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L'amore ha tanti aspetti che non si imparano, non solo nel sentimento, ma anche nella ricchezza emotiva che governa il cuore nel profondo. Eppure l'amore vero è molto di più rispetto al sentimento e all'emotività, e oggi esige molto «studio». Amare è un verbo e occorre saperlo coniugare in molti modi.
Ugo Borghello affronta qui in maniera radicale le prospettive del vero amore cristiano, ma anche le sue malattie. Ci insegna a distinguere tra fede – l'adesione profonda a Cristo – e religione – l'insieme di pratiche e preghiere. A distinguere tra carità – amore incondizionato alla persona, a tutte le persone – e opere di carità – i tanti gesti di servizio che si possono compiere anche senza un corrispettivo di amore vero. Ci insegna che ognuno appartiene a un gruppo primario per il quale è disposto a dare tutto, e che pertanto è auspicabile che tale gruppo sia la comunità cristiana. La Nuova evangelizzazione dipende in gran parte dal far sorgere innumerevoli comunità primarie, come fu per i primi cristiani. Avanti così nell'analisi, si resta convinti che tutti abbiamo bisogno di ritornare continuamete alla fonte gratuita della fede e dell'amore, con una lotta ascetica che renda efficaci anche le nostre miserie.
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Saper di amore - Ugo Borghello
PREMESSA
Questo libro intende allargare alcuni paradigmi interpretativi presenti tra i cristiani. I paradigmi sono circonferenze che ognuno percorre all’infinito, convinto di vedere nella propria prospettiva tutta la verità che gli consente di vivere nel giusto. Ci sono circonferenze che hanno il raggio di un bottone, altre hanno un raggio maggiore, ma, in genere, è sempre troppo limitato.
Non tutti hanno chiara la forza interpretativa di certi paradigmi. Il sociologo R. Boudon fa notare che l’uomo moderno non ragiona in modo meno irrazionale e «magico» del «primitivo» così caro agli antropologi all’inizio del XX secolo. Anche il pensiero scientifico non è immune da queste interferenze¹.
Del resto il tema del «consenso» e dello spirito di corpo che il bisogno di amore crea in noi, come ho descritto ampiamente nel libro Liberare l’Amore², esige un paradigma interpretativo di cui non si è coscienti. Il senso comune ci permette l’esercizio di una razionalità sufficiente a farci intendere sull’essenziale, tra lingue e civiltà diverse. Ma il condizionamento dell’amore ricurvo nel peccato è superiore al senso comune. E rompere il pregiudizio, come diceva Einstein, è più difficile che rompere l’atomo. Gesù lo diceva in altro modo: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (Lc 16, 31). Basti pensare come sia di senso comune che l’aborto è un infanticidio e come un paradigma libertario lo abbia reso «innocente» per milioni di persone.
La fede cristiana ha il suo paradigma, che si può cogliere solo con lo Spirito Santo. Gesù, il più grande maestro e pedagogo, per tre anni ha cercato di insegnare ai discepoli di non cercare il primo posto, ma le sue parole non hanno scalfito il paradigma ebraico circa l’éthos del successo e del potere. Nell’ultima ora trascorsa insieme «sorse una disputa tra i suoi discepoli su chi di loro sarebbe stato il primo».
È stato necessario lo Spirito Santo per rompere il paradigma ebraico aprendolo al nuovo popolo della Pentecoste, ossia al paradigma del Regno di Cristo, dove si recuperano e si penetrano a fondo le parole di Gesù. Il paradigma sta dentro un «gruppo primario», che è la propria «chiesa» o tribù, ed è un bisogno di amore da cui non si può prescindere, ma che spesso comporta miseri contenuti.
Nel libro Liberare l’Amore si spiega anche la radice profonda da cui nascono i paradigmi. Se non si prende coscienza della radice dei paradigmi e dei pregiudizi che si generano nella mente, rimarrà difficile ogni dialogo perfino in famiglia (quanti coniugi discutono su cose che a uno sembrano un sassolino mentre per l’altro sono una montagna), nella Chiesa, oppure nel dialogo ecumenico, nella cultura e nella politica. Va da sé che tutti i nostri sforzi per penetrare un paradigma nuovo non riuscirebbero mai a farci penetrare il paradigma soprannaturale; ma possono favorire la preghiera, l’umiltà e orientare il cuore alla conversione.
Benedetto XVI, nel libro intervista con Peter Seewald Luce del mondo, di fronte al dilagare del secolarismo, afferma che «la religione deve rigenerarsi e trovare nuove forme espressive e di comprensione. L’uomo di oggi non capisce più immediatamente che il Sangue di Cristo sulla Croce è stato versato in espiazione dei nostri peccati. Sono formule grandi e vere, e che tuttavia non trovano più posto nella nostra forma mentis e nella nostra rappresentazione del mondo: devono essere, per così dire, tradotte e comprese in modo nuovo. Dobbiamo nuovamente capire, per esempio, che il concetto di male ha davvero bisogno di essere riconcepito» (p. 192).
Occorre cambiare qualche paradigma. Proprio sul male e sui nostri inganni questo libro vuol operare un approfondimento che potrebbe favorire un dialogo universale. Ci si attarderà, inoltre, a illustrare il paradigma della carità, che è distinto da quello delle opere di carità. Di grande aiuto sarà il paradigma della relazionalità, che si va facendo faticosamente strada. Parallelamente svolgerò il confronto tra fede e religione, all’interno del cristianesimo, per aiutare a capire che hanno due paradigmi molto diversi, ma troppo spesso confusi.
INTRODUZIONE
Karol Wojtyla a 26 anni scriveva: «L’amore mi ha spiegato ogni cosa». San Giovanni ha scritto che «Dio è amore»; con altrettanta sicurezza, essendo l’uomo creato a immagine di Dio, si può dire che «l’uomo è amore»: perciò ogni confusione sull’amore fa entrare in crisi la vita personale e sociale.
È facile costatare che la parola amore, pur essendo la parola chiave, è anche la più confusa, non solo nel mondo secolarizzato, ma anche tra i cristiani. Ciò che più danneggia la convivenza umana è il fatto che tutti credono di sapere che cosa è amore. Se poi le cose non vanno bene, la colpa è sempre degli altri. Chi entra nei sentieri autentici dell’amore, fa sempre nuove scoperte e impara a non attribuire agli altri i propri errori. C’è una sola arte da imparare: quella di amare.
Come è stato detto: noi abbiamo troppo amore per la scienza e troppo poca scienza dell’amore.
Qualcuno potrebbe meravigliarsi che si parli di imparare ad amare. L’amore ha tanti aspetti che non si imparano, non solo nel sentimento, ma anche nella ricchezza emotiva che governa il cuore nel profondo. Eppure l’amore vero è molto di più rispetto al sentimento e all’emotività, e oggi esige molto «studio».
Il sentimento non si studia, ma amare è un verbo e occorre saperlo coniugare in molti modi.
