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Cielo di piombo
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Cielo di piombo

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Il ricordo di Vincenzo, ex Guardia di Pubblica Sicurezza, corre a quel giorno della fine degli anni ’70 e a quella ferrovia che lo avrebbe riportato al suo paese di origine in Calabria.
Un terrorista, ferendolo nella Torino delle manifestazioni e delle proteste, aveva segnato il suo destino.
Reso inabile a svolgere il suo lavoro, avrebbe occupato un posto da impiegato civile nell’Amministrazione dello Stato.
Sono anni furibondi caratterizzati da un fermento che rende incerto perfino “l’ordine delle cose”.
Vincenzo, da ‘sciancato’, guarda agli avvenimenti nazionali e mondiali dalla sua piccola Artemisia che, se pur appare immobile, corre verso le mode della società.
Le limitazioni fisiche  non lo sconfortano e, con l’acume dello “sbirro”, compie un percorso introspettivo che lo porterà ad analizzare il valore della giustizia, il ruolo dell’informazione e le grandi scelte di una nazione di fronte ad un mondo che cambia.
Gli eventi si susseguono e, tra questi, nel marzo del 1981 la riforma del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza della Polizia di Stato che gli faranno comprendere quanto abbia contribuito a quel fondamentale  cambiamento.
LanguageÍslenska
Release dateNov 28, 2018
ISBN9788868227364
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    Cielo di piombo - Tommaso Orsimarsi

    terrorismo.

    Prefazione

    Leggere il romanzo di Tommaso Orsimarsi riporterà alla mente di tutti i poliziotti la dura vita lavorativa e sociale degli anni bui della democrazia italiana (anche se vi sono alcuni che non la pensano così), allorquando, alla fine degli anni sessanta, gli scontri di piazza erano all’ordine del giorno.

    La storia del protagonista, Vincenzo, s’intreccia con la storia italiana di quegli anni e viene ben rappresentata dall’autore nei suoi momenti cruciali, a partire dall’evoluzione della società italiana che, dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, vede la nascita di una nuova coscienza civile.

    Anni complessi, segnati da sofferenze e incertezze che oscuravano il presente sino al punto da definirli bui; un periodo contrassegnato anche dal proliferare di movimenti e sigle anarchiche, oggi semisconosciute ai giovani, che degenerarono sino a dare vita al terrorismo nostrano.

    Anni di grande fermento che hanno visto i poliziotti italiani e la stessa Polizia, allora organizzata nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, vivere momenti di difficoltà che hanno generato una spinta che, fortunatamente, anziché fare involvere la funzione di polizia sino a spingerla sulla sola repressione, generò un movimento di pensiero democratico e di apertura che condusse il corpo verso la democratizzazione della funzione di polizia e la smilitarizzazione dei suoi appartenenti.

    Vincenzo, Guardia di Pubblica Sicurezza, arruolatosi negli anni in cui il Corpo era a tutti gli effetti militare, come tanti ragazzi dell’epoca, cercava il proprio riscatto nella stessa Polizia intravedendo in essa la possibilità di riscatto personale e dell’intera società.

    Il racconto delle sue radici, del paese lasciato in un momento in cui forte era il senso di comunità, il passaggio nella grande città, l’esperienza delle grandi tensioni e delle trasformazioni culturali, gli scioperi, gli scontri di Valle Giulia, il vivere in prima persona (come poliziotto ma anche come giovane cittadino) vicende come la tragedia di Seveso, il terremoto del Friuli, le paure e le delusioni dopo i primi attentati ai magistrati, agli avvocati, ai giornalisti, ai politici e agli stessi poliziotti, il senso di rivalsa per l’affermazione dello Stato sulla strategia della tensione e dell’eversione della democrazia con il celebrarsi dei primi processi per terrorismo (quali quello di Piazza Fontana) sono i tratti salienti del lavoro certosino fatto da Tommaso nella narrazione di questa storia quasi autobiografica e connotano tutto il libro con un dovizia di particolari e di sensazioni che spingono il lettore ad entrare materialmente nel racconto sino a sembrare di viverlo direttamente.

