividere e a distinguere, mentre le formule religiose servono a unire. E indubbiamente il suo effervescente mondo politico aveva bisogno di queste e non di quelle.
Il bilancio teorico di queste due tendenze – verso la religione e verso la devozione – risultò paradossale perché lo costrinse a disporre nello stesso tempo di una fede espressione della ragione e quindi valutabile nei suoi contenuti, e di riti espressione di natura e come tali insindacabili.
Per un pensatore che vuole restare nell’ambito della ragione teoretica questa sarebbe senz’altro un’assurdità, ma qui Cicerone ha un’altra guida a cui affidarsi ed è la ragion politica, la quale assunse un peso tale da attrarre a sé tutto lo spazio intellettuale adiacente, compresa la teologia. Però non piegò la tradizione religiosa romana, che anzi venne assunta come parte egemone grazie alle sue usanze e ai suoi riti. Cicerone li riteneva veri, alla stregua di un collaudato principio filosofico, perché erano assodati dal principio del consenso universale, ossia dalla constatazione che tutti i popoli credono in dio e che tutti i Romani condividevano le stesse credenze e i medesimi rituali.
Dirà nel primo libro delle Tusculanae disputationes, 13, 30:
«PER DIMOSTRARE L’ESISTENZA DEGLI DEI L’ARGOMENTO PIÙ FORTE CHE POSSIAMO ADDURRE È CHE NESSUN POPOLO È TANTO BARBARO, ASSOLUTAMENTE NESSUN UOMO È TANTO SELVAGGIO DA NON AVERE SENTORE NELLA SUA MENTE DELLA CREDENZA NEGLI DEI».
D’altra parte bisogna pur considerare che Cicerone era, politicamente parlando, un conservatore, vicino alle vecchie istituzioni aristocratiche della Repubblica che avevano fatto la grandezza di Roma, ed era fieramente avverso all’evoluzione in senso popolare e autocratico di Cesare: in tale prospettiva il richiamo al mitico passato valeva anche a rafforzare le sue personali posizioni e le sue convinzioni.
Fu alla fine degli anni Cinquanta che, espulso dalla politica, a seguito della morte della figlia Tullia e del suo divorzio, si diede alla filosofia e in pochi anni scrisse la maggioranza delle sue opere, essenzialmente cercando in esse la legittimazione delle sue convinzioni e ancor più la consolazione dei suoi mali. Di fatto non ebbe il tempo di maturare soluzioni originali, e forse non ne avrebbe avuto neppure le capacità, ma proprio la pressione degli eventi lo costrinse a scoprire un sapere utile alla vita. Di ciò era perfettamente cosciente allorché prese la decisione di farsi mediatore a Roma della cultura greca. Le sue motivazioni furono sincere e sagge:
«NON GIÀ CHE IO REPUTI IMPOSSIBILE IMPARARE LA FILOSOFIA IN GRECO DAI GRECI, MA FU SEMPRE UNA MIA CONVINZIONE CHE I NOSTRI CONNAZIONALI NELL’ESPLICARE LA LORO ATTIVITÀ INVENTRICE FURONO PIÙ SAGGI DAI GRECI, OPPURE NEL DESUMERE DA QUELLI FURONO DEI PERFEZIONATORI, E CIÒ IN OGNI CAMPO IN CUI RITENNERO DEGNO OCCUPARSI» (Tusculanae disputationes, I, 1).
Cicerone fu pure oratore e onorò questa sua professione in tutti i modi possibili, anche attribuendo a essa un ruolo essenziale nella storia della civiltà umana. Riflettendo sulla condizione del selvaggio primitivo, ritenne che l’uomo incominciasse il suo sviluppo materiale e intellettuale grazie alla capacità di comunicazione, che diede il primo impulso all’aggregazione e al «successivo formarsi delle scienze e innanzitutto della filosofia». Certo non furono retori quelli che uscivano dalle caverne, ma gradatamente con l’acquisizione di un certo benessere materiale e delle arti maggiori seppero inaugurare un percorso che dai semplicissimi messaggi primordiali portò fino al tipo dell’oratore compiuto
. L’oratore divenne compiuto
solo allorché acquisì i principi del bene e del male, non in assoluto e in astratto, ma nella vita
, nella storia dei costumi della gente e nelle regole del vivere
.
Dunque per Cicerone l’uomo non è in primo luogo un animale razionale, ma un animale dialogante, e in seconda battuta un animale politico, perché – si chiede nel De oratore – quale altra facoltà se non quella di scambiarsi notizie «avrebbe potuto raccogliere in un solo luogo gli uomini sparsi qua e là, o condurli da un’esistenza selvatica e agreste a questo vivere umano e civile o a istituire leggi, tribunali, diritti, una volta formatesi le comunità civili?»
Immagine seguita da didascaliaAncor più che come filosofo, Cicerone passa alla storia come abile oratore. Lo vediamo qui scagliarsi contro Catilina, in un’incisione del tedesco Georg Heinrich Leutemann del 1880 circa.
I temi
Immagine seguita da didascaliaBusto di Cicerone. Metà del I sec. a.C., già nelle collezioni Barberini e Albani. Sala dei Filosofi, Musei Capitolini, Roma.
COME CORRE IL TEMPO COSÌ CORRE LA FILOSOFIA
Cicerone non faceva il filosofo di professione e oggi si direbbe che ottimizzava
le sue prestazioni di politico e di avvocato con la sua non trascurabile – e di prima mano – formazione filosofica. Ciò gli giovava non poco, anche perché era un momento in cui Roma importava dalla Grecia cultura (filosofica), la sola che non potesse prendersi con la forza delle legioni. In questo senso la leadership culturale a Roma esaltava il suo ruolo politico e raffinava la sua figura di retore e oratore.
La filosofia, a conclusione della grande fioritura ellenistica e al seguito della conquista di Alessandro Magno, era in un periodo di veloce evoluzione. Nel contempo cercava di diffondersi in ambiente romano, adattandosi alla sua mentalità che era poco dialettica e molto pratica, ma non ottusa: al contrario desiderava acquisire sempre nuovi saperi e nuove scienze, a condizione, però, che fossero compatibili con la tradizione patria. Dopotutto non mancava ai Romani la consapevolezza di aver ideato e diffuso nel mondo un diritto e delle istituzioni di portata ecumenica.
È sorprendente il modo in cui la filosofia ha sopportato due rivoluzioni quasi contemporanee (quella ellenistica e quella della trasmigrazione a Roma) e, in tutti e due i casi, si sia riformata secondo le esigenze dei tempi.
Per fare questo dovette trasformare i suoi fini, e da ricercatrice della verità divenne terapeuta dei mali dell’anima, in un certo senso incaricandosi della missione di consolare i Greci privati della libertà e di quell’istituzione preziosa che era la polis. Preziosa anche dal punto di vista filosofico, perché con i due metafisici – Platone e Aristotele, che segnano il vertice della speculazione greca – la vita in città era il luogo in cui la sapienza umana trovava il suo coronamento.
La storia, per così dire, tagliò le gambe alla filosofia, che senza autonomia e libertà politica e di pensiero risultava inutile e senza sbocco; e non solo recava danno alla filosofia, ma anche all’uomo greco che si realizzava soprattutto nell’amministrazione della sua città.
I filosofi furono all’altezza dei tempi e nel giro di pochi anni fondarono ben tre scuole diverse e in competizione fra di loro – la
