Liberare l'amore: La comune idolatria, l'angoscia in agguato, la salvezza cristiana
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Questa tesi, illustrata con una originalissima sintesi di apporti sociologici, psicologici, filosofici, teologici e di esegesi biblica, conduce il lettore a prendere coscienza del proprio nome (unità, responsabilità personale, libertà) e del proprio cognome (vincolo comunitario, anche in dimensione ecclesiale), per renderlo libero di amare. «Riconoscere nell'idolatria il male radicale che paralizza la crescita della persona», scrive mons. Bruno Forte nella Presentazione, «esige l'onestà di far cadere la maschera difensiva che tutti, in un modo o nell'altro, abbiamo potuto costruirci. Un libro "controcorrente", che proprio per questo è quanto mai attuale e urgente: una sorta di sveglia o di allarme delle coscienze, che senza moralismi o scorciatoie ideologiche guarda in faccia la verità del cuore e accompagna l'emergere cosciente dell'angoscia verso il suo unico possibile superamento».
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Book preview
Liberare l'amore - Ugo Borghello
Emmaus, collana di spiritualità
nuova serie
Ugo Borghello
Liberare l'Amore
La comune idolatria, l'angoscia in agguato, la salvezza cristiana
© 2021 Edizioni Ares
Via Santa Croce, 20/2 - 20122 Milano
ISBN 978-88-9298-093-8
Il catalogo completo delle Edizioni Ares
è consultabile sul sito www.edizioniares.it
La nostra e-mail è:
info@edizioniares.it
Imprimatur; † Claudio Stagni Vescovo Ausiliare, Vicario Generale Bologna, 12 settembre 1996
num-1Ugo Borghello (Novi Ligure, 1936). Dopo aver ottenuto il Dottorato in Diritto canonico all'Angelicum di Roma (1958) si è laureato in Scienza dell'Informazione all'Università di Navarra (Pamplona, 1961), poco prima della sua ordinazione sacerdotale. Con Ares ha pubblicato: «Matrimonio combinato?» «No, grazie» – Ma con qualche (grossa) sorpresa...; L’amore romantico contrastato; Liberare l’amore; Le crisi dell’amore; Il sogno dell’amore per sempre; La sfida dell’amore; Liberi dal sarcasmo; Saper di amore; I fondamentali dell’amore umano.
Presentazione
La tesi di questo libro è al tempo stesso una promessa e una sfida: suonerà come promessa a chi prende sul serio la verità delle analisi dell’animo umano che vi sono contenute, frutto di larghissima e profonda conoscenza della vita e della sofferenza di tanti uomini e donne realmente incontrati. Chi non si riconoscerà nella descrizione dell’angoscia, che come «male oscuro» ispira tanti comportamenti e tante scelte? Chi non riconoscerà una propria esperienza nell’analisi fine dell’idolatria, che è poi il meccanismo di difesa dall’angoscia messo in atto dal nostro cuore, in cerca di consenso rassicurante? E chi, uomo di fede, non vedrà l’esattezza del rischio denunciato, che anche la vita di quanti abbiano conosciuto la verità che salva può cadere nella seduzione idolatrica e divenire alienazione sottile? Un itinerario dì liberazione dall’angoscia non può che risuonare come promessa per tutti: e questo libro viene a proporlo, non in base a speculazioni teoriche, ma sul conforto di un vissuto ricco di contatti umani, di accompagnamenti psicologici e spirituali, di veri e propri esodi dalla morte alla vita...
E tuttavia questo libro è una sfida: riconoscere nell’idolatria il male radicale che paralizza la crescita della persona esige l’onestà di far cadere la maschera difensiva che tutti, in un modo o in un altro, abbiamo potuto costruirci. Se l’essere umano di cui si parla non è un’astrazione, ma sono io, sei tu che leggiamo, allora la lama dell’analisi ci scava dentro e fa emergere alla luce quei meccanismi che facilmente e con disinvoltura saremmo pronti a riconoscere negli altri, ma che con fatica e resistenza vorremmo vedere presenti in noi. Perciò questo è un libro «scomodo», che non esita a chiamare per nome il male del mondo, che non si schermisce nel parlare di «peccato», che anzi fa di questa categoria decisiva, tanto emarginata dall’ottimismo illuminista della ragione moderna, una struttura portante di cui prendere coscienza e da cui partire per vivere un cammino autentico di liberazione. Un libro, dunque, «controcorrente», che proprio per questo è quanto mai attuale e urgente: una sorta di sveglia o di allarme delle coscienze, che senza moralismi o scorciatoie ideologiche guarda in faccia la verità del cuore e accompagna l’emergere cosciente dell’angoscia verso il suo unico possibile superamento.
Qual è questa via liberante e capace di sanare le più profonde ferite dell’anima? La proposta del libro è semplice e provocante: solo l’amore libera e salva, perché solo l’amore rende capaci di quell’esodo da sé senza ritorno in cui l’egocentrismo che anima l’idolatria e l’angoscia è finalmente vinto. E questo amore non è l’oggetto mercificato, profanato, violentato di cui tanto parla la cultura edonistica della decadente e inquieta post-modernità; né è l’amore eroico, ottimista, ingenuo e rivoluzionario di cui si riempiva la bocca la presunzione dell’ideologia moderna in tutte le sue declinazioni; ma è amore che viene da altrove, e proprio così ci raggiunge e ci salva. È l’amore crocefisso, il dono senza riserve dell’Abbandonato che lancia il grido dell’ora nona. È questo amore che squarcia il velo del Tempio e abbatte il muro della separazione, facendoci finalmente sentire accolti nell’amore eterno dei Tre. «Quando ami, non dire: ho Dio nel cuore. Di’ piuttosto: sono nel cuore di Dio» (Kahlìl Gibran, Il Profeta).
Essere nel cuore di Dio e riconoscersi avvolti e amati in esso è libertà dalla paura, è vittoria che vince il mondo perché vince l’idolatria di noi stessi e ci proietta nei sentieri di una vita donata, significativa e piena proprio a partire dalla perdita di ogni falsa sicurezza, perfino quella di un pentimento che sia solo ricerca di sé. «L’unica cosa che veramente può disarmare il sofisma del pentimento è la fede, il coraggio di credere... il coraggio di respingere l’angoscia senza angoscia; ciò si può soltanto con la fede la quale, senza perciò annientare l’angoscia, ma restando eternamente giovane, si sbarazza del momento mortale dell’angoscia» (S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia IV, 1). Come dire che la vertigine della libertà di fronte al nulla – in cui consiste propriamente l’angoscia – è vinta non in uno «stato», ma nel continuo atto di fede che perdutamente si abbandona all’Altro e si lascia accogliere e amare da Lui. E questo non nella solitudine di una lotta individuale, che alla fine risulterebbe sfibrante, ma nella comunione di un amore che rivela al mondo i discepoli del Crocefisso risorto per noi.