    Un’opera ricca di riferimenti storici e di spunti per riflettere sulla tumultuosa trasformazione della società italiana che, di pari passo, ha portato alla democratizzazione e, solo nel 1981, alla smilitarizzazione e sindacalizzazione del disciolto Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, ora Polizia di Stato.

    Una rievocazione di fatti e persone realmente esistite, magistralmente inserite nel racconto fantasioso della vita di Vincenzo, che lega tra di loro le vite di poliziotti realmente esistiti, tra i quali tanti vittime del dovere caduti nell’oblio (quali Berardi, D’Andrea, Barborini, Sammarco e altri). Nomi quasi sconosciuti per i tanti, forse a causa della divisa indossata che spesso spersonalizzava, ma che hanno avuto un ruolo importante nel processo di trasformazione della nostra società in una era in cui sembrava più scontata un’involuzione della stessa piuttosto che della sua emancipazione. Eroi senza medaglia dei quali a stento in qualche rara circostanza si ricordano i nomi, quasi come se sotto la divisa non ci fosse l’uomo, portatore di valori, di dovere e diritti. L’uomo prima che il poliziotto, come figlio, padre, fratello, amico.

    Il libro ci consente di rileggere il percorso di democratizzazione che ha portato il poliziotto dallo status di carne venduta a quella attuale di professionista della sicurezza grazie al percorso professionale fatto dopo la riforma del Corpo del 1981.

    Solo 50 anni fa, il giorno successivo alla battaglia di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini interveniva a difesa dei poliziotti che, nel presidiare una Facoltà Universitaria, vennero duramente attaccati dai giovani manifestanti movimentisti.

    Lo scrittore, comprendendo esattamente quali fossero le difficoltà dei giovani sbirri, affermò: "… io simpatizzavo con i poliziotti, perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono dalle periferie contadine o urbane che siano … E poi guardateli come vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo. Peggio di tutto è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese); senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti".

    Parole che ieri, come oggi, fanno riflettere sulla condizione di vita e di lavoro dei poliziotti di quell’epoca. Ma che inducono anche una riflessione sulla società di quegli anni e di come fosse facile distruggere tutto ciò che si era costruito alla base della nostra democrazia dal dopo guerra.

    Ragazzi volutamente arruolati quasi tutti dai ceti bassi e con limitata istruzione perché costituivano quella manovalanza di base da utilizzare per i desiderata del potere di turno contro i loro coetanei che non accettavano le imposizioni e le restrizioni che il sistema imponeva.

    Poliziotti privati di tutti i diritti fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione, persino dal poter esprimere opinioni o di poter diventare genitore atteso il divieto di sposarsi, sottoposti a una disciplina ferrea e a trasferimenti continui e quasi sempre punitivi.

    Come ben scritto nel libro di Tommaso, ai poliziotti era vietato di sposarsi prima dei 29 anni di età. Fatto questo che generava tante unioni clandestine e figli illegittimi che, a volte, non venivano mai riconosciuti per intervenuti trasferimenti d’imperio, non appena la gerarchia si accorgeva che i poliziotti intessevano relazioni con le persone e il tessuto sociale nel quale prestavano servizio. Situazioni che alimentavano gli asti contro i poliziotti e la stessa Istituzione sino al punto da relegare chiunque indossasse quell’uniforme in una condizione di emarginato.

    Durezza nei rapporti gerarchici, nessuna elasticità per le esigenze personali o familiari e permanenza ininterrotta in servizio anche per 24/48 ore consecutive e senza preavviso, erano la quotidianità nella quale i poliziotti vivevano. Quasi una sorta di recinto nel quale l’intento sembrava essere quello di incattivirli per poi scagliarli contro chiunque protestasse, a prescindere dalle ragioni poste alla base della protesta.

    Questa era la dura vita dei poliziotti ante Riforma.