Occorre arrivare alla relazionalità profonda che sottende il «gruppo primario» in cui ognuno vive. Occorre andare al di là della ragione, perché è necessario l’«intelletto d’amore» di cui parlava Dante. In questa prospettiva, sono importanti gli studi di Pierpaolo Donati³. In seguito li esamineremo da un punto di vista esistenziale, studiando la molla segreta che cerca l’amore in un àmbito più esteso del rapporto «io-tu». L’amore è dono, ma bisogna volerlo in libertà e pertanto occorre conoscerlo meglio per poterlo desiderare.
Dove l’Amore supera radicalmente il nostro studio è nel dono dello Spirito Santo. Infatti, la Terza Persona della Trinità è fonte dell’amore in Cristo in grado di restaurare il cuore umano che ha smarrito l’amore, innalzandolo mediante legami nuovi nel suo Regno, in una comunione presente già qui sulla terra che stringe gli uomini in relazioni ecclesiali e sociali di inaudita ricchezza. La carità come comandamento nuovo in Cristo non è soltanto una virtù personale nei confronti degli altri, bensì un vero legame primario, superiore ai legami sociali e religiosi degli uomini, tanto da formare un nuovo Regno. Tuttavia, anche nel caso del dono della grazia, che oltrepassa la ragione umana, occorre studiare, perché la fede nell’Amore è favorita dalla conoscenza della Rivelazione e da un buon uso dell’intelligenza che porti a desiderare e chiedere il dono di grazia. Il latino usa la parola sapere non per indicare il sapere, ma l’assaporare. Il nostro titolo indica il bisogno di saperne di più sull’Amore, ma con invito ad assaporarlo nel dono dello Spirito.
Nel nostro tempo, fa notare Z. Bauman⁴, si cerca il senso della vita quasi unicamente nelle relazioni, ma nello stesso tempo si temono le relazioni «forti», che sembrano diminuire la libertà anche quando si tratta della libertà di scegliere relazioni... Viviamo in una società schizofrenica, alla ricerca di continui legami, purché siano fatti con corde di sabbia, come diceva sant’Ireneo di Lione. Occorre trovare invece la «corda rossa» con cui tessere legami forti di amore vero⁵. Al contrario, come fa osservare il teologo francese Jean-Robert Armogathe: «L’Occidente ha raggiunto un grado di disfacimento del tessuto famigliare apparentemente unico nella sua storia. Questa sconfitta si accompagna specularmente alla colpevolizzazione della Chiesa e del Papa». È l’estrema autocondanna del mondo, ma è opportuno domandarsi se i cattolici possano fare qualcosa per questo mondo.
Si può pensare all’evangelizzazione o a una nuova evangelizzazione, a metodi di apostolato o a programmi pastorali, ma una sola cosa conta: la gente è sempre mossa da un bisogno abissale di amore. Purtroppo l’amore può essere surrogato dai legami sociali, anche aberranti, che danno la sensazione di essere importanti per gli altri. Solo chi impara ad amare col cuore di Cristo in comunione visibile può favorire efficacemente la salvezza vera. Ma prima di essere un’esortazione ai singoli è un invito a prendere coscienza di come solo comunità cristiane con una comunione primaria rispetto a tutte le appartenenze sociali possano incarnare la salvezza cristiana nel mondo. E sarà molto importante capire come fare per favorire il sorgere e l’espandersi di numerosissime comunità primarie carismatiche, per non lasciarle solo alla spontaneità imprevedibile di santi o di esperienze fortunate, che sempre ci sono nella Chiesa⁶.
Penso pertanto che occorra chiedersi come comprendiamo l’amore, come lo viviamo e «quale» amore testimoniamo.
Meglio intendo per corda rossa il legame nuovo nello Spirito Santo, la nuova comunione trinitaria, la nuova Alleanza, il nuovo Regno, un nuovo gruppo primario con uno spirito di corpo forte e aperto, che libera dai settarismi e dalle divisioni profonde. Lo Spirito unisce le lingue e i cuori, mentre Babele divide.
Per puntare sull’amore bisogna essere esperti di umanità, ma sapendo che con la sola cultura, prodotta dall’inflazione informativa d’oggi, non si va lontano. L’unico uomo che ha amato con piena autenticità è stato Gesù di Nazaret. E a lui ci rivolgiamo perché ci aiuti a nuotare contro corrente fino alla sorgente limpida dell’amore vero.
Il tema così si allarga e verranno fuori problemi teologici e tante distinzioni sull’amore, ma intanto vogliamo chiarire che noi al parlare di carità intenderemo sempre il legame soprannaturale o teologale con Dio e tra di noi, nel Regno nuovo che Cristo ha instaurato, nel comandamento nuovo, mentre sviluppando il concetto di amore chiariremo se alludiamo all’amore soprannaturale/carità o all’amore naturale (religione, amicizia, amore umano, solidarietà)⁷.
Se la nuova evangelizzazione, come vedremo, è definita dal rapporto tra fede e storicità, il problema è crescere nella carità per reggere il primato dell’uomo su tutte le sue opere, che con l’industrializzazione, con lo sviluppo della scienza e della tecnica, è sempre più precario. E a questo mira il nostro sforzo: aiutare a crescere nella carità.
Anche chi disprezza l’amore in realtà è mosso sempre da un problema di amore, per quanto rovesciato in «amor proprio»: ricerca di successo, di immagine, di potere, di considerazione, di affetti. E sempre in modo spasmodico, come si nota quando viene a mancare la considerazione su cui poggia il senso della vita per ciascuno di noi. Si pensi che cosa succede a un uomo quando la moglie lo tradisce o lo lascia; quando il lavoro viene meno; quando compare un tumore; quando un figlio si droga: crolla la presuntuosa sicurezza costruita col potere sugli altri. Sono eventi terribili, da non augurare a nessuno, che però denotano una profonda schiavitù: per essere felici si dipende dalla volontà altrui o da circostanze fortuite. Quando dico «potere» intendo poteri anche molto validi, come quello di poter sostenere una famiglia o di risolvere problemi sociali col proprio lavoro.
Ciò si deve al fatto che gli uomini, senza eccezioni, vivono con legami di comunione «primari» rispetto alle tante relazioni funzionali. Il problema dell’amore presenta abissi che difficilmente sono colti a livello cosciente. In essi si gioca il senso della vita, la libertà e la schiavitù del peccato, i rapporti e le conflittualità sociali.
Oggi si parla molto di più della misericordia divina, dell’amore di Dio che precede ogni nostro amore, ma non si riesce ancora a dare forza a questo messaggio; vedremo che occorre capire che i grandi mali del mondo, le immense ingiustizie e i massacri, nascono da problemi di amore. Solo capendo la forza del consenso in un gruppo primario si potrà capire la redenzione nella misericordia.
Vedremo pertanto come la nuova evangelizzazione possa operarsi solo attraverso comunità primarie. Fu così per i primi cristiani e così accade nelle comunità carismatiche sorte nel secolo XX in seno alla Chiesa.