La Chiesa, eternamente giovane nella sua fede, comunità dell’amore sempre tentata dall’idolatria, che può insinuarsi fin nelle sue più intime fibre (come questo libro con coraggio dimostra), è l’ancora di salvezza, l’approdo dove l’angoscia è vinta e la libertà donata, la compagnia della fede e della vita dove continua a narrarsi per tutti il vangelo della nostra salvezza. Questa è l’umile ferma certezza da cui muovono la promessa e la sfida di questo libro, che non possono perciò non risolversi in un appello esistenziale netto, senza ambiguità o infingimenti, pieno tuttavia di consolante fiducia. Come dire: provare per credere. Ma anche: ho provato, e perciò credo e ti dico di credere...
† Bruno Forte
Arcivescovo di Cheti-Vasto
Introduzione
«Lo Spirito convincerà il mondo»
«Un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso» (Sal 64, 7)
Nel vangelo di Giovanni ben cinque capitoli sono dedicati al racconto di addio di Gesù. Ogni affermazione di questa narrazione fa riferimento a quelle parole. La passione sarà la conferma estrema, il fatto salvifico. Ogni parola di Gesù viene dalla Croce. Anche la Risurrezione, l’Ascensione e la Pentecoste vanno cercate nella grande rivelazione dell’ultima cena.
Ha ben chiaro, l’evangelista, che la comprensione delle parole dell’ultima cena è affidata all’azione dello Spirito Santo, promesso come il grande dono messianico, ma anche come colui che ci insegnerà la verità tutta intera (Gv 16, 13). Gesù torna continuamente sulla promessa e sulla necessità dello Spirito Santo. Lo annuncia come Spirito di verità, come Consolatore, frutto della Croce, che ci darà un potere divino per la grande efficacia apostolica. Tutte affermazioni che lasciano piuttosto indefinito il loro contenuto soprannaturale.
Ma c’è un momento in cui Gesù, quasi cambiando tono («Ora vi dico la verità...»), specifica i contenuti ultimi della sua rivelazione: ci dice di che cosa dovrà convincerci lo Spirito Santo: «È bene per voi che me ne vada, perché se non me ne vado non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado dal Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il Principe di questo mondo è già stato giudicato» (Gv 16, 711). Gesù non si limita, come quando annunciava lo Spirito di verità o di consolazione, a un titolo; qui cerca, seppure brevemente, di spiegare il contenuto di quei tre titoli.
«Peccato», «giustizia», «giudizio». A prima vista non sembrano le parole più importanti della Rivelazione; basti pensare a espressioni come «amore», «comunione con il Padre e il Figlio», «partecipi della divina natura», «eucaristia», «risurrezione», ecc. Eppure è ciò di cui deve convincerci lo Spirito e cioè la luce del dono messianico che Cristo rende operativo in noi con la sua morte e risurrezione.
Questa promessa, forse più enigmatica dopo la spiegazione che Gesù stesso ne dà, contiene in nuce un insegnamento fondamentale, che riguarda l’autenticità dell’esistenza cristiana.
* * *
L’obiettivo di questo lavoro è di favorire una maggiore consapevolezza della salvezza cristiana, studiando il dono ch’essa suppone in concomitanza con una presa di coscienza più profonda del male che inganna ogni uomo. Il fatto di essere tutti peccatori, bisognosi di redenzione, ci fa vivere con un profondo disagio, spesso relegato allo stato latente, pronto a esplodere in tanti conflitti interiori o interpersonali, fino alla sempre possibile angoscia. Accade che tanti uomini e donne; anche cristiani, non prendono coscienza della salvezza di Cristo perché non si rendono conto della natura del male dal quale devono essere salvati e chiedono a Cristo ciò che non è previsto nel disegno di Dio. Qualcuno ha osservato che non vi è nulla di più controproducente del dare risposte a chi non si pone domande; è come seminare pietre.
Il bene viene dal bene, e pertanto si deve conoscere anzitutto il contenuto della salvezza, ma, proprio perché si parla di salvezza, si deve essere consapevoli della natura del peccato, del male che ci schiavizza. È lo stesso Vangelo a esigere la consapevolezza del peccato per partecipare alla salvezza: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1, 14) (cfr Mc 6, 12; Mt 3, 2; 4, 7; At 17, 30; Ap 3, 19). Tale consapevolezza deve essere necessariamente molto profonda e complessa, fino al punto da definire tutta un’attitudine spirituale. La conoscenza del bene e del male vanno di pari passo; solo lo Spirito Santo può convincerci del male profondo che è in noi – il mysterium iniquitatis (2 Ts 2, 7) – e della ben più grande salvezza – il mysterium pietatis (1 Tm 3, 16) –. L’impegno a indagare sul mysterium iniquitatis ha lo scopo di favorire una migliore conoscenza della rivelazione cristiana: «La rivelazione dell’amore divino in Cristo ha manifestato a un tempo l’estensione del male e la sovrabbondanza della grazia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 385; cfr n. 387); con la consapevolezza che è di san Paolo: «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5, 20). San Giovanni Paolo II dice: «Il peccato tanto più pesa sull’uomo come una realtà oscura e infausta quanto meno viene conosciuto e riconosciuto» (Udienza generale 3-IX-86).
Il contenuto del libro segue l’articolazione dei tre «convincimenti» presenti nel testo di san Giovanni sopra citato. C’è un peccato di cui solo lo Spirito Santo può convincerci, diverso pertanto dai peccati personali di cui può convincerci la coscienza. E tale peccato lo si scopre in parallelo al «perché non credono in me», secondo la spiegazione che di quel peccato Gesù dà in quel passo; indica una fede nell’Amore, la cui assenza lascia nell’oscurità proprio un bisogno radicale di amore, che condiziona di fatto tutto l’agire umano, ma in modo egoistico.
Si è sempre parlato di peccato originale, come causa di tutti i mali, ma in modo piuttosto astratto. Si sa che il battesimo toglie la colpa ereditata, ma non la concupiscenza o fomes peccati, occorre però indagare sulla profonda inautenticità che la concupiscenza provoca nella soggettività. La concupiscenza pone l’uomo in un disagio profondissimo perché lo induce a divenire centrale rispetto alla considerazione degli altri uomini, vanificando l’immensità dell’amore divino. L’uomo non può vivere senza un amore assoluto; ma non lo cerca in Dio, bensì direttamente presso altri uomini, anche se in mille forme diverse e spesso in forme apparentemente individualistiche. A volte il cuore sembra appagato dallo stabilizzarsi di alcuni rapporti significativi, ma in realtà è vittima di una grande schiavitù: finisce per dipendere esistenzialmente dalla volontà altrui, in una precarietà che spesso esplode e lascia delusi, o angosciati: e comunque rende inautentici e isterilisce i nostri gestì, anche di servizio agli altri, anche apostolici. Tale problema si nasconde dietro ogni gesto, retto o perverso; dietro ogni ideale, anche nobile; dietro ogni rapporto, anche nel sacrificio per gli altri. Ciò è causa di tutti i disagi, fino all’angoscia, di tutti i mali morali e dei turbamenti che spesso caratterizzano i rapporti umani, fino alle guerre e alle peggiori perversioni. Si può arrivare a capire che il nostro cuore si muove idolatricamente, caricando di assoluto realtà finite. La teologia, oggi, indaga a fondo sul Dio-Amore, prossimo alle esigenze esistenziali dell’uomo, ma rischia di dare risposte a chi non si pone domande in questo senso, a chi ignora il problema abissale di amore che condiziona l’uomo in tutto ciò che fa. Eppure tutti, segretamente, cerchiamo quell’amore.