    La smilitarizzazione della funzione di polizia, e con essa il processo di democratizzazione del Corpo, con smilitarizzazione degli appartenenti e la loro sindacalizzazione, comincia a realizzarsi con le ribellioni a tale sistema, giudicato inidoneo per fronteggiare le sfide contro la criminalità organizzata ed eversiva che in quegli anni stavano attaccando alle radici le basi della nostra democrazia.

    In quegli anni, grazie anche al contributo delle Confederazioni sindacali, nacquero i cosiddetti moti carbonari dei poliziotti per la smilitarizzazione.

    Tanti di loro vennero arrestati, trasferiti e molti anche licenziati.

    In un crescendo quasi rossiniano, la ribellione alle vessazioni e alla rigidità del sistema, che annullava la dignità di persone prima ancora che di lavoratori, ha portato i poliziotti a costituire, nel 1974, il movimento, appoggiato ufficialmente da CGIL, CISL e UIL, ma anche da professori universitari, magistrati, personalità della cultura e della politica.

    Nel 1981, con la legge 121/81, nasce la nuova Polizia di Stato.

    Non semplicemente la Riforma di un Corpo ma il cambiamento radicale degli organi deputati a gestire l’ordine e la sicurezza pubblica. Prendeva corpo la smilitarizzazione della funzione di polizia che da solo repressiva, ovvero finalizzata a punire le persone per fatti già accaduti, assumeva una veste preventiva al fianco dei cittadini per evitare che i reati si concretizzassero e ponendo per la prima volta il cittadino al centro della sua azione e al pari delle istitutzioni.

    Con la sindacalizzazione, di pari passo, crebbe la professionalizzazione dei poliziotti, consapevoli del nuovo ruolo nella società civile e del fatto che erano divenuti protagonisti del loro futuro.

    Dagli arruolamenti pre-riforma dei ceti bassi, e senza particolari requisiti, si passò a quelli per concorso pubblico con requisiti più qualificati e titoli di studio.

    Poliziotti acculturati (con il recente riordino delle carriere nei concorsi per il ruolo di base è previsto il diploma di scuola media secondaria), professionali e poliedrici nelle varie discipline scientifiche e informatiche si contrappongono allo stereotipo di poliziotto non scolarizzato e arrabbiato degli anni ’70.

    Dal poliziotto di contrapposizione si giunge finalmente al poliziotto di prevenzione, mediazione sociale e di prossimità che incarna la community policy, ovvero la polizia tra la gente, per la gente e al servizio della gente.

    Una nuova Polizia di Stato che ha come faro nel suo agire il binomio inscindibile di sicurezza e libertà, come si conviene ad ogni democrazia avanzata, consapevole che mentre la libertà è un valore assoluto, la sicurezza è il metro con il quale far misurare ad ogni cittadino il grado di democrazia che lo stato garantisce.

    Dallo sbarramento dei diritti di ieri, dunque, con la sindacalizzazione, si è passati alla tutela dei diritti soggettivi e di categoria, seppur permangono (per causa dello status di poliziotto) ancora limiti per la conquista delle piene libertà sindacali.

    Una Polizia di Stato moderna, arricchita da una componente tecnico scientifica che consente una sinergia tra professionalità accresciute e potenzialità tecnologiche che la scienza moderna mette a disposizione dell’attività di indagine e di prevenzione, che si avvale del prezioso e insostituibile apporto del personale femminile che oggi gode delle stesse prerogative del personale maschile, sia per gli arruolamenti che per le opportunità di carriera.

    Questo, in sintesi, il quadro del processo di democratizzazione e di efficientamento, ancora in corso nella Polizia di Stato.

    Un percorso ben evidenziato dallo scrittore che pone in evidenza il ruolo meritorio del SIULP in tutto il processo della sindacalizzazione e della rivoluzione culturale che ha investito la Polizia di Stato e i suoi appartenenti.

    Non è un caso che il SIULP è il primo Sindacato della Polizia di Stato e dell’intero Comparto Sicurezza.