Il peccato originale si abbarbica proprio sulla radice dell’amore, creando perversioni ed eroismi che confondono civiltà e popoli. Sono sorte molte confusioni, ma per ora ci interessa segnalarne una molto sottile che inganna i cristiani in quanto cristiani: si tratta della confusione tra carità e opere di carità. Si sente dire che non basta occuparsi dei bisognosi, ma che occorre pregare. In effetti non bastano le opere di carità per qualificare la santità, anche se proprio i santi si sono prodigati in grandi opere di misericordia. Ma nemmeno basta accostare la preghiera alle opere. Si rischia di escludere l’essenziale: l’amore e il primato della persona. A un sacerdote che si dedica a opere sociali non chiedo quanto prega, ma se sa amare anche un ricco prepotente. Perché se non ama il ricco prepotente, non saprà amare nessun povero.
Per amare un ricco prepotente occorre identificarsi con Cristo, con una profonda vita interiore alimentata dalla preghiera; occorrono le opere e occorre la preghiera, ma puntare direttamente alla preghiera saltando l’attenzione primaria alla carità non garantisce che si ami davvero una persona, come non lo garantiscono le sole opere. L’essenziale è l’amore. Il segreto dell’amore è relazione tra me e chi entra in contatto con me e con Gesù. Ma questo è raro, anche tra i sacerdoti. Se non si punta alla carità, ricorrere alla vita interiore, alla preghiera, alla penitenza, porta a sottili deformazioni dell’animo umano, fino al disprezzo delle cose che Dio ha creato, all’ascetismo di stampo orientale, dualistico, al pessimismo circa il mondo, al giudizio delle persone che si affannano a rincorrere i loro problemi, e anche allo sconforto personale. In definitiva, si corrompono anche la preghiera e la penitenza cristiana.
Oso dire che i grandi ritardi nel vivere il Vangelo sono dovuti al confondere nel cristianesimo ciò che è di fede e ciò che è di religione e la carità con le opere di carità. Sbagliare sull’amore è sbagliare sulla vita, e più ancora sulla vita cristiana. Nella Chiesa ogni confusione o errore circa la carità vanifica il Vangelo⁸.
I santi hanno saputo amare con amore naturale e soprannaturale. I grandi santi sono stati efficaci perché hanno «abitato» nel cuore degli altri, hanno tessuto una fitta rete di rapporti autentici, accrescendo così i beni relazionali.
San Giovanni Bosco raccomandava ai suoi salesiani: «Non basta amare, occorre che gli altri se ne accorgano». Padre Pio una volta disse a un massone bolognese: «Mi sei costato il miglior sangue». Josemaría Escrivá diceva: «Che si noti che rinasciamo per la comprensione».
Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte dice chiaramente che la spiritualità di comunione prima che nelle opere va cercata nella carità che lega nel cuore delle persone, Madre Teresa di Calcutta nelle regole della sua congregazione scriveva: «Non permettete a nessuno di sentirsi solo, indesiderato, non amato, ma non permettetelo anzitutto a quelli di casa vostra, al vostro prossimo».
Sono santi di grande fecondità, mentre in genere i cristiani sono poco fecondi. I santi vivono, noi imitiamo.
Quando si imitano le opere, sfugge l’essenziale e con esso anche la spinta alla santità, che consiste nel lasciare agire lo Spirito Santo che ci rende consapevoli dell’amore sovrano di Gesù e ci rende capaci di ospitare nel nostro cuore le persone che ci avvicinano. Carità è comunione intima: il Verbo si è incarnato per creare una comunione intima tra Dio e gli uomini e anche tra gli uomini. Per amare occorre lasciarsi amare da Dio e ciò è molto raro.
Siamo nel cuore di tutti i problemi degli uomini, che trovano salvezza solo in Cristo, ma attraverso la carità dei santi. Se questa è confusa con le opere di carità, si annulla la forza redentrice del Vangelo, perché le opere buone si possono dare anche senza sapere amare le persone. Alcuni si dedicano a opere generose di volontariato, ma si adombrano facilmente sul lavoro o in famiglia diventando irascibili per mancanza di umiltà e di carità. Va da sé, però, che non c’è vera carità senza opere.
Il nostro proposito è di riflettere su ciò che è più vero nell’amore, in modo da orientare la formazione cristiana e l’educazione comune alle ricchezze e alla bellezza dell’amore vero. Se non si distingue carità dalle opere di carità diventa difficile l’educazione al vero amore, e cioè all’unico grande compito che Dio ci assegna nella storia.
Con le opere infatti può entrare il confronto, il bisogno di successo, la lotta di potere, le accuse, gli scoraggiamenti e ogni sorta di male, fino alle guerre e ai genocidi, per poi essere tentati di incolpare Dio che permette tante atrocità.
Il tema delle opere richiama in parte la tematica luterana su fede e opere, ma per capire che è stata impostata in modo riduttivo da entrambe le parti: solo comprendendo il delicato rapporto tra fede e carità e tra carità e opere di carità si potrà impostare meglio il tema della fede rispetto alle opere.
Ad alcuni il libro potrebbe apparire troppo lungo. Può facilitarne la lettura il fatto che si può scomporre in cinque libretti: distinzione di carità e opere; distinzione di religione e fede nel cristianesimo; i tre «convincimenti» dello Spirito Santo; come impostare un’efficace lotta ascetica; educarsi all’amore. Solo insieme, tuttavia, possono condurre a una lettura più approfondita del Vangelo.
Capitolo I
PRIMATO DELLA CARITÀ
La teologia e la catechesi cattolica non hanno mai dubitato circa il primato della carità rispetto alle altre virtù. Semmai si è collocata la verità, che non è una virtù, al di sopra della carità, considerata come virtù. In realtà la carità trascende il livello delle virtù e fa parte del fine ultimo della vita.
Per le virtù teologali, dono gratuito che non dipende dai nostri sforzi e dai nostri meriti, parlare di virtù richiede qualche precisazione. Ma anche la verità delle cose create, la verità dell’uomo, intesa come sapienza e filosofia, non è una virtù, come lo può essere la veracità o la sincerità, che hanno a che fare strettamente con la verità. Ugualmente l’amore tra le creature umane, non ancora soprannaturale, ma ben presente nell’amicizia, nell’amore umano, nella solidarietà sociale, non lo si può considerare una virtù, bensì un legame tra persone. Tale legame si ammanta di molte virtù, come la pazienza, la benevolenza, l’attenzione, ecc., ma diviene per le virtù il fine rispetto ai mezzi.
