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Patteggiare significa non dover mai dire "mi dispiace"
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Ebook53 pages46 minutes

Patteggiare significa non dover mai dire "mi dispiace"

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Il patteggiamento si chiama, propriamente "applicazione della pena su richiesta delle parti", è disciplinato dagli articoli 444 e 445 del Codice di Procedura Penale e questo è tutto. Non c'è altro. Se non l'aspetto mostruoso ulteriore e successivo che ciò che viene normato venga visto per ciò che, in realtà, non è e che pongo a fondamento delle ragioni della stesura di queste note senza pretese.

 

Valerio Di Stefano (1964) è scrittore, filologo, linguista, curatore di classici della letteratura italiana (si è occupato della poesia due-trecentesca di Compiuta Donzella, Folgóre da San Gimignano e Cenne de la Chitarra, nonché dell'ottocento italiano con volumi su Verga, Manzoni e Leopardi). Occasionalmente si diverte a fare il traduttore. Insomma, non sta mai fermo. Studente tardivo e appassionato di Giurisprudenza, questo volume è il suo primo esperimento in questo senso. Tra la sua produzione saggistica figurano Nato ai bordi di Wikipedia, La buona scuola, Il linguaggio della scuola, Il caso di Giovanna Boda, Il volto di Don Chisciotte, Droga!, Interferenze, De Profundis clamavi e Del primato dei libri di carta sugli ebook (tradotto in cinese, spagnolo e portoghese). Come narratore è autore di La voce nel deserto (di imminente pubblicazione la traduzione inglese), Malinverno, Debito formativo, Caldo! e del fortunato (a suo mal grado) racconto lungo Nunc et in hora mortis nostrae , tutti pubblicati dall'editore Boré. Nella vita è padre di Adele Marie, e questo lo rende immensamente felice.

LanguageEnglish
Release dateOct 31, 2023
ISBN9798223951094
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    Patteggiare significa non dover mai dire "mi dispiace" - Valerio Di Stefano

    NON DOVER MAI DIRE

    « MI DISPIACE »

    Il patteggiamento non si chiama così. E questo è il primo dato linguistico e reale della mostruosità, dell'anomalia, dell'essenza stessa di questo rito alternativo della giustizia penale italiana.

    Non ci sarebbe nulla di mostruoso in sé. Il linguaggio giuridico viene assorbito dalla comunità dei parlanti e rielaborato in forma semplificata continuamente (come accade frequentemente in qualsiasi aspetto linguistico) ma del tutto avulsa dal dato reale. Lo si fa in continuazione. Ad esempio in quello che viene normalmente chiamato "femminicidio" e che in realtà è un omicidio vero e proprio, a tutti gli effetti, le cui circostanze aggravanti o attenuanti generiche e specifiche dovrebbero essere valutate e, se del caso, applicate dal giudice e solo da lui. Quindi non dall'opinione pubblica.

    Il patteggiamento si chiama, propriamente "applicazione della pena su richiesta delle parti", è disciplinato dagli articoli 444 e 445 del Codice di Procedura Penale e questo è tutto. Non c'è altro. Se non l'aspetto mostruoso ulteriore e successivo che ciò che viene normato venga visto per ciò che, in realtà, non è e che pongo a fondamento delle ragioni della stesura di queste note senza pretese.

    Per il comune sentire, per il cosiddetto "buon senso" (o, peggio ancora, buonsensismo), per il pensiero raziocinante, il patteggiamento è una sentenza di condanna, un'ammissione di colpevolezza, un chinare la testa davanti alla giustizia, un dichiararsi comunque responsabile in ordine a un fatto che costituisce ipotesi (e, per fortuna, solo ipotesi) di reato e davanti al quale l'indagato non può che cospargersi il capo di cenere al solo scopo di evitare una pena ben più severa che potrebbe derivargli, sempre in ipotesi, dall'affrontare un procedimento ordinario fino all'ultimo grado di giudizio o, comunque, a sentenza definitiva passata in giudicato, se nessuna delle parti in causa decidesse di agire per un procedimento di grado superiore. Non c'è da meravigliarsi. Tutto può fare giurisprudenza. Una condanna o una assoluzione in primo grado, per esempio, se nessuno si appella.

    Allo scopo di dipanare correttamente la matassa di quanto preannunciato, ingarbugliata come niente al mondo, occore, come si diceva, riportare, in primo luogo, il testo dei due articoli del Codice di Procedura Penale che introducono, con la riforma della Giustizia del 1989 (l'ultima data in ordine di tempo in cui sia stata concessa un'amnistia), il dispositovo riguardante l'applicazione della pena su richiesta delle parti:

    Art, 444 c.p.p.:

    "1. L'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una pena sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria. L’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis, e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato.

    1-bis. Sono esclusi dall'applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600 bis, 600 ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600 quater, secondo comma, 600 quater 1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600 quinquies, nonché 609 bis, 609 ter, 609 quater e 609 octies del codice penale, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell'articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria.

    1-ter. Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater e 322 bis del codice penale, l'ammissibilità della richiesta di cui al comma 1 è

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