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Le donne nella storia. Donne geniali, donne vittime, donne ribelli che hanno caratterizzato la vita del mondo: Ipazia di Alessandria, Olympe de Gouges, Giovanna d’Arco, Beatrice Cenci, Isabella Morra, Artemisia Gentileschi, Francesca La Gamba, Oriana Fallaci, Angelica Balabanoff, Margherita Sarfatti, Anna Kuliscioff, Ada Negri, Oriana Fallaci, Franca Rame, Isabella Aleramo. E, poi, donne assassinate da uomini brutali: Roberta Lanzino, Maria Rosaria Sessa, Fabiana Luzzi. Madri uccise dai figli: Patrizia Schettini e Patrizia Crivellaro. Infine donne capaci di ribellarsi alla ’ndrangheta come Giuseppa Mercuri e Maria Concetta Cacciola. Eppoi le sconosciute, le donne straniere rese schiave, costrette a prostituirsi per le strade della Calabria. Questo libro è un lungo viaggio nell’universo femminile compiuto tra la letteratura e la cronaca per aiutare a comprendere le devianze criminali e sub-culturali che hanno determinato i femminicidi nel corso dei secoli. Un viaggio appassionante e istruttivo accompagnato da testi teatrali e letterari che consentono di riscoprire come, accanto al mostruoso che si cela dietro ogni delitto, esista anche il bello capace di riscattare il lato oscuro dell’umanità. Un bello che ha un’accezione largamente femminile.
LanguageÍslenska
Release dateFeb 10, 2016
ISBN9788868223854
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    #iodamorenonmuoio - Arcangelo Badolati

    Gandhi

    Prefazione

    di Cinzia Falcone*

    Forse è proprio questo il punto: le differenze tra uomini e donne nella società occidentale all’alba del terzo millennio.

    Letteratura, filosofia, sociologia, fiumi di inchiostro, per rappresentare quei ruoli – e spiegarne i rapporti – che il vincolo fra i generi pone fin dal primordio.

    Le incertezze del nostro tempo, mentre da un lato enfatizzano il ruolo della donna nel mondo d’oggi, dall’altro ne circoscrivono il campo impedendole di fatto la piena realizzazione nell’ambito della vita sociale e politica.

    Provvedimenti a tutela della madre e della famiglia, invocati da ogni parte, nonostante la urgente necessità, stentano ad essere varati e non vedono luce omettendo di creare quelle condizioni indispensabili per consentire alla donna di oggi la sua piena affermazione.

    Come è possibile conciliare il primario e insostituibile compito di madre e di educatrice con quello della donna lavoratrice o in carriera se nulla a tutela e a salvaguardia di tale compito viene compiuto?

    In questa contraddizione si annida, soprattutto in larga parte del nostro Paese, il vero ostacolo alla realizzazione della donna.

    Non è un problema di pari opportunità, piuttosto è un problema di pari condizioni che non vengono garantite e che inevitabilmente sono destinate a produrre gli squilibri che affliggono i rapporti.

    Non ci sarebbe prevaricazione, non avremmo bisogno di quote rosa, non ci sarebbero più dubbi sulle reali possibilità di una donna se essa fosse messa nelle oggettive condizioni di coniugare correttamente il suo ruolo nella famiglia con quello nella società.

    Le donne non sono uguali all’uomo. Esse sono diverse e chiedono che questa diversità, che è complementarietà, sia esaltata, correttamente valutata e finalmente riconosciuta.

    E poi la violenza e l’intolleranza.

    Figlie dell’ignoranza e del disagio e dell’arretratezza culturale. A loro volta generati da condizioni esistenziali e di vita ai limiti della civiltà.

    Ricordandoci alcuni dei casi più clamorosi che hanno visto soccombere giovani donne e che hanno sconvolto le cronache recenti, l’Autore, da par suo, ripercorre le storie di vita di vittime e di carnefici offrendo alla riflessione e alla speculazione socio culturale e antropologica spaccati di vita del nostro tempo e della nostra terra.