Alla luce della sapienza biblica si può scorgere come il peccato condizioni il vivere quotidiano. Quel mysterium iniquitatis getta l’uomo nell’inganno e nella malizia, ben al di là della sua consapevolezza. Nelle esigenze profonde dello spirito umano è penetrato un disordine che devia dal fine ultimo senza poterne togliere l’imperiosa e sostanziale necessità. Si sa che ai nostri tempi, là dove l’esistenza dell’uomo si fa dramma, ci si trova in una grande confusione di identità: una cultura della crisi favorisce la confusione dei fini, dove l’ingenua comodità può scegliere ciò che immediatamente soddisfa, trascinando la vittima a progressiva decadenza. Giustamente si è parlato del venir meno del senso del peccato. È possibile però che un cristiano intenda questa affermazione a livello dei peccati personali, oggi spesso negati da gente che vive accanto a noi. È facile, infatti, sentir dire che è bene ciò che è oggettivamente male. Eppure, il senso del peccato deve andare più a fondo, più in là di una retta coscienza che giudica sui peccati personali. L’uomo si inganna. Dove c’è sofferenza – se non è per un amore vero verso gli altri – c’è inganno. Capire la fonte dell’inganno è un vero svegliarsi alla vita come Dio l’ha pensata per noi uomini.
I santi si sono sempre chiamati, con schietta sincerità, peccatori, pur in assenza di peccati personali consistenti. Per loro, proprio la consapevolezza del peccato spinge ad aprirsi costantemente al dono della misericordia divina. Il peccato condiziona potentemente anche la nostra consapevolezza della vita cristiana, riducendola spesso a un surrogato idolatrico, non molto dissimile dagl’innumerevoli falsi appoggi idolatrici cui si aggrappa l’umanità immersa in quel misterioso peccato. Non si tratta di vedere il male ovunque e neppur pretendere di poter togliere questo condizionamento, come non è il caso di togliere la zizzania dal campo seminato a grano; ma è importante saper distinguere la zizzania dal grano. L’inganno infatti viene soprattutto dall’utilizzare realtà valide per scopi sottilmente e inconsapevolmente egoistici¹.
Lo Spirito svela un senso nuovo della giustizia, legata al «perché vado al Padre e non mi vedrete più», che, per chi scrive, si riferisce all’Ascensione e la connota nel senso della massima umiliazione davanti agli uomini. In essa si vede la conferma definitiva della condanna inflitta dal Sinedrio in nome di Dio e da Dio apparentemente confermata con la maledizione della croce. Gesù risorto non si presenta nel Tempio e non cancella la «maledizione della croce». Gesù attraversa fino in fondo la grande paura che condiziona il cuore umano, la «morte» che è frutto del peccato originale: la paura di perdere il significato della nostra vita davanti agli altri, perché negli altri cerchiamo quell’amore che solo Dio può darci. Nel consumarsi della massima ingiustizia nei riguardi di Gesù Cristo ci viene donata la nuova giustizia, dove Dio si obbliga a dare all’uomo non quello che è dell’uomo, ma quello che è di Dio.
Infine constateremo che nasce un nuovo giudizio, che ci giudica degni della vita divina, purché si vinca in noi, con il dono di grazia, il giudizio del demonio, il giudizio che ci condanna, facendo dipendere la sensazione di essere amati dal frutto delle nostre opere. Questa vittoria sul giudizio del demonio la si può vedere solo nel fatto che noi togliamo (cosa assai rara) il giudizio di condanna sugli altri. L’unica «prova», l’unico vero segno, di essere convertiti per opera dello Spirito Santo si ha nella carità fraterna; siamo sicuri di essere entrati nella misericordia del Padre, come veri figli, solo nella misura in cui gli altri notano in noi comprensione e misericordia. Altrimenti operiamo con il demonio che «giudica i fratelli». Ma ancor di più: Dio affida alla «visibilità» umana della carità l’efficacia della Redenzione nel cuore degli uomini. L’amore invisibile del Padre, che si è rivelato in Cristo, ora è affidato allo Spirito e alla Chiesa, purché questa mostri agli uomini il volto dell’amore di Cristo attraverso il comandamento nuovo che lui ci ha lasciato.
San Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Dominum et vivificantem, dedica una delle tre parti del testo a spiegare l’azione dello Spirito, che ci convince di peccato. Abbiamo voluto far eco a quelle parole, inoltrandoci nell’intera complessità della promessa di Cristo, con la luce che lo Spirito getta sull’intreccio di peccato, giustizia e giudizio. Si spera che alla fine il lettore, che prima può aver provato scoraggiamento o stizza, si senta illuminato e sollevato dalla luce della Redenzione colta a un livello più profondo perché affrontata con cuore più sincero. Ciò non si ottiene con facili considerazioni. Questo libro potrebbe essere ciò che Kafka un giorno auspicava, secondo il commento di G. Ravasi: «Bisogna a volte avere dei libri che siano come piccozze, che martellino nel nostro cervello, picchiando in profondità, facendoci interrogare su noi stessi al di là di tutti i luoghi comuni, di tutte le sovrastrutture, costringendoci a guardare anche il nostro vuoto. Talvolta noi siamo sereni semplicemente perché non ci esaminiamo la coscienza; se lo facessimo, troveremmo un nido di vipere o il vuoto, cenere, anziché terra feconda»².
Oggettività del dono di grazia e soggettività di un’accoglienza condizionata mortalmente dalle conseguenze del peccato antico. «Se non comprendete questa parabola, come potete capire tutte le altre?» (Mc 4, 13); Gesù assegna un primato alla parabola del seminatore e si attarda a spiegarla. Tornerà spesso sull’esempio del seme e dell’albero, ma rifacendosi sempre al dinamismo del seme e del solco di quella parabola. Si tratta del rapporto fondamentale fra il dono e l’accoglienza, fra la parola divina e l’ascolto umano, fra l’agire divino e la nostra collaborazione, fra la grazia e la presa di coscienza dell’uomo, fra l’amore di Dio e il nostro amore. Dalle parole citate, si indovina una grande preoccupazione di Gesù; ne va di mezzo tutta l’efficacia del suo vangelo. Il dinamismo «seme-solco» è impressionante: se un chicco di grano non viene accolto da un solco, sfama un passerotto per pochi minuti e scompare poi per sempre. Se, al contrario, trova accoglienza, giunge a sfamare tutta l’umanità nel tempo stupefacente di otto anni. Dio, nella sua onnipotenza salvifica, si fa parola incarnata, come un seme, disposto a scomparire se l’uomo non lo vuole ricevere. L’onnipotenza diventa estrema debolezza, da Betlemme al Calvario; e l’uomo distratto o ingannato può continuare a presumere o a disperarsi. Ma se trova accoglienza, la sua forza salvifica non conosce ostacoli. I santi han sempre dimostrato la fecondità sconvolgente dell’amore divino. La nostra soggettività è attraversata da un disagio talmente profondo che condiziona l’immensità del dono divino.