    Nel complimentarci con Tommaso Orsimarsi per la bellezza del Suo libro che, come si suol dire, si lascia leggere tutto d’un fiato, invitiamo il lettore a soffermarsi a riflettere su alcuni passaggi del racconto che pur apparendo contorno alla storia raccontata, come si conviene in ogni tradizione poliziesca, sono essi stessi la storia che ognuno deve conoscere. Giacché è dai particolari che si ricostruiscono i grandi movimenti e le strategiche trasformazioni che portano all’emancipazione di ogni società.

    Cielo di piombo non è un libro per solo poliziotti, ma la narrazione dello spaccato sociale degli anni più bui della nostra Repubblica riletti attraverso il vissuto dei poliziotti.

    Anni in cui si volevano affermare idee e valori con l’utilizzo della forza e della sopraffazione fisica dell’avversario, politico o sociale che fosse, spesso visto come antagonista da abbattere e non come portatore di idee diverse con cui confrontarsi e costruire insieme.

    La bellezza del libro è proprio l’intreccio sapiente delle storie narrate con i valori, le preoccupazioni, le aspirazioni, le paure. Ma anche la voglia di riscatto, la capacità di mettere insieme il diverso, la consapevolezza che per costruire il futuro era necessario consolidare il presente e che questo si poteva fare solo stando insieme guardando l’altro come alleato e mai come nemico.

    Insomma, un libro da non perdere!

    Il Segretario Provinciale SIULP Il Segretario Nazionale SIULP

    Luciano Lupo Felice Romano

    L’arrivo

    Per anni, caparbiamente, mi rifiutai di tornare in quel paese, dove credevo di non aver lasciato nulla e nessuno si sarebbe ricordato di me.

    Vedevo lontanissimo il giorno nel quale, con in mano il congedo da alpino, pensavo di avere assolto già, tutti i miei doveri verso lo Stato.

    Mi era anche sembrato di aver conosciuto tutto, ed ero convinto di sapere con esattezza come vanno le cose della vita, così come avviene, nelle azzardate convinzioni di ogni giovane.

    Poi invece, per un colpo di testa, mi ero riarruolato indossando di nuovo una divisa, questa volta, quella grigioverde delle Guardie di Pubblica Sicurezza.

    Con le stellette sul bavero dell’uniforme, avevo scoperto quando può essere crudele quel mondo che, non sempre segue la logica del giusto e si abbandona alle teorie più disparate, come quella che, in quegli anni, professando la libertà per tutti metteva un capestro proprio agli uomini liberi.

    Quanto erano lontani i giorni che videro l’occupazione dell’università di Torino, senza aspettare il maggio francese. Tutto era partito da lì!

    Come erano scolorite le immagini di Valle Giulia e soprattutto quanto poco mi interessavano quegli intrighi di palazzo, quelle manifestazioni, quegli echi di rivolta e contrapposizione che idealizzavano le cose del mondo.

    Ma quelli erano gli anni dei diritti del nuovo ordine, votati al cambiamento e alle nuove opportunità. Da ogni dove, si percepiva l’esigenza di dover riscrivere le regole per una vita più moderna e al passo con i tempi. Azione e impegno dunque. Ad ogni costo!

    E se il mondo doveva cambiare, qualcuno doveva farne le spese!

    Quella voglia di mutare, io l’avevo pagata con una gamba che oramai mi trascinavo dietro, quasi fosse estranea al mio corpo.

    Nè mi consolava, quel giorno, la vista del mare spumeggiante che faceva da sfondo alla ferrovia che mi riportava indietro due volte. Indietro da dove ero partito e, ancora di più, agli anni della mia prima giovinezza.

    All’orizzonte una nuvola, una sola, di un colore giallognolo, minacciosa forse solo per gli uomini di mare, non smentiva le previsioni che avevo letto il giorno prima sul giornale. Poco nuvoloso!

    Ad ogni galleria il respiro si faceva pesante, sudavo e le mani improvvisamente mi tremavano senza che potessi controllarle. Ero ossessionato dal pensiero di che poliziotto potesse mai essere, quello che trema per una galleria e trascina un pezzo di sé.

    Ma era forse per questo che non lo ero più!

