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Luci divine: Riconoscere la voce di Dio & cambiare la propria vita
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Ebook167 pages1 hour

Luci divine: Riconoscere la voce di Dio & cambiare la propria vita

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La vita spirituale si nutre di ogni parola rivelata e di ogni commento che la presenti mettendone in luce qualche risvolto non sufficientemente divulgato. Ma si ravviva e progredisce con scoperte personali che la rendono più ricca, più giovane, più bella. Molto dipende dall'idea che ci facciamo di Dio, ma Dio può sempre sorprenderci rivelandosi ben più luminoso e accessibile. L'Autore propone alcuni brevissimi saggi su aspetti della fede che richiedono maggiori chiarificazioni, come il peccato originale, la grazia, la spiritualità di comunione. Il titolo del libro, Luci divine, prende spunto proprio dalla possibilità di essere illuminati da nuove luci provenienti da Dio e capaci di cambiare il senso della nostra esistenza.
LanguageItaliano
PublisherAres
Release dateApr 7, 2020
ISBN9788881559589
Luci divine: Riconoscere la voce di Dio & cambiare la propria vita

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    Luci divine - Ugo Borghello

    Capitolo I

    Dio-potere, Dio-amore

    «Parlando della preghiera ho rivolto, all’abate John Eudes, una domanda che mi è sembrata contemporaneamente assolutamente fondamentale e un po’ ingenua: Quando prego a chi rivolgo la mia preghiera? Quando dico ‘Signore’ che cosa voglio dire?. John Eudes mi ha risposto in un modo molto diverso da come mi aspettavo. Mi ha detto: Questa è la vera domanda, la più importante questione che puoi sollevare; o almeno la domanda con cui puoi rendere più vera ogni altra domanda».

    Queste parole, che sono tratte dal libro di H. Nouwen, Semi di speranza (Gribaudi, Milano 1998, p. 90), ci stimolano a prendere sul serio la nostra ricerca di un rapporto sincero con Dio.

    Di Dio non possiamo dire nulla, eppure proiettiamo in Lui i nostri desideri inficiati dal peccato. Ma Dio si è rivelato e tutto dipende da come ci lasciamo penetrare dalla sua Parola: «Fino a oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 15-18).

    Anche nel testo di san Paolo ritorna la parola «Signore»: quando dico «Signore», che cosa voglio dire?. Per penetrare nel mistero di Dio è fondamentale distinguere la religione dalla fede. La prima è scritta nel cuore di ogni uomo e in tutti i rapporti sociali, anche degli atei, perché l’uomo è creato a immagine divina e in tutti i rapporti cerca questa immagine. Dopo il peccato originale la cerca nelle «persone essenziali» che formano una «chiesa» in cui si cerca il senso della vita: chi sono io per gli altri? E nessuno può vivere individualisticamente, ma sempre in un «noi» per il quale ognuno è pronto a ogni sacrificio. E difatti vediamo gente sacrificarsi e anche morire per cause diversissime, che rivelano un’appartenenza primaria del cuore, dalla quale non si può mai prescindere.

    Servi, non figli

    Anche i dettami individualistici della nostra cultura secolarizzata in realtà sono imperativi collettivi: se vuoi il nostro plauso, devi dimostrare che tu sei l’unico artefice di te stesso. È la dittatura del relativismo di cui parlava Benedetto XVI. Ma il Dio della religione, anche là dove viene riconosciuto, come nelle grandi religioni, arriva al massimo al monoteismo, dove però Dio è singolo, e pertanto non può essere amore, ma potere. Potere supremo, capace di creare e di governare il mondo con la sua provvidenza e giustizia. Il Dio della religione è onnipotente e lontano.

    Allah è singolo e pertanto non può essere amore. Non ha un Figlio e pertanto non può essere Padre. Difatti tra i 99 nomi di Dio nel Corano non ci sono né Padre né amore. C’è «misericordiosissimo», ma nel modo come un Imperatore romano poteva essere misericordioso con il gladiatore ferito, come un padrone può esserlo con un servo fedele per qualche suo errore. Non è la vera misericordia paterna. Dire «Signore», allora, indica il potere. Dio può creare e lo fa da padrone. Gli uomini sono i suoi «sottomessi», come indica l’etimo di «islàm». Servi, non figli. Padrone buono con i servi fedeli, padrone giustiziere con i servi infedeli. Padrone onnipotente che invoglia i servi a servire con zelo per godere della sua protezione, ma padrone che richiede una obbedienza sottomessa e un servizio incondizionato.

    È il Dio degli eserciti, ben presente ancora nell’Antico Testamento e invocato anche dai cristiani in tutte le loro battaglie, quando il cristiano vive di religione e non di fede.

    Il rapporto con il Dio della religione è attraverso il sacro: Dio rimane lontano, nella sede celeste. È Signore come padrone, per buono che lo si veda. Per questo san Giovanni Paolo II poteva dire (lo riassumo con parole mie) che il demonio non teme il Dio della creazione e dell’onnipotenza: lui attacca l’Alleanza.