Il mistero dell’uomo ha profondità divine, ma si annebbia ben presto, limitando la conoscenza umana. Sant’Agostino, con profonda acutezza, poteva dire: Factus sum mihimetipsi quaestio, «sono diventato io stesso un problema per me» (Soliloquia, II, 34). La psicanalisi ha cercato di carpire il segreto del cuore umano, ma bisogna dire che, nonostante il proliferare di teorie e di scuole psicanalitiche, siamo ancora di più «problema a noi stessi». Soltanto la Bibbia può aiutare a penetrare meglio l’abisso del cuore umano.
Questo libro è maturato con il tempo; dal contatto con innumerevoli persone, con i loro problemi reali, personali, familiari e sociali, cui spesso la pastorale comune nella Chiesa non dava risposta³, sono nate le domande cruciali che interpellano la rivelazione divina. Un particolare riverbero della luce divina mi è sembrato di coglierlo nel testo citato di Giovanni, con il legame tra «peccato», «giustizia» e «giudizio», ma soprattutto con lo svelarsi dell’arcano così presente nella spiegazione che ne dà Gesù. Inoltre la provvidenza divina mi ha dispensato il dono di una lunga frequentazione di san Josemaría Escrivá dalla quale ho tratto un confronto più immediato con l’azione liberante dell’amore nel cuore dei santi. Tante altre sono state le fonti di questo libro. Tanti bagliori di grazia colti in persone di tutti i tipi, tanti spunti tratti da innumerevoli libri, che purtroppo non mi è possibile citare se non in minima parte. Teologi e letterati, filosofi, psicologi e sociologi in tanti modi girano intorno al problema principale. Tra tutti spicca sant’Agostino, il teologo più attuale per quanto concerne l’abissalità dell’amore; questo spiega che sia spesso citato. Ugualmente mi ispiro a san Giovanni Paolo II, non solo per il desiderio di rimanere ancorato al Magistero della Chiesa, ma anche per la passione e profondità con cui affronta il problema dell’uomo e della sua salvezza.
Non può essere, questo, un libro di teologia sistematica, che non è tuttavia ignorata. Semmai si colloca nell’alveo della teologia spirituale. Anche nei confronti dell’esegesi scientifica mi sono permesso piccole libertà, convinto che il senso di ogni parola rivelata può ricevere luci dall’insieme. Se l’approfondimento, qui operato, del dramma umano e della salvezza soprannaturale è veritiero, esso giustifica ipotesi diverse di lettura. È facile capire che non era possibile riportare sempre le diverse interpretazioni, per non appesantire il già difficile compito del lettore⁴.
Si tratta pertanto di un libro che vuole illuminare il cuore dell’esperienza cristiana e far desiderare la conversione. Può semplificare la vita cristiana in tanti suoi aspetti. Può consolare gli afflitti, ben al di là dei poveri sforzi degli psicologi. Può mettere in crisi chi si è assestato su false sicurezze, anche apostoliche. Può aprire gli occhi a chi è afflitto dalla grande malattia della mediocrità spirituale. Può aiutare a capire che tutti e sempre hanno bisogno di Dio, e aiutare gli agnostici, perché giunge a Dio attraverso la fenomenologia del comportamento umano. Può illuminare sul condizionamento più coriaceo di ogni dialogo ecumenico. Può contribuire non poco ad alleviare le crisi familiari, illuminandone le radici nascoste, e molti conflitti sociali, specie nell’àmbito del lavoro. Può anche, perlomeno ce lo auguriamo, contribuire ad aprire un sentiero di speranza per l’uomo del nostro tempo, sempre più irretito da problemi la cui radice gli sfugge, provocando tentativi di soluzione che spesso lo condannano ulteriormente. In altre parole può contribuire a liberare l’amore dalle sue catene nascoste.
L’umanità si trova di fronte a grandi sfide. Forse il pericolo maggiore viene da una specie di annebbiamento, dovuto in parte all’inflazione di notizie, di iniziative, di proposte, che aumentano la confusione di Babele, così cara al demonio; al confronto la sfida del comunismo fu molto più schietta e individuabile. Dietro le nostre incertezze aleggiano molte potenze del male. Solo una Chiesa rinnovata e purificata, più consapevole delle numerose e coriacee idolatrie che albergano nel seno di tanti suoi figli, potrà mostrare con maggiore efficacia il volto di Gesù, il Salvatore. Il dramma del mondo attuale è talmente grave da osare credere che il Signore vuol darci più luce e più grazia per farvi fronte a modo suo, trasformando il male in bene: «Un abisso chiama l’abisso» (Sal 42): se l’abisso è grande c’è più spazio per il dono salvifico, per la speranza.
Il tema è di quelli dove l’argomentare non basta; il lettore deve metterci del suo. Si tratta di «verità calde» che un cuore freddo non può capire: Per ardorem caritatis datur cognitio veritatis, «è con il fuoco dell’amore che si ottiene la conoscenza della verità» (san Tommaso). Ma basta il desiderio, perché il dono lo attendiamo da Lui: «Guardate a lui e sarete raggianti» (Sal 34, 16).
* * *
Questo lavoro è impostato teologicamente, ma si rivolge a tutti, anche al pensiero che non possiede la luce della fede cristiana, e anche a coloro che pensano che non esista una dimensione religiosa dell’uomo. Certamente per tutti costoro le pagine iniziali sul peccato e alcuni capitoli più squisitamente teologici risulteranno ostici, se non addirittura insignificanti. Ma i primi quattro capitoli, dopo i primi titoli, vogliono essere di stimolo culturale per tutti, toccando il tema di fondo del cuore umano e di tutti i problemi sociali. Scoprire che dietro l’ateismo il problema religioso riappare nell’idolatria e che comunque tutti siamo spinti da una molla più potente dell’attaccamento alla vita, può creare resistenze e provocare un facile e comodo rigetto; in realtà il problema esiste anche per i cristiani (si veda il capitolo quarto), e questo può favorire la lettura di chi non si ritiene cristiano, per affrontare un problema che ci accomuna. È il problema dell’inautenticità che di fatto inganna tutti, compresi i maestri del sospetto.