    Attraverso la traccia tesa e incalzante della narrazione il fatto di cronaca rivive lasciando trapelare le vere colpe, le reali responsabilità, le omissioni, la superficialità, le trascuratezze e si propone come monito e ammaestramento perché non si ripeta.

    Misureremo la capacità della nostra civiltà a porre rimedio a tutto ciò nella misura in cui saremo pronti ed in grado di dare risposte certe e non equivoche, risposte degne della nostra storia e della nostra tradizione, alle istanze di armonia e di pace sociale che da troppo tempo si levano dalla nostra gente.

    * Presidente dell’Associazione Animed e ideatrice del Progetto Il sangue rosa. Un’altra vita è possibile.

    Le donne nella storia

    Ipazia e le altre...

    Donna senza diritti, donna oggetto, donna schiava, donna serva, donna abusata, donna ostaggio, donna vittima, donna muta: la condizione femminile nel corso dei secoli ha subito la subcultura maschilista nelle sue più oscure espressioni. Ha subito l’ostracismo delle religioni e dei governi, delle leggi e degli stati senza soluzione di continuità. Sempre e dovunque. E ciò in ragione di una assurda e ipotizzata minorità che collocherebbe le donne in perenne subalternità rispetto all’uomo. Sabaya è il termine con cui i tagliagole del Daesh chiamano le yazide che vivono nei villaggi sul monte Sinjar, nel nord dell’Iraq. Cinquemila di loro sono state rapite dai miliziani del califfo Al Baghdadi e donate ad emiri e combattenti perché potessero soddisfare ogni loro voglia sessuale. Essere offerte in regalo significa dover subire stupri continui con il rischio di rimanere incinte e di venire costrette ad abortire. Se, invece, le violenze provocano malattie la sorte è segnata: un colpo di pistola alla testa o un coltello alla gola chiudono per sempre la partita e l’esistenza. In quest’inferno sono precipitate anche bambine di 11 anni perché le vergini, tra questi barbari del Terzo millennio, appaiono come le più desiderate. Quando i padroni si stancano di consumare gli abusi rivendono le schiave ad altre bestie dando inizio ad una catena infinita che può concludersi solo con la fuga o con la morte delle vittime. Nel Califfato del Daesh, tra la Siria e l’Iraq, la schiavitù sessuale è esercitata attraverso mercati, listini, prezzi e contratti di acquisto che vengono normativizzati dalle cosiddette corti islamiche. La teologia dello stupro – come sottolineano le scrittrici Viviana Mazza e Marta Serafini – sostiene che le violenze sessuali sulle yazide sono non solo consentite ma virtuose. Sono ibadah, atti di devozione: così i miliziani si mantengono puri; infatti, se non avessero queste concubine incorrerebbero nella tentazione di avere rapporti amorosi non leciti, compiuti cioè prima del matrimonio. Una interpretazione duramente avversata dagli studiosi dell’Islam e che risale ai tempi in cui furono scritti la Bibbia e il Corano. Le yazide, e con loro pure le donne curde, vengono in effetti usate come esca e premio per reclutare i soldati che affollano le file dell’Isis (o Daesh). A queste sventurate creature potrebbe perfettamente sovrapporsi quanto Euripide, nelle Troiane, fa dire ad Andromaca, moglie di Ettore: «Per me non esiste più neppure quello che di solito resta alla gente: la speranza».

    Nel mondo segnato dal radicalismo islamico pure le musulmane osservanti scontano, tuttavia, il fatto di essere femmine, perché vengono utilizzate come strumento di propaganda. Ciò avviene quando vengono spinte a compiere azioni suicide: il loro atto di autodistruzione ha, infatti, un alto valore simbolico e genera fenomeni di emulazione. In Iraq la prima missione suicida venne, non a caso, condotta dalla sunnita Nour al Shammari, che dedicò il suo sacrificio a Saddam prima di lanciarsi contro una pattuglia di militari statunitensi. Registrò un video, mostrò il Corano e il fucile, seguendo una precisa liturgia poi ripresa da Al Quaeda. Saranno 23 le ragazze irachene che successivamente l’imiteranno immolandosi con una cintura esplosiva contro obiettivi americani. Boko Haram, in Nigeria, è stata capace di fare anche peggio, costringendo coppie di bambine figlie di Allah a farsi saltare in aria contro i nemici crociati.