In modo particolare, la carità soprannaturale, dono dello Spirito Santo, vero legame intratrinitario con Dio e tra noi, non può essere annoverata nel rango delle virtù, altrimenti finisce per essere la prima delle virtù, e non l’anima delle virtù, come la definiva san Tommaso, o «il vincolo della perfezione» come la definisce san Paolo (Col 3, 14) Occorre capire bene che cosa vuol dire «anima delle virtù». Se fosse la prima delle virtù, potrebbero esserci tante virtù autentiche anche se ci fosse poca o nessuna carità. Io posso essere laborioso e ordinato senza essere sincero o affabile. San Paolo ci dice che posso avere il dono di profezia anche se non ho il dono della scienza o la fede stessa; ma dice che senza carità non ho nulla. Difficilmente si porta la lettura di san Paolo alle estreme conseguenze, e parla di carità fraterna! Nell’ordine soprannaturale se non ho la carità tutte le virtù decadono dall’ordine della grazia e rimangono al massimo come abiti naturali, più o meno utili, ma spesso nocivi perché ingannevoli sull’amore. Ma anche a livello naturale, l’amore è fine, che ha bisogno di tante virtù come mezzo.
Come fa notare S. Pinckaers⁹ per molti secoli la carità è stata annoverata tra le virtù, facendo prevalere i nostri sforzi rispetto al dono. Facendo perno sulle virtù personali proprie della carità si sono ignorare le virtù relazionali che ne costituiscono l’essenza, come vedremo più avanti.
Nei secoli passati nella teologia morale era invalso un primato della legge che a parole assegnava il primato alla carità fraterna, ma ridotta alle prestazioni delle virtù a essa connesse (sacrificio per gli altri, tolleranza, pazienza ecc.), non con un vero primato della persona da accogliere interamente.
Siamo sulla terra per imparare ad amare e, come ha detto mirabilmente san Giovanni della Croce, «alla sera della vita saremo giudicati sull’amore». San Giovanni, nella seconda lettera, scrive: «Chiunque ama è figlio di Dio e conosce Dio».
Il cardinale Comastri commenta in una sua omelia: «Sono parole di una profondità da vertigine. Sono affermazioni con conseguenze incalcolabili per valutare la vita cristiana e la vita di ogni uomo». Il Vangelo propone l’esame finale sulla compassione e sulla misericordia: perdonate e sarete perdonati, «con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 38). Purché sia carità reale, che all’occorrenza si riempie di opere, dando da mangiare all’affamato o visitando in carcere il detenuto. Tutto il resto è mezzo, anche le opere che necessariamente scaturiscono dalla carità.
L’inganno che ha indebolito oltremodo l’azione dei cristiani potrebbe derivare dalla parole di san Paolo che introducono l’Inno alla carità della prima Lettera ai Corinzi: il carisma migliore. Nelle lettere di san Paolo occorre fare un certo posto al problema del genere letterario e capire che in lui è spesso presente l’enfasi retorica.
In questo caso siamo proprio di fronte a un artificio retorico che può trarre in inganno. È stato detto che la più grande menzogna è tutta la verità meno uno; qui si rischia proprio questo: la carità fraterna considerata come la virtù più grande è proprio una riduzione che cambia la sostanza del cristianesimo, la uccide nella sua sorgente: non capiremmo nulla del cuore di Gesù. In realtà san Paolo vuol dire ben altro: «Se possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, niente mi giova». Non «più e meno», come per le altre virtù: niente! Tutto sarebbe morto, la fede e le virtù. Ed è da notare che intende la carità fraterna, trattandosi di una carità che non si irrita, che tutto sopporta negli altri. Forse il vero equivoco che ha impedito alla catechesi di capire bene la distinzione tra carità fraterna e opere di carità sta proprio nel fatto di pensare che san Paolo voglia dire: puoi fare tutto il bene che vuoi, se non ami Dio non ti serve a nulla. Invece parla proprio di carità fraterna distinta da qualsiasi opera di carità. Naturalmente sa bene che per amare ogni persona occorre sapersi amati da Dio.
Quando alla fine dell’Inno alla carità dice che la carità è la cosa più grande di tutte, parla di ciò che rimane in cielo, siamo proprio allo scopo di tutta la vita sulla terra: imparare ad amare gli altri. Quel «carisma migliore» è un inizio retorico per attirare l’attenzione e portare a puntare tutto sulla carità fraterna come compito affidatoci da Gesù. Posso dire tutto ciò con parole di P. Sequeri: «Quasi mai è osservato il radicalismo sconvolgente della cadenza del celebre inno ad agápe di Paolo (1 Cor 13, 1-12), che cita come paradossalmente insignificanti
, in assenza di agápe, temi alti della ispirazione, della donazione, del martirio, della fede. Le lingue degli angeli
, il dono della profezia
, la conoscenza dei misteri
, la pienezza della fede
, la distribuzione dei beni
, il sacrificio del corpo
. E appunto, si noti, si tratta semplicemente
di agápe nella sua forma elementare e antifrastica rispetto a ogni eroica
rappresentazione: la carità è benigna, paziente, tollerante, e simili. Insomma, agápe illumina ciò che spesso éros e philía, come anche Lógos e nómos, (la scienza
e la legge
) confondono»¹⁰.
Primato dell’amore. Come fa notare Benedetto XVI nella sua prima enciclica, la Deus caritas est, Gesù sintetizza in unità organica il precetto dell’amore di Dio con quello dell’amore al prossimo, in modo tale da costituire un unico comandamento principale, un unico legame di carità, con Dio e tra noi, allargando il concetto dell’Antico Testamento. Quando dice: «Il secondo è simile al primo» per rispondere alla domanda sul comandamento principale, dice proprio che non si può dare l’uno senza l’altro. Questo «primo comandamento» realizza tutta la Legge e i Profeti, cioè diventa il vero culmine morale che si rende visibile non tanto nell’adempimento dei precetti della Legge quanto nella carità fraterna. Già si intravvede un innalzamento del precetto di amare il prossimo a un livello donato di amore che è il «comandamento nuovo» di Gesù, possibile solo con il dono dell’Amore divino riversato nel nostro cuore dallo Spirito Santo (cfr Rm 5, 5). Con Gesù, parlare di carità implica sempre il comandamento nuovo. È da notare che in genere san Paolo quando parla di carità intende la carità fraterna; per parlare dell’amore di Dio usa la parola fede: credo nell’amore di Dio e di Cristo per me (cfr Gal 2, 20).
Giovanni Paolo II ha varie affermazioni apodittiche sul primato dell’amore. Nella sua prima enciclica dice: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Redemptor hominis, n. 10). Si riferisce all’amore di Dio per ogni uomo, ma è ben chiaro che il nostro accorgerci dell’Amore suscita necessariamente l’amore nostro per gli altri. Da giovane, nel 1946, Karol Wojtyla scriveva in una poesia: «L’amore mi ha spiegato ogni cosa, / l’amore ha risolto tutto per me / perciò ammiro questo Amore / dovunque Esso si trovi»¹¹. O come esclama san Josemaría Escrivá in Cammino: «Signore: fa’ che io abbia peso e misura in tutto... tranne che nell’Amore» (n. 427).