    Avevo ancora nelle orecchie, il tonfo della P38 seguito dal sangue caldo che mi scorreva lungo la gamba. Impressi, vividi e sgranati, quegli occhi che mi fissavano attraverso il passamontagna scuro. Occhi familiari e forse ancora più impauriti dei miei, ma di certo più consapevoli visto che io non ci avevo capito nulla. Poi quel dolore lancinante e la vista che mi si era offuscata di colpo realizzando:

    – Mi hanno sparato!

    E mi sembrò che dovessi salutare la vita da un momento all’altro. Un terrorista, ecco chi era quell’uomo, ma perché?

    Urlai con quanto fiato avessi in gola e mi risvegliai in un letto d’ospedale ancora più incredulo.

    Oltre alla gamba un altro colpo all’addome, sparato a bruciapelo, mi aveva tenuto tra la vita e la morte.

    Le Parche quel giorno, non recisero il filo della mia esistenza e riaprendo gli occhi, avevo ignorato totalmente i quindici giorni di coma.

    Ma cosa avevo da spartire con quella gente, con quegli ideali, con quella guerra, che stava infiammando quegli anni?

    Probabilmente nulla, ma una guardia è un niente che impaccia, un diaframma fra due propositi, due esigenze.

    Come un reduce, tornavo alla mia terra o meglio a quello che ne rimaneva, visto che non c’era stato nessuno da avvertire e nessuno mi avrebbe atteso.

    Anche lo Stato verso il quale ero giurato servitore, ora, non aveva nessuno a cui riconsegnarmi.

    Mi avevano accolto poco più che un ragazzo, strappandomi agli affetti e a quei genitori che, non avrei più rivisto.

    Forse era questa la penitenza per aver venduto la mia carne, come da più parti si diceva in quei tempi di stipendi da fame, condizioni di lavoro disumane ed esistenze da numeri.

    Qualche anno prima, la notizia di un incendio nel quale erano morti i miei genitori, mi era stata data dal Capitano Marini che con determinazione aveva detto:

    – Giovanotto, ora la sua famiglia siamo noi.

    E oggi?

    Oggi, perdevo anche quella famiglia adottiva che mi vedeva oramai inabile.

    Mi sarei dovuto presentare alla Prefettura di Cosenza e forse ne avrei trovato un’altra nell’Amministrazione Civile dello Stato.

    A ricordo di quando era accaduto, mi concessero di tenere la giacca, senza stellette, con le trame squarciate all’altezza della tasca sinistra. I pantaloni, in ospedale li avevano tagliati e ridotti a brandelli per raggiungere i punti colpiti.

    Non so perché la tenni, da allora non vi fu una volta che la aprii da come era piegata su se stessa.

    Intanto, ancora per un’altra volta, diedi il biglietto al controllore che lo forò nell’unico lembo intero e me lo restituì dicendomi:

    – Tra qualche minuto sarete arrivato signore!

    Ecco un lavoro che mi sarebbe piaciuto fare: Il ferroviere, sempre in viaggio, camminando a piedi mentre gli altri salgono sui vagoni per non spostarsi sulle proprie gambe. E la mia vita, forse, sarebbe stata un continuo di andirivieni di partenze, ritorni, coincidenze, prenotazioni, sempre di corsa su quei binari da stazione in stazione.

    E magari avrei anche letto nella mente delle persone, proprio come aveva appena fatto quel controllore con me, al quale avevo intenzione di chiedere quanto mancasse per la stazione di Belvedere e mi ero sentito immediatamente dare la risposta.

    Ma con quella gamba e quella paura non avrei potuto fare nemmeno più quel lavoro e pensai quasi ad alta voce:

    – Sono uno sciancato, prima o poi dovrò convincermene! Doveva andare così.

    Non mi bastavano quelle spiegazioni che mi rivolgevo con rabbia, specialmente quando dovevo scartare uno a uno tutti quei sogni che ancora non avevo avuto il tempo di realizzare e che ora mi affollavano la mente.

    E da quella cernita mi sembrò non rimanesse nulla.

    Chissà poi se alla stazione avrei trovato un facchino

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