    Il mondo occidentale che inorridisce di fronte alle schiave yazide e alle musulmane kamikaze, non deve però dimenticare di fare i conti con la Bibbia che consegna alla Storia della cristianità parole oggi ingiustificabili. Leggiamo: Il Signore radunerà le sue genti contro Gerusalemme per la battaglia: la città sarà presa, le case saccheggiate, le donne violate (Zaccaria 14,2). L’antico testo religioso rivela, dunque, un principio agghiacciante e inequivocabile: gli eserciti possono violentare le donne dopo aver conquistato il territorio nemico. Le femmine sono prede e bottino di guerra. Né più e né meno di come le considerano oggi i combattenti del Daesh e di come le consideravano, ancor prima, i macedoni, i greci e, dopo di loro, i romani. Omero, Erodoto, Tito Livio raccontano le feroci e squallide abitudini di truppe e condottieri. Il poeta Ovidio, addirittura, arrivò a teorizzare che la donna amasse la violenza (Grata est vis ista puellis) prestando il fianco – suo malgrado – a certe improbabili teorie proposte nelle sedi giudiziarie italiane da certi avvocati difensori di stupratori mandati a giudizio negli anni ’60 e 70 del secolo scorso. E di stupri di gruppo furono protagonisti i barbari che, in epoche successive, con la caduta dell’impero dell’Urbe, invasero la Penisola. Inenarrabili i crimini sessuali compiuti nella Città Eterna dai Goti di Alarico, poi morto in Calabria per un male improvviso e ivi sepolto. Non meno spietati e crudeli si mostrarono, tuttavia, i soldati entrati in azione nel 1561 per sopprimere la comunità valdese stanziata a San Sisto (Cosenza): centinaia di uomini vennero uccisi e decine di donne prese prigioniere e violentate con il pieno consenso della Chiesa locale (e non solo), in nome di una cieca furia scatenata dalla tristemente nota Inquisizione che già tanti danni aveva fatto nel resto d’Italia. Gravi responsabilità ebbero, in quanto accadde in quei giorni lontani, il cardinale Michele Ghisleri, il frate domenicano Valerio Malvicino, il vescovo vicario di Cosenza, Orazio Greco. Chi vuol farsi un’idea di quanto accadde nell’area settenrionale della Calabria può leggere, tra i tanti testi esistenti, La porta del sangue di Angelo Gaccione.