Qualunque psicologo può dirci che l’uomo è in conflitto con sé stesso; che esiste una profonda distorsione esistenziale, che cova sotto l’apparente tranquillità quando il successo è sufficiente a sostenere la propria immagine davanti agli altri. Se si scopre un abissale problema di amore che accomuna tutti gli uomini, si potranno avvicinare gli sforzi dei filosofi impegnati a scoprire il fine ultimo, con quelli degli psicologi e dei sociologi, le cui ricerche di fatto si aggirano sempre intorno a questo problema. Queste grandi scienze dell’uomo di fatto si sono ignorate o anche osteggiate. Eppure girano intorno allo stesso oggetto: l’uomo in quanto sostanziato dall’amore. Capire questo renderà più facile il grande compito della cultura per orientare il nostro futuro verso più serene forme di convivenza. A nessuno è possibile chiudere gli occhi sull’inautenticità e sugli inganni che riempiono il mondo di tanti mali e sofferenze. Il dolore del mondo è il luogo dove le menti che vogliono porsi a servizio dell’uomo possono ritrovarsi alleate, nel rispetto della diversa provenienza e nell’armonia delle diverse discipline.
Non ultima, c’è anche la speranza che, accettando il problema di fondo, accostabile anche con metodo fenomenologico alla portata di tutti, sarà più facile intravvedere la natura della salvezza cristiana, correggendo le infinite deformazioni che in tal senso sono rilevabili nella cultura attuale. Va da sé, però, che per accedere a tale salvezza occorre il desiderio sincero della fede.
Capitolo I
Convinti di peccato
«Nemo est qui non amet, sed quaeritur quid amet»
(Sant’Agostino, Sermo 34)
Il peccato al singolare
Tutti gli uomini in qualche modo sanno che occorre fare il bene ed evitare il male; ciò comporta, anche a livello implicito, una nozione di peccato. Siamo ben convinti che mentire, rubare, uccidere, sia peccato. Ogni uomo ha una coscienza che lo avverte dei peccati personali. La coscienza può deformarsi e rendersi insensibile a qualche peccato, ma rimane operante. Anche fra gli atei sussiste un’idea di bene e di male, per quanto deformata. Ma non è di questo che vogliamo parlare.
Nell’affermazione di Cristo: «(Lo Spirito) convincerà il mondo quanto al peccato», ci troviamo di fronte a un peccato – al singolare – che la coscienza non riesce a cogliere e tantomeno a convincersene: ci vuole lo Spirito Santo. In genere, – nella Scrittura – quando si parla di peccato al singolare, ci si riferisce al peccato in generale o al peccato antico, che da sant’Agostino in poi si è chiamato il peccato originale (cfr Rm 5, 12.20). Per chi scrive, il vangelo di san Giovanni, in questo passo, si ricollega proprio all’azione del peccato originale, naturalmente come male e inganno che è nell’uomo («peccato originale originato») piuttosto che come primo peccato («peccato originale originante»). Certamente l’esegesi immediata del testo non comporta il riferimento esplicito al peccato originale, bensì denuncia il peccato di incredulità nei riguardi di Cristo. E da tener presente, tuttavia, che per Giovanni il peccato di incredulità è il più grave, è alla radice di tutti gli altri peccati: o si è con Cristo o si è contro. Proprio nella crocefissione di Cristo, dove l’incredulità raggiunge il limite estremo, si rivela, assai meglio che nella Genesi, il portato ultimo del peccato originale. Conforta, in questo senso, il Catechismo della Chiesa Cattolica, il quale collega espressamente il nostro testo al peccato originale: «Col progresso della Rivelazione viene chiarita anche la realtà del peccato [...]. Bisogna conoscere Cristo come sorgente della grazia per conoscere Adamo come sorgente del peccato. È lo Spirito Paraclito, mandato da Cristo risorto, che è venuto a convincere il mondo quanto al peccato
(Gv 16, 8), rivelando colui che del peccato è il Redentore» (n. 388).
Si potrebbe pensare che del peccato originale ci si possa convincere anche senza l’azione dello Spirito Santo, perché come contenuto di rottura con Dio non è certo soprannaturale. Uomini molto saggi hanno potuto intuire questo dramma dell’uomo (la maggiore acutezza è di Budda, quando afferma che il dolore dell’uomo viene dal desiderio) e ciò significa che, pur con grande fatica, la ragione umana può penetrare qualche barlume di questo mistero. Ciò che rimane impossibile alla ragione umana è cogliere l’origine del disagio, col suo problema di amore radicale, e soprattutto il modo di uscirne, che è l’aprirsi al dono dell’amore soprannaturale; questa infatti è la salvezza apportata dalla «buona novella» o Vangelo. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice: «La verità del peccato e più particolarmente del peccato delle origini, si chiarisce soltanto alla luce della Rivelazione divina» (n. 387). E più avanti: «La dottrina del peccato originale è, per così dire, il rovescio
della Buona Novella che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini, che tutti hanno bisogno della salvezza e che la salvezza è offerta a tutti grazie a Cristo. La Chiesa, che ha il senso di Cristo, ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al Mistero di Cristo» (n. 389).
Il convincimento dello Spirito comprende anche la salvezza da quel peccato attraverso l’azione sconvolgente di un amore nuovo da vedersi – da credersi – in Cristo. Valga una citazione di Ratzinger: «Al termine del Sinodo dedicato al tema della famiglia, trovandoci a riflettere in un gruppo ristretto sui possibili temi del sinodo successivo, la nostra attenzione fu richiamata dalle parole con le quali Gesù, all’inizio del vangelo di Marco, riassume l’intero suo messaggio; Il tempo è compiuto e il regno di Dio è giunto: convertitevi e credete al vangelo
. Allora uno dei vescovi si fece pensieroso e disse a proposito di tali parole: Ho l’impressione che da tempo abbiamo addirittura dimezzato il messaggio di Gesù qui riassunto
. Parliamo tanto e facilmente di evangelizzazione e di lieta novella, per rendere il cristianesimo attraente agli uomini. Ma quasi nessuno, a giudizio di quel vescovo, ha ancora il coraggio di proclamare il messaggio profetico: convertitevi! Quasi nessuno osa più ripetere al nostro tempo questo invito elementare del vangelo, con cui il Signore intende dirci che ognuno deve riconoscersi personalmente peccatore e colpevole, fare penitenza e divenire un altro. E aggiunse: L’odierna predicazione cristiana mi sembra la registrazione di una sinfonia, cui è stata tagliata la parte iniziale col primo tema fondamentale, sicché tutta la sinfonia risulta amputata e il suo andamento incomprensibile
»¹.