Benedetto XVI ha scolpito questa verità fin dalle prime parole della sua prima enciclica: «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui
(1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino». Da cardinale ebbe a dire: «Ma non sappiamo tutti che l’amore è la parola suprema, l’ultima vera parola su tutto il reale?». Molte volte è tornato su questo primato; una chiara asserzione è del marzo 2010, al Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, per un incontro con giovani. «Imparare ad amare: questo tema è centrale nella fede e nella vita cristiana. [...] L’uomo è fatto per amare; la sua vita è pienamente realizzata solo se è vissuta nell’amore. [...] È questa la chiave di tutta l’esistenza»¹².
Parole sublimi, che però possono essere vanificate se confondiamo le opere che quest’amore necessariamente suscita, con opere del tutto simili ma determinate dal bisogno concupiscente di immagine e di identità presso gli altri. Amore vuol dire legame intimo, empatia tra persone. Dove la persona è un unicum trascendente ogni categoria, ogni utilità, ogni strumentalizzazione, purché non voglia sostituirsi a Dio (ben lontani dall’istanza moderna di fare di ciascuno un assoluto a sé stante). Non si può certo dire che amo una persona come amo il vino o un bel tramonto. Nell’assoluto della persona c’è il primato assoluto dell’amore come definizione della persona, che non è tale se non in comunione con Dio e con gli altri. C’è un episodio nella vita di Giovanni Paolo II che ha qualcosa di sconvolgente. Mentre dialogava con i vaticanisti sull’aereo in volo verso Cuba, un giornalista gli domandò: «Santità, lei si colloca tra i conservatori o tra i progressisti?». Rispose: «Io prego che scompaiano queste categorie che dividono gli uomini». Un altro, come riporta J. Navarro-Valls, nel suo libro A passo d’uomo, gli domandò che cosa avrebbe voluto ascoltare da Fidel Castro all’Avana: «Io voglio ascoltare sempre e soprattutto la verità: che lui mi dica la verità, la sua verità, quella che conosce soltanto lui... come uomo, come presidente, come comandante». Pensando che il Romano Pontefice è il custode ultimo della verità rivelata, ben poca verità poteva venire da Castro. Altri avrebbero detto, per esempio, «mi ripropongo migliori rapporti tra Stato e Chiesa», invece l’interesse di Giovanni Paolo II era tutto per la persona di Castro, per un incontro personale reale, come era sua abitudine¹³.
Forse vale più questa rivelazione del suo cuore di tanti trattati teologici o antropologici.
Ugualmente bella è la testimonianza di papa Francesco che spinge alle periferie, perché mosso da vera carità, da vera «bontà e tenerezza» come ha detto nell’omelia dell’inizio pontificato. Se si parla solo dei poveri può essere divisione ideologica tra categorie, come avviene nella teologia della liberazione più spinta, mentre se si è mossi da vera carità si sente una spinta urgente verso tutti, con i loro bisogni, con le loro povertà da curare, perché l’amore opera e cura.
Molto chiaro è l’ammonimento di san Josemaría Escrivá: «Osservi un piano di vita esigente: ti alzi presto, fai orazione, frequenti i sacramenti, lavori o studi molto, sei sobrio, ti mortifichi..., però ti accorgi che ti manca qualcosa! Porta al tuo dialogo con Dio questa considerazione: siccome la santità – la lotta per raggiungerla – è la pienezza della carità, devi rivedere il tuo amore verso Dio e, per Lui, verso gli altri. Forse allora scoprirai, nascosti nella tua anima, grandi difetti, contro i quali non lottavi nemmeno: non sei un buon figlio, un buon fratello, un buon compagno, un buon amico, un buon collega» (Solco, n. 739).
Dal Vangelo
Gesù viene a mettere vino nuovo in otri nuovi. Questi otri indicano, secondo noi, la carità fraterna, una morale nuova, incentrata sull’amare il prossimo come Gesù ci ha insegnato.
Infatti Gesù definisce nuovo questo suo unico comandamento. Nuovo, in quanto frutto di un dono nuovo, operato dallo Spirito Santo, che sostanzia il legame tra noi in modo soprannaturale, trinitario, oltre che naturale. Dato che l’amore sulla terra lo si vede da ciò che opera, per capire il contenuto nuovo occorre vederlo nella Chiesa, nel modo in cui ci si apre a tutti e a ciascuno, se si ama il nemico, e in definitiva se si pone la persona al di sopra di tutto, anche del sabato. Porre la persona al di sopra del «sabato» vuol dire porla al di sopra del sacro, della legge religiosa, di ogni gerarchia, di ogni categoria. E su questo comportamento siamo ancora molto indietro, e solo i santi lo attuano. Eppure saremo giudicati proprio sull’agápe, sull’accogliere come famigliare chi è estraneo, facendo diventare l’ultimo tra i piccoli un fratello di Gesù (cfr Mt 25, 40), prima ancora di provvedere alla sua indigenza, tanto che deve valere sempre, anche in mancanza di indigenza. Anche l’olio delle vergini prudenti indica chiaramente la carità: nessuno può amare al mio posto, mentre possono sostituirmi nelle opere. Che quell’olio sia il comandamento nuovo lo si vede dal fatto che è indispensabile per entrare in cielo. La parabola stessa è collocata nel capitolo 25 di san Matteo, tutto dedicato al giudizio finale.
Gesù, dandoci il suo comandamento, è come se dicesse: Vi hanno dato mille precetti, io ve ne do uno solo, perché chi ama osserva tutta la legge. Non dice che chi osserva la legge ama, ma il contrario. Non dice neppure che chi ama può trascurare la legge. La fede cristiana, fede nell’Amore del Padre che manda il Figlio a morire per me, differisce dal vissuto religioso, presente in tutti i popoli, ma non lo sostituisce: ne ha bisogno. Anche i cristiani devono vivere i dettami religiosi, ma senza ridurre la fede a religione. Questa è naturale, e in un modo o in un altro è presente in tutti ed è legame di popolo, nella confusione del peccato, che può nascondere il vissuto religioso dentro ideologie, ateismi, o sette di tutti i generi.
Il cristiano vive nell’àmbito di una religione ben definita, in cui però occorre distinguere i contenuti soprannaturali, ossia non naturali. È naturale aprirsi verso un assoluto divino (o ideologico e idolatrico), non è naturale accettare l’incarnazione del Verbo divino o la sua risurrezione dalla morte. Ciò che è di fede trascende le opere della religione, tra cui tutti i dettami della legge naturale. Ma non si oppone a esse: le riscatta dal peccato e le pone a sacramento del dono inaudito.
Gesù è molto attento a riassumere l’impegno morale, la nostra collaborazione alla santità, in un solo comandamento, nuovo. Nell’ultima cena non solo dice: «Vi do un comandamento nuovo», ma ripete: «Questo è il mio comandamento» (Gv 15, 12). «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 15, 17). E aggiunge che da questo saremo riconosciuti come suoi discepoli, come cristiani. Non certo da opere di religione, preghiere e mortificazioni, riti e processioni, ma da come ci vedono uniti da un vincolo di amore nuovo, in una nuova «società», che è il Regno di Cristo, da come facciamo trasparire l’amore di Cristo per il peccatore, il dono di tutto l’amore del Padre per ogni persona, il togliere ogni condanna (cfr Rom 8, 1, oltre all’episodio impressionante dell’adultera)¹⁴.