    Pensate, ancora, a quanto avvenne in quell’oscuro periodo europeo contro le donne quando venne scatenata la caccia alle streghe: vittime innocenti furono mandate al rogo dopo processi farsa basati su accuse inconsistenti. Un po’ come era accaduto ad Ipazia d’Alessandria, la scienziata egiziana che aveva inventato l’astrolabio, il planisfero e l’idroscopio, straziata con conchiglie affilate, smembrata e bruciata. Ipazia, nel V secolo dopo Cristo, fu vittima dell’Editto di Teodosio, che trasformò il Cristianesimo in una religione di persecutori. In molte province i cristiani abbatterono i templi pagani e si accanirono contro gli ebrei e i non convertiti. Il vescovo di Alessandria, Cirillo, dopo aver costretto gli ebrei all’esilio, si scatenò contro quella portentosa donna d’ingegno commissionandone il brutale assassinio. Nel magistrale dipinto La scuola di Atene, però, Raffaello Sanzio celebra i grandi personaggi dell’antichità – Socrate, Platone, Aristotele – e colloca tra di loro una sola donna: Ipazia che, dopo secoli di oblio, verrà così ricordata e risarcita come eroina della scienza e della libertà. Crudeli e impuniti, nel solco di quanto fatto dagli eserciti conquistatori in tutte le epoche, si mostrarono pure i bersaglieri mandati in meridione tra il 1861 e il 1870 per reprimere il brigantaggio. I calabresi, vistisi traditi dalle prospettive che l’Unità d’Italia e la cacciata dei Borbone avrebbero dovuto assicurare, scelsero la via della guerriglia contro un Stato che appariva peggiore di quello precedente. Cominciò così una Resistenza contro i piemontesi poi stroncata nel sangue. Le truppe guidate dagli alti ufficiali savoiardi Ferdinando Pinelli, Enrico Cialdini e Pietro Fumel rasero al suolo interi paesi, uccisero preti e bambini, violentarono e assassinarono centinaia di donne. Le teste mozzate dei briganti-resistenti vennero appese a pali di legno lasciati in giro per strade e piazze come monito. L’empietà di quei soldati appare sovrapponibile a quella mostrata dai combattenti jhadisti in più moderno periodo. Migliaia di meridionali vennero inoltre lasciati morire nei penitenziari ed i corpi accumulati in fosse comuni e poi sepolti sotto quintali di calce. Donne giovani e anziane perirono di stenti nella fortezza piemontese di Fenestrelle. Le pubblicazioni degli scrittori Pino Aprile, Giordano Bruno Guerri e Carlo Alaniello appaiono in tal senso illuminanti.

    Non meno cruento era stato pure il periodo precedente, quello dell’occupazione francese in Calabria. I militari napoleonici razziavano merce, occupavano immobili e trattavano le tante femmine che popolavano campagne e paesi come loro merce esclusiva: ne abusavano in ogni occasione utile contando sulla complicità dei commilitoni e sul silenzio dei comandanti. Chi si ribellava veniva passato per le armi: il terrore tra la popolazione era assoluto. Eppure, proprio in questo periodo (1806-1815), fu una donna, Francesca La Gamba, di Palmi, a guidare la resistenza contro i transalpini. Lei, infatti, aveva subito l’uccisione dei due amati figli e del marito per non aver inteso cedere alle voglie di un ufficiale bonapartista. L’uomo, per ricattarla, prima le imprigionò i congiunti e, non ottenendo poi dalla La Gamba i favori sessuali anelati, sulla base di false accuse, li fece fucilare. Francesca, appartenente alla media borghesia mercantile si gettò alle spalle, da quel momento, una vita agiata per trovare nel brigantaggio la forza e l’opportunità di vendicarsi. Divenuta ben presto capo di una banda dedita alle rapine ed ai saccheggi, la strumentalizzò ai suoi fini riportandola nel filone di quel patriottismo che nei periodi della dominazione francese nel Regno di Napoli caratterizzò la partecipazione attiva del brigantaggio nella lotta contro l’invasore. Arruolata con il grado di capitano nell’esercito borbonico, partecipò con i suoi uomini a varie azioni di guerra, aspettando sempre il momento di chiudere i conti con i suoi personali nemici. Finché, dopo anni intensi di lotte, di sangue, di sacrifici, durante i quali piegò e ricacciò indietro persino i sentimenti che affioravano dai recessi più profondi della sua femminilità, arrivò allo scontro finale con quell’ufficiale che, accecato dalla sua non comune bellezza, era stato la causa della sua tragedia. Pistola in pugno, la capitanessa (con questo appellativo passerà alla Storia) affrontò una colonna comandata dal francese e, dopo averla decimata, si avvicinò al bonapartista ingaggiando una lotta corpo a corpo culminata nella morte dell’uomo. Poi, in segno finale di disprezzo, Francesca aprì con un pugnale il petto dell’odiato nemico per strappargli il cuore e prenderlo a morsi. Agghiacciante. Come tutto ciò che accade durante le guerre.

    Quello che abbiamo visto prendendo in esame sia scenari dei secoli passati che quanto avviene oggi in alcune aree del mondo,

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