Di tutto ciò, certamente, solo lo Spirito Santo può convincerci. Il termine «convincere» è da intendersi non solo in senso dialettico, bensì in senso effettivo, come quando si dice che si è convinti del bene quando lo si mette in pratica e si è convinti del male quando lo si evita. Molti credono di conoscere il Vangelo, ma non ne sono «convinti», perché non lo mettono in pratica. Il termine greco elenxei, futuro di elenco, viene dal linguaggio giuridico: convincere di una colpa il colpevole, in giudizio (portando un «elenco» di accuse). Qui però è da intendersi nel senso che lui viene a salvare e pertanto vorrebbe «confutare» tutti, e cioè convertirli alla verità che solo lo Spirito può illustrare. L’accusa al mondo, implicita nel verbo greco, non è per condannare, ma perché possa risaltare la verità e molti possano convertirsi. È questo il pensiero di san Giovanni Paolo II, nell’enciclica Dominum et vivificantem: «È infatti, un convincere
che ha come scopo non la sola accusa del mondo, tanto meno la sua condanna. Gesù Cristo non è venuto nel mondo per giudicarlo o condannarlo, ma per salvarlo» (n. 31). Opportunamente il termine è stato tradotto con «convincere»: solo lo Spirito Santo può farci penetrare nella conoscenza del dono soprannaturale e allo stesso tempo convincerci dell’abisso di peccato in cui siamo immersi.
Il peccato nel Nuovo Testamento
La parola greca hamartia usata da Giovanni e, spesso, nel Nuovo Testamento, si traduce con «peccato», nella varietà di usi che questo termine può avere. Tuttavia, l’etimologia richiama l’arciere che fallisce il bersaglio; se è vero che ogni peccato indica un uomo uscito di strada, è pur vero che la malizia ultima del peccato consiste proprio nel fallire la meta, il fine ultimo, la gloria di Dio; ciò permette di parlare di una malizia profonda del peccato che fa deviare il cuore dalle sue vere istanze². Per indicare le infrazioni della legge, i peccati personali, più frequentemente si usa il termine parábasis o paráptoma.
È stato Lutero a sottolineare la distinzione tra un peccato al singolare e quelli al plurale. Qui si entra nella sua problematica e sembra giusto usare questa terminologia, nella consapevolezza ch’essa è stata usata in polemica con la dottrina cattolica, ma che è presente nel testo sacro. Dietro ai peccati c’è il peccato. San Giovanni parla di Cristo che viene a «togliere il peccato del mondo» (Gv 1, 29), piuttosto che di remissione dei peccati.
Il Nuovo Testamento presenta affermazioni sorprendenti, la cui apparente contraddittorietà serve proprio a evidenziare la reale e concreta azione della concupiscenza nel cuore umano. Da una parte infatti ci sono numerose affermazioni sull’impeccabilità del cristiano, dall’altra parte proprio la realtà del peccato è ben presente anche tra i cristiani. C’è san Giovanni che dice: «Chiunque rimane in lui non pecca; chiunque pecca non lo ha visto né l’ha conosciuto. Figlioli, nessuno vi inganni. Chi pratica la giustizia è giusto come egli è giusto. Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché il diavolo è peccatore fin da principio. Ora il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo. Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio» (1 Gv 3, 9; cfr anche 1 Gv 5, 4). Quest’affermazione di impeccabilità da parte del cristiano è confermata anche da san Paolo: «Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato» (Rm 6, 6-7). Anche san Pietro assicura che, se si riesce a rafforzare la vocazione con la pratica delle virtù, si arriva a non inciampare mai (cfr 2 Pt 1, 10). Si potranno capire bene queste affermazioni particolarmente esplicite del Nuovo Testamento alla luce di quanto si dirà nel capitolo sesto, sul tema degli «ammaestrati da Dio».
Poi ci sono numerose affermazioni della peccabilità dei cristiani. Ma ciò che ci interessa rilevare è l’incontro, nel peccato descritto dal Nuovo Testamento, della responsabilità personale e di un inganno, più profondo, operato dal maligno. Il demonio è «omicida» (cfr Gv 8, 44): il peccato originale, prima ancora di causare la morte fisica, ha causato una morte dell’amore vero che è ben peggio della morte fisica. San Paolo parla del «peccato che abita in me» e che fa quello che io non voglio fare. Fino a esclamare: «Il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri» (Rm 7, 8). C’è come una personificazione della hamartia, già indicata dalla Genesi (4, 7): «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto». Non si tratta però di vedere il demonio che guida dispoticamente il nostro comportamento dall’esterno, quanto una complicità profonda che fa capo all’io, alla soggettività; solo in questo senso si può indicare il peccato come «qualcuno» che abita dentro di me.
Nella lettera ai Romani (cfr Rm 1, 22-26) san Paolo fa notare la perversione dei pagani abbandonati alle loro idolatrie; parla di epithymìa (perseguire cose cattive, un vero desiderio perverso, cfr 1 Cor 10, 16); commenta Spicq: «Sia che si tratti del demonio, autore di ogni male (cfr Ef 2, 2) o del peccato personificato che è il suo agente (cfr Rm 7, 8), l’esito della sua sovranità è stato quello di corrompere l’uomo vecchio e introdurre in lui una potenza cattiva e ingannevole: l’epithymìa, associata a volte alle passioni (cfr Rm 1, 24-26), però, mentre queste evocano una disposizione, uno stato più o meno passivo, la epithymìa è un desiderio intenso, eccessivo, disordinato e imperioso. In ogni caso l’epithymìa fa la guerra all’anima (cfr 1 Pt 2, 11), si oppone alla giustizia (2 Tm 2, 22), alla carità (1 Gv 2, 16-17) e alla volontà di Dio (1 Pt 4, 2); gareggia contro il pneuma e il pneuma contro di essa: sono princìpi opposti l’uno all’altro (Gal 5, 17). Finalmente, la concupiscenza, associata all’empietà, all’incredulità e all’idolatria (Col 3, 5; Ef 5, 5), non solo introduce nel mondo ogni genere di peccato bensì fa affogare ogni uomo in rovina e perdizione
(1 Tm 6, 9)»³. Sono noti i testi in cui san Paolo parla del peccato originale (cfr Rm 5, 12ss.; 6, 1s; 1 Cor 15, 21-22; ecc.), ma per non lasciarli nell’astratto occorre legarli ai più numerosi testi in cui parla della «carne» o del «corpo di morte», o della morte che abita in lui, alcuni dei quali sono stati citati nel testo. Si spiega così un elemento fondamentale della vita morale: ogni individuo è contaminato, porta dentro di sé un germe virulento, che spiega la propensione al male.
Con la distinzione tra peccato al singolare e trasgressioni personali, non si intende relativizzare la gravità dei peccati personali, ma si vuole risalire alla loro origine, a quel «corpo di morte» (cfr Rm 6, 6; 7, 24) che è dentro di noi. Staccando i peccati personali dalla loro origine si finisce per colpevolizzare senza potersi salvare, mentre la scoperta della radice del male e l’aprirsi alla redenzione gratuita, che non dipende dalle nostre opere, ci pone in grado di migliorare notevolmente nel nostro operato.
Se si lascia nel generico la presenza degli effetti del peccato originale, si finisce per vedere il peccato personale come trasgressione di una legge e la morale diventa precettistica, perdendo il dinamismo delle virtù articolate con l’amore che dà la felicità. Ma il peccato va al di là di una mancanza morale: è sempre una ribellione a Dio, un fatto religioso, è rottura di una relazione personale con Dio, secondo l’ispirata affermazione: «Contro di te, contro te solo ho peccato» (Sal 51, 6).