Nell’ultima cena narrata da Giovanni, c’è come uno stacco e poi arrivano quelle parole che sono tra le più sublimi pronunciate sulla terra: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15, 9-12). I comandamenti al plurale sono riassunti tutti al singolare: questo è il mio comandamento!¹⁵
Nel testo greco per «comandamento» compare entolé. Questa parola ha varie sfumature, da legge tra le altre a legge fondamentale del regno, editto del re, o legge costituzionale, come diremmo oggi. Non è azzardato pensare che Gesù, nel solenne momento in cui istituisce il comandamento nuovo, data l’importanza estrema che lo caratterizza, l’intenda proprio come editto del suo regno, non solamente una legge da aggiungere all’Antico Testamento, bensì la costituzione del suo Regno. Il comandamento nuovo che ci dà Gesù indica il legame fondamentale per appartenere al Regno.
Il resto, seppur necessario e utile, non può bastare a farci vivere nel Regno.
Proseguendo insiste sul suo comandamento: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. (...) Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 15, 13-17).
Nel versetto 14 dice che siamo amici suoi solo se facciamo quello che lui ci comanda; e nel versetto 17 ribadisce imperiosamente: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri»! Non bisogna farsi ingannare dalle parole: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici», è vero, ma è pur vero che tutti sono disposti a dare la vita per qualcuno, perché senza un legame di amore non si può vivere. Non solo i kamikaze, non solo i rivoluzionari atei hanno dato la vita, anche un ladro in pericolo può rischiare la vita per favorire la salvezza di un suo compagno ecc.
Le parole di Gesù rimangono vere ma solo se c’è il superamento, in Cristo, dell’idolatria, del bisogno di immagine presso altri in sostituzione dell’essere immagine di Dio.
Padre Kolbe ha vissuto autenticamente il dono della vita per il bene di un’altra persona, pur non conoscendola, ritenuta superiore alla propria vita. Dare la vita ha due significati: morire per gli altri e dare la vita, ossia generare, e non solo un figlio. Gesù è venuto a darci una «vita abbondante» (cfr Gv 10, 10).
Il detto: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» vale solo se il sacrificio è per dare la vita nel secondo senso. Può essere che sia per dare un senso alla propria vita, e allora non vale più.
Il comandamento nuovo non è una virtù personale, ma una profonda relazione umana e trinitaria, che unisce le persone uniche in un’unica relazione, che è Chiesa, comunione. È quel «noi» emergente rispetto alle persone, infuso dallo Spirito Santo per una nuova comunione tra gli uomini, come vedremo parlando della relazionalità. Già la parola greca agápe si riferisce ai legami famigliari, estesi agli ospiti. Non per nulla la traduzione carità è stata presa dai primi cristiani come nome nuovo dell’amore nella famigliarità con Dio, e pertanto con vincolo «famigliare» nuovo anche per noi.
Gesù predica e fa miracoli, ma sa benissimo che non con le parole o con i miracoli potrà salvare e santificare gli uomini. Conta sulla Croce, come manifestazione estrema del suo amore per ciascuno di noi e sul modo in cui quest’amore verrà incarnato dai suoi discepoli di ogni tempo. Ma ha assoluto bisogno della visibilità del suo amore tra noi. La vera fatica di Gesù, infatti, fu quella di costituire una comunità di dodici apostoli in vera comunione con Lui e tra di loro.
Si legge in Marco: «Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva» (Mc 3, 13); sono il cuore del suo progetto, le primizie, il modello del modo nuovo di stare insieme tra gli uomini che Lui ci porta dalla Trinità.
Pietro cambia nome, cosa importante per quei tempi. Il raduno implica la costituzione di un mondo nuovo. Non sono investiti di potere individualmente, ma in collegio. Non esiste un apostolato individuale, solitario.
Allo stesso tempo la comunione non è voluta per l’azione, ma per l’essere: prima dell’«invio» c’è lo «stare» con Lui. Si tratta di sperimentare un’autentica comunione in Cristo. Senza questa unità in Cristo l’azione diventa effimera.
Non è facile vivere così. Ma non fu facile neppure per gli apostoli che per tre anni condivisero la vita con Cristo e tra di loro. Gesù li sceglie in modo da non risparmiarsi fatiche. Tra giudei e galilei non correva buon sangue; tra zeloti (Simone) e collaborazionisti dell’impero romano (Matteo) c’era vero odio, c’erano persone ambigue come Giuda e idealisti come Giovanni ecc. Li forma e li esorta in tutti i modi. Nonostante la presenza di Gesù e dei suoi insegnamenti, tra loro sorgevano dispute su chi era il primo o sui posti alla sua destra o alla sua sinistra. L’ultimo diverbio si ebbe durante l’ultima cena, nell’ora suprema trascorsa con Gesù sulla terra. Nonostante fosse un grande pedagogo, i sui sforzi sarebbero stati vani prima della discesa dello Spirito Santo che genera la nuova comunità, il nuovo vincolo primario, di consistenza trinitaria.
Gesù tiene molto ai suoi dodici: ha bisogno di loro per creare una nuova comunione, esperta della sua presenza tra gli uomini. Ancor più si preoccupa dell’unità vitale, nell’amore, dei suoi discepoli, per i tempi futuri, quando prega il Padre di darci l’unità trinitaria. Fonte, forza, culmine e modello della sua Chiesa è la Trinità: «Come noi siamo una sola cosa».
In realtà il gruppo primario, la comunione operata dallo Spirito Santo, nel nostro caso, ha una sua priorità rispetto all’apporto delle persone che la compongono.
Prima di Pentecoste Gesù era esterno agli apostoli; si trattava di un gruppo primario molto forte, con comunione intensa, ma di stampo israelitico, che condizionava profondamente la risposta del cuore degli apostoli. Con la discesa dello Spirito si inaugura il Regno, il nuovo popolo di Dio.
Anche le immagini di Chiesa offerte da Gesù sono molto personalizzate: l’ovile, il buon pastore, il podere di Dio, dove Lui è la vera vite, la sposa che ha amato, l’edificio di pietre vive di cui è la pietra angolare. Vi si può leggere il primato della persona e della comunione di persone. Non c’è traccia di pastorale efficientista, di responsabilità della legge, di cura della struttura. Anche i compiti che affida alla sua Chiesa: fate questo in memoria di me, battezzate tutte le genti, indicano l’Eucaristia, la presenza reale di Cristo tra i suoi e l’attenzione a ogni persona. Quando consegna Giovanni a Maria e a ciascuno di noi, pone sua Madre alle sorgenti della Chiesa in quanto Madre.
L’essenza della Chiesa è la nascita di un mondo nuovo
fondato sulla comunione
Il cuore della Chiesa è la persona di Cristo, con la sua umanità e con la presenza trinitaria. Ma è anche l’uomo, come persona e cioè in relazione con Dio e con gli altri.