    Il Dio dell’Alleanza crea il mondo della fede. Quest’ultima, infatti, dipende dalla Rivelazione ebraico-cristiana. In Cristo Dio si rivela come Padre misericordioso, avendo un Figlio e un «noi» che è lo Spirito Santo, il Dio amore, il Dio comunione. Quando diciamo: Dio onnipotente ci riferiamo al Dio-potere, Creatore del mondo e capace di miracoli. Invece, nel dire «potenza di Dio» il Nuovo Testamento si riferisce al potere creatore dell’amore divino, lo Spirito Santo che scende su Maria e la rende madre di Dio, che scende sul cadavere di Cristo e crea l’uomo nuovo, in un disegno inaudito di amore.

    Figli, non servi

    Nell’amore Dio si rivela come Padre: stabilisce un legame con noi, ma nella libertà dei figli. La creatura non è mai dio di sé stessa: dipende. Ma c’è la dipendenza del servo e quella del figlio. La prima è di convenienza, la seconda è di libertà nell’amore. Un figlio obbedisce, ma non da servo. Se l’uomo vuol vivere da dio, rifiutando un rapporto con Dio che è di servitù, diventa schiavo, come successe al figliol prodigo della parabola, che arrivò a invidiare i servi di suo padre. Il fratello maggiore rimase sottomesso, ma rivelò un cuore da servo. Il Padre della parabola rispetta la libertà dei figli che sono ancora dei servi, lascia partire il minore, ma per recuperarlo a livello di figlio, correndo il rischio della libertà. E tenta anche con il maggiore.

    Con la fede dire «Dio è il Signore» diventa tutta un’altra cosa. Fa riferimento al Regno, come nuova ed eterna Alleanza, nella comunione trinitaria instaurata a Pentecoste dallo Spirito Santo. Si è creata, con una nuova creazione, un’appartenenza primaria nuova. Per «primaria» s’intende la relazione sociale e spirituale che prende il cuore: «Dov’è il tuo tesoro lì è il tuo cuore» (Mt 6, 21). Tutti hanno un’appartenenza primaria, ma in tribù variamente configurate, anche per chi crede di pensare solo con la propria ragione.

    L’appartenenza primaria ha la signoria del cuore: il valore sovrano garantito da certe prestazioni che si caricano di assoluto a sostegno del consenso presso il «noi» in cui ci si muove. Un bambino per la mamma è valore sovrano, detta legge. Un fidanzato per la fidanzata detta i tempi e i programmi della vita. Il lavoro per l’uomo dopo il peccato originale è diventato già in Adamo un valore sovrano che cerca di sostituire l’immagine divina con l’immagine davanti ad altri. Per il valore sovrano si è disposti a rischiare la vita, a morire in guerra, fino al terrorismo, che è problema di amore. Il peccato originale ha posto l’idolatria nel cuore umano.

    San Paolo afferma: «Nessuno può dire: Gesù è Signore!, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12, 3). Si entra nel mondo della fede, mondo soprannaturale che richiede l’appartenenza primaria al Regno, nella realtà viva di una Chiesa che cammina nel mondo con nuclei di comunione primaria carismatica, e cioè con partecipazione reale al Regno, con legami di fraternità che incarnano il comandamento nuovo, come tra i primi cristiani e nelle realtà carismatiche, dove si cerca di viver il «cuor uno e anima una» delle primitive comunità.

    Ascolto tante esortazioni a vivere il Vangelo, specie rivolte ai giovani, ma le esortazioni non cambiano la vita. Ciò che cambia è l’appartenenza a un cammino reale dove ci si ritrova con mete comuni di santità e di evangelizzazione. Non lo si può lasciare agli ordini religiosi e alle realtà carismatiche: ovunque si riuniscano cristiani, in ogni parrocchia in modo particolare, ci dev’essere una proposta concreta di camminare insieme: «dentro o fuori», che non è un chiudersi, ma un abitare con vincoli di amore che aprono fino all’ultimo uomo.

    La vera apertura non è quella di facilitare il Vangelo rinunciando a ciò che non piace a tanti, ma quella di chi si decide a viverlo sul serio, curando l’incontro personale con Cristo risorto, Signore del mio cuore, e la spiritualità di comunione in una realtà riconoscibile. Dalla preghiera e dalla comunione impregnata di carità nasce l’apertura e l’attrazione della Chiesa su tutte le frontiere.

    Purtroppo per secoli la Chiesa istituzionale ha governato la dimensione religiosa della vita cristiana, lasciando Dio piuttosto lontano. Non mancava la catechesi di fede, ma non diventava proposta concreta di camminare col Vangelo. Lo Spirito Santo suscitava santi anche nel popolo, ma la comunione tra i cristiani mancava del carisma di Pentecoste, era socio-sacrale.

    Solo negli ordini religiosi si poteva scegliere un cammino di orazione, il dialogo intimo con Gesù che procura la signoria del cuore, insieme all’umiltà necessaria per vivere un vincolo di carità fraterna degna del Vangelo.

    Il cuore, culla o tomba di Dio

    Se non c’è intimità di vita interiore e comunione fraterna superiore ai legami di amore umano, il rapporto con Dio rimane fuori dall’amore, nel potere. Dio è cercato per rafforzare i nostri poteri, è temuto secondo il suo infinito potere. È impressionante quanto il calcolo di potere possa entrare nella vita cristiana. A iniziare dai sacerdoti.

    Certamente per fare il bene occorre «poterlo fare», occorre un certo potere. Ma quanto facilmente questo potere diventa sicurezza umana, confronto, carriera, lotta di potere, scoraggiamento nell’insuccesso,

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