In sintesi si può dire che iI tema del peccato nel Nuovo Testamento è un tema unico, con due grandi componenti che s’intrecciano: una colpa innata (cfr Rm 5, 14) e il peccato personale. Il rischio è di dare per scontata la prima e finire per concentrare l’attenzione solo sulla seconda, perché nel Nuovo Testamento non viene mai meno il riferimento al disagio mortale che ci portiamo dentro, come prima causa dei nostri peccati. San Paolo è il grande maestro di questa chiusura del cuore umano, ma è tutto il Nuovo Testamento a rivelarlo: Gesù dice: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7, 21), indicando una radice profonda dei nostri peccati. Giacomo è ancora più esplicito sul legame tra la concupiscenza e i peccati personali: «Nessuno, quando è tentato, dica sono tentato da Dio
; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno è piuttosto tentato dalla propria concupiscenza, che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato, produce la morte» (Gc 1, 13-15). Il problema principale per la vita felice dell’uomo consiste proprio nell’illuminare il profondo del cuore.
Il peccato originale &, la concupiscenza
Il tema del peccato originale è molto complesso. Occorre distinguere tra peccato originale originante e peccato originale originato. Per il primo si pongono grandi problemi di esegesi per quanto riguarda i primi capitoli della Genesi e anche per come san Paolo parla della prima colpa, ma a noi non tocca entrare in questo tema⁴. Essendo difficile poter dire qualcosa di probante su di un primo peccato e sul modo di trasmissione, diventa molto importante lo studio del peccato originale originato, come male realmente presente nel cuore dell’uomo, come rottura insanabile nei rapporti di comunione, nei rapporti con Dio, con il mondo, con sé stesso e con gli altri. Soprattutto è importante studiare il peccato originale in un confronto diretto con Cristo e la Redenzione, per capire cosa significa l’incontro dell’uomo con la misericordia divina. Nel passato lo studio del peccato originale era rimandato a una premessa astratta, che non entrava nella teologia morale. Anche la teologia della redenzione ha patito molto per questa astrattezza, lasciando a Cristo il compito di cancellarci quella colpa originaria, con un prezzo da pagare con la morte dolorosa in croce, quasi all’esterno della nostra vita. Oggi è migliorata di molto la teologia della salvezza, ma si tarda a illuminare la natura del male che si trasmette ereditariamente nell’umanità. Per descrivere i contenuti del peccato originale originato si parla di incapacità al dialogo con Dio e con il prossimo⁵, o di storicità dissociata⁶. Per Weger è rifiuto della grazia ereditaria⁷. Per Martelet si tratta dell’appartenenza alla storia peccatrice del mondo⁸. Gonzáles-Faus vede un egoismo potenziato⁹. Non è facile, con queste disanime, colpire la coscienza degli uomini per spingerli verso la vera salvezza, anche se si tratta di considerazioni valide.
Distinta dal peccato originale, ma di essa diretta conseguenza, è la concupiscenza (detta anche fomes peccati). Di per sé non è peccato, bensì inclinazione a esso. Il termine – direttamente o in svariati sinonimi – viene dalla Sacra Scrittura. San Giovanni, nella sua prima lettera, ci parla di una triplice concupiscenza: «Non amate il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno» (1 Gv 2, 1517). Si può dire che la dottrina delle tre concupiscenze sia presente nella Genesi, quando si dice che Eva «vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gn 3, 6), che corrisponde alle tre concupiscenze di san Giovanni. Ma anche le tentazioni nel deserto corrispondono alle tre concupiscenze, mentre mettono in luce che il demonio cerca di ingannare con cose buone, sommamente attraenti. San Paolo usa un’altra terminologia e riassume le tre concupiscenze nella parola «carne», ma il problema è lo stesso e la sua esperienza è particolarmente significativa, come si avrà modo di vedere. Di fatto san Paolo si riferisce moltissime volte alla concupiscenza, e la nomina anche espressamente (cfr Rm 7, 7-8), ma in genere usa altre espressioni. Si può vedere Rm 1, 24; 7, 23; 7, 14; 13, 14; Gal 5, 13; 5, 17; Col 3, 5; ecc. Alcuni di questi testi saranno ripresi, tenendo presente però che, accanto all’approfondimento biblico, interessa un approccio fenomenologico, per non leggerli con schemi interpretativi astratti, come succede facilmente su questo tema. Anche gli altri autori del Nuovo Testamento parlano della concupiscenza, con vari termini; cfr Gc 1, 14-15; 1 Pt 2, 11; 4, 11; 2 Pt 2, 1; 1 Gv 2, 16-17; ecc.
È molto importante distinguere bene tra peccato originale e concupiscenza: molte difficoltà a capire la presenza di una inclinazione profonda all’egoismo insieme con la libertà dell’uomo di fronte al bene e al male, deriva proprio, come è successo a Lutero, dal confondere peccato e concupiscenza. Anche la possibilità di uscire dal dilemma tra i due termini di per sé contraddittori di responsabilità e di inclinazione al male, è legata alla distinzione tra peccato e concupiscenza. Il battesimo, che ci toglie dallo «stato di peccato» e cancella la colpa, non toglie la concupiscenza. Sicché restano, e sono da meglio comprendere, l’immenso disagio e l’inganno da essa causato al nostro cuore e a tutti i nostri rapporti interpersonali. Nell’uomo vi è infatti una radicale esigenza di amore, resa però problematica dalla concupiscenza, che tale esigenza porta a soddisfare in modo «deviato», se non addirittura antitetico rispetto alla vera fonte divina. Da qui scaturisce un immenso disagio, anche nei battezzati. Chi poi non è credente, e non accetta la realtà del peccato originale, può sperimentare, come si notava nell’introduzione, quanto gli uomini siano colmi d’inautenticità¹⁰, e aprirsi a una spiegazione adeguata. Gli abbondanti spunti fenomenologici dei primi quattro capitoli possono favorire un confronto con tutti.
Se è vero che Lutero non ha saputo distinguere sufficientemente tra concupiscenza e peccato originale, con conseguenze pessimistiche, neppure si può ridurre la concupiscenza a un generico egoismo che può spingere a fare peccati; dice J. Auer: «Ciò che Agostino chiama concupiscenza compare in Rm 6, 12-14 come peccato
[...] come elemento interno al peccato stesso. Il Concilio di Trento afferma perciò che la concupiscenza viene chiamata peccatum "quia ex peccato (Adae) est et ad peccatimi (actuale) inclinat" (Denz.-Schön. 1515)». Poco sopra aveva detto: «Nel momento della concupiscentia, accanto a non pertinenti conseguenze del peccato originale
viene inteso almeno quel più profondo disordine
che caratterizza l’uomo con il peccato originale, nel suo rapporto con sé stesso, con il mondo, e soprattutto con il mondo degli uomini»¹¹.