Nel passato si insisteva sugli aspetti esteriori, visibili, istituzionali della Chiesa; il rinnovamento teologico ha preferito l’invisibile, l’azione dello Spirito, l’icona trinitaria della Chiesa, la comunione in Cristo. Ma c’è anche l’uomo nella sua storia. Il centro è Cristo e l’uomo concreto, in comunione trinitaria. Giustamente oggi si parla molto di Gesù. La teologia ci ha riportato al primato della Parola, all’incontro eucaristico con Gesù. Occorre ancora un passo: legare sempre il kérigma con il comandamento nuovo. Non vale parlare di Gesù se non si favorisce un incontro reale, che si manifesti in una visibilità nuova dei nostri rapporti. Si parla molto di carità, più ancora di opere di carità, di assistenza ai bisognosi, ma spesso in modo slegato dal primato di Cristo nella nostra vita.
In genere i cristiani navigano in un gruppo primario che non è cristiano, e nessuno sa farglielo capire.
Eppure Gesù chiede sempre la visibilità del comandamento nuovo, che è tale solo se è primario. Per secoli lo si è lasciato alle comunità religiose, e anche qui con molta fatica. Quel «rimanete nel mio amore» come luogo di «gioia piena» è legato al comandamento della carità¹⁶.
L’unica spiegazione del Padre nostro che ci fa riflettere sul perdono, lega la santità («siate perfetti come il Padre è perfetto») alla misericordia: «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro». Spesso si ha l’impressione che si tenti di mettere a fuoco l’incontro con Cristo lasciando il comandamento nuovo tra le virtù da acquisire, tra i precetti da osservare. Si ha l’impressione che non sia chiaro il connubio necessario tra fede e carità fraterna.
All’inizio la comunità prevaleva rispetto all’istituzione (basti pensare agli Atti degli Apostoli), poi l’istituzione ha prevalso¹⁷. Col Concilio Vaticano II si è cercato di restituire il primato alla comunione. Giovanni Paolo II lo ha rilanciato nell’enciclica Novo millennio ineunte. Sarebbe superficiale e inutile prendersela con l’istituzione, come ogni tanto fa qualche teologo o sacerdote del Nord Europa, o qualche comunità di laici che cerca di salvare la Chiesa dal «potere di Roma». Nella storia non è possibile costituire una vera comunità che non induca ad amare gli aspetti istituzionali su cui si regge, come se si dovesse disprezzare lo scheletro per esaltare il cuore o il cervello. Tuttavia è vero che se l’istituzione pesa eccessivamente, nasce un contrasto tra pastori e gregge. Ma è certo che l’amore alla Chiesa coinvolge la nostra persona e raggiunge l’intimità di coloro che si trovano nella comunione ecclesiale. Primato della persona, primato della carità. Primato della comunione sull’istituzione. Lo Spirito Santo vede persone, noi rischiamo di fermarci di più sull’istituzione. L’esempio che ci ha dato Giovanni Paolo II è trascinante. In lui il primato della persona sull’istituzione era teorico e pratico; lo viveva e lo praticava. In quel capolavoro che è la Novo millennio ineunte ci offre una pastorale essenziale basata sull’incontro personale con Gesù e sulla spiritualità di comunione. Ce lo chiede espressamente. «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo. [...] Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione» (n. 43).
Non occorre insistere sulla dichiarazione del primato. Il problema nasce là dove si legge la carità solo nelle opere di carità, nelle virtù che accompagnano la carità, nei sacrifici che sempre la accompagnano, ma che non sono mossi in prima istanza dalla carità¹⁸.
Amare le persone con il cuore di Cristo («come io ho amato voi») ecco che cosa ci chiede il Signore. È la carità donata che permette di avere Cristo nel cuore, nel «centro», e con Lui tutti i suoi legami, tra noi¹⁹.
Il comandamento nuovo diventa il nostro compito principale, il principio architettonico del nostro agire cristiano. San Giovanni è lapidario: «Questo è il messaggio che avete udito dal principio: che ci amiamo gli uni gli altri. (...) Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3, 11-14). È la prova che si appartiene al mondo nuovo, al mondo della fede soprannaturale, della salvezza come amore divino in ogni tipo di tribolazione. Nella preghiera per l’unità dei discepoli, nel capitolo 17 di Giovanni, l’unità trinitaria invocata implica un assoluto della persona, nella sua dignità divina, che nessun giudizio sull’agire, sulle opere, sui peccati stessi può scalfire; non c’è posto per alcun confronto, per successi o insuccessi, per lotte di potere²⁰.
Anche san Paolo è lapidario: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la legge» (Rm 13, 8).
Amare gli altri diventa un «dovere», e cioè il dovere per noi di corrispondere all’amore di Dio in Cristo. Facilmente si pensa che se Dio ha amato noi, noi dobbiamo amare Dio, in realtà «dobbiamo» credere sempre più in quest’amore e ricambiarlo nei fratelli; amare Dio è lodarlo e ringraziarlo nella misura in cui ci lasciamo amare da Lui: è Lui che ama! Ma non si può dire di accorgermi di un Dio che mi ama se non si osserva la carità fraterna. Tra Dio che ci ama e ci unisce in vera fraternità si stabilisce una circolarità aperta all’infinito.
La Chiesa deriva dal mistero trinitario ed è una comunità escatologica, un segno escatologico dell’amore. M.J. Lagrange diceva che, durante la relativa assenza di Gesù, egli vuole essere incontrato e servito nella persona dei suoi fratelli sino al suo ritorno. Il tempo della Chiesa è il tempo della carità; è il tempo dell’incontro del Signore attraverso il fratello, vero anticipo dell’incontro finale. Se la Chiesa è umana e divina, identificata com’è con il suo fondatore e capo, se è visibile e invisibile, quale sarà il luogo centrale dove si incontra il visibile con l’invisibile? È certamente la capacità umana di amare, innalzata a una nuova visibilità che solo Gesù può darci: questa capacità rivela umanamente l’amore trinitario, rende visibile il segreto trinitario dell’invisibile.
La sua umanità, infatti, rende visibile il Dio-amore: «Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 18), tanto che Giovanni può dire: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò [...] – noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1, 1-4).
Ma la sorte di Cristo sulla terra impone una continuità della sua visibilità umana: «Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4, 12). Il cuore della Chiesa, tra l’umano e il divino, tra natura e grazia, è il comandamento nuovo: da questo riconosceranno. Ecco la visibilità a noi affidata, il mistero che si lascia vedere umanamente per metterci in contatto con l’ineffabile, nascosto nei secoli.
Osserva J.M. Perrin: «Impossibile non restare sorpresi dal rilievo che occupa nel Vangelo l’amore per il prossimo. Il discepolo alla fine ne rimane come ossessionato»²¹.
Spesso si vede come un ritirarsi in disparte di Dio pur che lo si cerchi nel fratello. Del «Padre nostro», Gesù commenta solo il «rimetti a noi i nostri debiti come noi...»; allo scriba edotto del comandamento principale detta la parabola del samaritano... Se si fa qualcosa per Cristo, Egli lo ripaga moltiplicato per cento, ma se si fa qualcosa per i fratelli (a stare ai numeri simbolici del Vangelo) lo ripaga moltiplicato per circa quarantamila (tale è la differenza tra cento denari e diecimila talenti, anche se il talento appare di difficile valutazione).
Se si cerca la perfezione, la pietra di paragone è la carità fraterna. Puoi macerarti, ma non serve a nulla se non si nota la tua benevolenza. Solo l’amore cristiano può palesare fulgidamente la divinità di Gesù. Nota Perrin: «Per questa potenza manifestativa dell’amore il Cristo chiese al Padre che concedesse ai suoi una perfetta unità nella carità. È una sciagura che si veda tanto poco. La carità fraterna è la vera sostanza della santità. Ci vuole silenzio e ascesi, studio e impegno pastorale, ma solo l’amore al prossimo assomiglia al Dio Trino nella realtà pratica»²².
Sant’Agostino propone: «Vuoi sapere se hai lo Spirito Santo? Interroga il tuo cuore, se è pieno di amore agli altri lì c’è lo Spirito Santo». Non c’è altra misura della santità. Del resto, i frutti dello Spirito (dai frutti si vede la bontà dell’albero) sono fatti di carità fragrante, senza particolari rimandi a opere di misericordia: «Amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22), e viene aggiunto, assai significativamente: «Contro queste cose non c’è Legge», che capiremo meglio parlando delle opere.
Benedetto XVI, presentando l’opera teologica di Guglielmo di Saint-Thierry, precisava: «Una delle sue prime opere è intitolata De natura et dignitate amoris (La natura e la dignità dell’amore, 1, PL 184, 379). Vi è espressa una delle idee fondamentali di Guglielmo, valida anche per noi. L’energia principale che muove l’animo umano – egli dice – è l’amore. La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell’amare. In definitiva, un solo compito è affidato a ogni essere umano: imparare a voler bene, ad amare, sinceramente, autenticamente, gratuitamente. Scrive infatti Guglielmo: L’arte delle arti è l’arte dell’amore
. Imparare ad amare richiede un lungo e impegnativo cammino (...) fino a giungere al vertice della vita spirituale, che Guglielmo definisce come sapienza»²³.
La Chiesa può fallire solo là dove viene meno la carità. Non è esattamente il tema della caritas pastoralis, che interpella piuttosto la paternità spirituale e una grande responsabilità nelle opere, ma quello della filiazione e della fraternità. Lo faceva notare san Josemaría Escrivá in Cammino: «Nella tua impresa apostolica non temere i nemici esterni, per quanto grande sia la loro potenza. – Ecco il nemico tremendo: la tua mancanza di filiazione
e la tua mancanza di fraternità
» (n. 955). È da figli che ci si scopre amati e da fratelli che si scopre l’altro. La paternità scaturisce da quelle due fonti.
Nella Legenda aurea si racconta che san Giovanni evangelista ormai vecchio, portato sulle spalle nelle assemblee come grande reliquia di Cristo, ultimo dei suoi apostoli sopravvissuto, non potendo più parlare a lungo ripetesse sempre: «Figliolini miei amatevi l’un l’altro». Alcuni giovani finirono per dirgli: «Maestro ci dici sempre lo stesso!». «Come lo stesso! È il comandamento del Maestro, chi lo osserva, osserva tutta la legge!». È molto importante riflettere sul fatto che Giovanni è il discepolo che ha fatto la più profonda esperienza di Cristo e la più lunga esperienza della Chiesa, con tanti problemi ormai in atto; ebbene, non potendo dire che una sola cosa non indica la preghiera, ma riassume la sua esperienza e il cristianesimo nel comandamento nuovo.
San Josemaría Escrivá commentava: «Capisco benissimo la predicazione unica di san Giovanni, alla fine della sua vita».
Pregare è un mezzo, solo le persone sono fine. Ma anche le opere sono un mezzo: il comandamento nuovo non deve essere ridotto al «fate agli altri quello che volete sia fatto a voi», che si riduce alle opere di misericordia. Occorre capire bene quel «come io ho amato voi» e cioè ponendosi nei nostri panni di peccatori («pur non avendo peccato si è fatto peccato»), con quella croce ignominiosa che riassume tutti i peccati davanti al popolo di Dio. Ognuno, per quanto peccatore, può sentire Gesù dalla sua parte, per salvarlo e non per giudicarlo. «Quando sarò elevato attirerò tutti a me»: perché lì si vede quanto ci ama. Purché non si confonda la croce con un prezzo da pagare; occorre vedere proprio il volto di Gesù che mi ama, altrimenti confondiamo, anche in Cristo, la carità con le opere di carità, con i sacrifici, con i servizi. Occorre che l’altro «veda» che lo si ama.
L’entolé è la legge costituzionale, ma il titolo di appartenenza è l’essere peccatori: i non peccatori (se ve ne fossero! Qualcuno può crederlo) sono esclusi dal Regno. E le prostitute li precederanno. «Non sono venuto per i sani, ma per gli ammalati». È la misericordia la vera rivelatrice di un cuore divinizzato, l’anima profonda della santità.
Gianfranco Ravasi faceva notare che san Matteo conclude il Discorso della montagna con il «siate perfetti come è perfetto il Padre mio nei cieli», mettendo in risalto il clima di radicalità in cui si è svolto il discorso. Mentre san Luca sembra citare la frase originale di Gesù (secondo esperti esegeti): «siate misericordiosi come è misericordioso il Padre mio nei cieli» ricorda che la misericordia divina ci precede, ma la vera risposta del credente è nella misericordia. Pertanto anche la radicalità di Matteo evidenzia l’esigenza di essere perfetti nella misericordia, di andare fino in fondo, di giocarsi la vita per imparare ad amare col cuore di Gesù. Oggi prevale la compassione (aiutare il bisognoso) rispetto alla misericordia, anche se c’è, come Nouwen, chi vede proprio nella compassione il vero atteggiamento di Dio nei nostri confronti²⁴. Misericordia è amare chi non lo merita, ciascuno con i suoi difetti, a partire dall’uomo reale e non dal mio schema mentale di ciò che dovrebbe essere. Occorre la vera capacità di accogliere l’altro per come mi si rende presente, altrimenti lo inserisco nei miei schemi di potere o di sicurezza.
Il comandamento nuovo è operato dallo Spirito Santo
Gesù riassume tutto lo sforzo morale nel comandamento nuovo. Sembra che Lui ci doni lo Spirito Santo che opera la salvezza in noi senza nostro merito, ma come impegno da parte nostra si debba rispondere con il comandamento nuovo.
Spesso le parole di Gesù risuonano in modo tale da far pensare che sia una condizione previa per darci il suo dono di grazia: «Rimane nel mio amore chi osserva i miei comandamenti (...) e