Lasciando alle pagine seguenti il compito di delineare meglio i contenuti della concupiscenza, è bene precisare la distinzione di san Giovanni fra la concupiscenza della vista (cupidigia delle cose), quella della carne (comodità di fondo, ricerca egoista del piacere, soprattutto nella sensualità non integrata – ben diversa dalla sessualità) e la superbia della vita. La superbia vitae è la concupiscenza di fondo; essa infatti predomina e sta alla base di ciò che si dirà sull’idolatria nascosta nel cuore umano¹². In altri termini, la comprensione della superbia della vita mette in luce che l’uomo non può fare a meno di un consenso radicale da parte di altri.
Realtà quotidiana del peccato originale
Il problema della concupiscenza è un problema di amore. Come si cercherà di mostrare, la concupiscenza è talmente radicale da muovere tutte le intenzioni non redente in Cristo, incatenando l’uomo a un’idolatria più o meno consapevole. Non si può lasciare nell’astratto il peccato originale e cercare di descrivere l’esistenza cristiana soltanto con i peccati personali. Nell’immaginario collettivo le conseguenze del peccato originale si riducono alla morte fisica, al dolore fisico del parto e al sudore, sempre e soltanto fisico, del lavoro. Come per il racconto della Genesi, le ripetute affermazioni del Nuovo Testamento sono facilmente lette secondo un paradigma morale che mantiene in qualche modo la presa sui peccati personali, ma lascia nell’ombra (per non dire in piena oscurità) la presenza sempre operante e determinante della concupiscenza, che colpisce l’amore e può trovare salvezza solo nel disegno della misericordia divina. Il mistero del male affonda le sue radici nel peccato, ma poco si avanza cercando semplicemente di capire che cosa possa essere avvenuto all’inizio, se non si legge quell’inizio nell’àmbito di tutto il disegno divino, nella realtà da noi vissuta. Non basta commentare le parole del serpente della Genesi per far notare la profonda tentazione dell’uomo di essere Dio (tutti i catechismi lo fanno); occorre svelare anche la vera natura dell’orgoglio umano, che cela un illimitato problema di amore: si vuole diventare dio per qualcun altro. Il peccato è la vera schiavitù, che fa dipendere le attese più profonde dagli altri e non da Dio. È l’antitesi della vera libertà; e la schiavitù porta alla paura (cfr Rm 8, 5). Si è sempre esposti alla paura, che può raggiungere livelli abissali, di perdere la stima degli altri. Con acutezza Duquoc mette in luce l’elemento più specifico e originale dell’uomo Gesù, individuandolo nella libertà e nella mancanza di ogni paura e ansietà, ben più che nella sapienza, bontà o potenza. La sua libertà umana è stata messa alla prova, fino all’angoscia del Getsemani, ma proprio lì la sua preghiera lo ha liberato, ben al di là dell’«illuminazione» buddistica, che tende a rendere indifferenti a tutto.
Il peccato impedisce la carità, e questa è la vera schiavitù dell’uomo. Si tratta di vedere come ciò condizioni realmente tutto il nostro vivere quotidiano, i nostri pensieri, le nostre scelte e ogni «filosofia della vita» con cui gli uomini credono di conoscere il bene e il male. Si può già intuire l’acuta osservazione di Baudelaire: «La vera civiltà non sta nel gas o nel vapore, ma nel lavoro di ogni giorno per diminuire le conseguenze del peccato originale». Nel battesimo siamo già salvati, ma il peccato continua a operare attraverso la concupiscenza. Sulla terra ci sarà sempre un chiaro-scuro, come fa notare Spicq: «Grazie all’azione dello Spirito Santo, che fa vivere (1 Cor 3, 6), i cristiani sono liberati dal peccato e dalla morte
(Rm 8, 2); però, in virtù del focolaio di concupiscenza che rimane nella loro carne, ognuno di loro è un ferito, un ammalato o, meglio, un convalescente che ha bisogno di sfruttare le nuove forze di cui dispone per consumare la sua liberazione dalla hamartia. Tutta l’economia della vita morale consiste in una spiritualizzazione progressiva, in una vita sempre più pneumatica
, che si libera dagli imperativi della epithymìa per essere sempre più docile allo Spirito Santo»¹³.
«L’uomo non può vivere senza amore»
Si cercherà di mostrare¹⁴ come l’uomo non possa fare a meno di soddisfare continuamente un bisogno assoluto di amore¹⁵. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica ci viene ricordato che «Dio è amore e vive in sé stesso un mistero di comunione e di amore. Creandola a sua immagine... Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione» (n. 2331). Si comprende così perché quando Cristo rivela il mistero del Padre e del suo Amore, al contempo svela all’uomo la sua vocazione all’amore (cfr n. 1701). E se la piena realizzazione dell’amore avviene nell’unione cosciente dell’amato con l’amante, si capisce anche perché il fine ultimo della vita umana sia l’amore, inteso come massima unione con Dio. Ma quest’ultima coincide con la «beatitudine cristiana», che è poi la somma felicità: «Le beatitudini rispondono all’innato desiderio di felicità. Questo desiderio è di origine divina: Dio l’ha messo nel cuore dell’uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare» (n. 1718). Ciò è talmente radicato nell’uomo che tutta la struttura psichica della persona umana testimonia questo onnicomprensivo, profondo e ontologico orientamento all’amore. Un amore che potremmo dire «inclusivo», nel senso che deve e può essere rivolto alle altre creature e a Dio, così come può essere naturale e soprannaturale. Dunque l’amore è il «motore» fondamentale di ogni azione umana: «La passione fondamentale è l’amore» (n. 1765).
Il radicale orientamento all’amore implica che l’uomo, sebbene abbia voltato le spalle a Dio, conserva il suo spirito costitutivamente teso a ritrovarsi tutto nello sguardo frontale di Dio, l’unico che può riempire di significato eterno la sua vita. In altri termini, il peccato originale, che qui non interessa scrutare nella sua genesi ma nei suoi effetti, non elimina la necessità di stare al centro di un rapporto significativo¹⁶, che non può essere se non di amore assoluto, incondizionato. L’uomo è creato a immagine e somiglianza divina. Lo si può dire con parole di C. Cardona: «Dio agisce per amore, pone l’amore, e vuole solo amore, corrispondenza, reciprocità, amicizia (bisognerebbe pertanto rivedere la tesi tradizionale del fine della creazione, precisare meglio il tema della gloria di Dio
). E di questo amore di amicizia solo la libertà è capace. Così al Deus caritas est dell’Evangelista san Giovanni, bisogna aggiungere: l’uomo, compiutamente e perfettamente uomo, è amore. E se non è amore non è uomo, è uomo frustrato, autoridotto a cosa. Ma solamente c’è amore se si vuole, se si vuole liberamente»¹⁷. Dio è amore; l’uomo, in quanto immagine di Dio, è amore. L’immagine non si definisce in sé, ma solo in rapporto col modello, che, nel nostro caso, è infinito, assoluto, e crea necessariamente,
