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Rousseau - Alberto Peratoner
Il filosofo
Rousseau naviga in acque greche ma spinto da un vento illuminista, con il risultato che il suo pensiero è ricco di spunti contrastanti e assolutamente inconfondibile. Gli si può rimproverare tutto, ma non la mancanza di originalità. Lo sfondo delle antiche dottrine potenzia questa valutazione e per questo ci pare particolarmente utile accostarlo punto su punto al pensiero del nostro filosofo.
Lo stato di natura è un’invenzione considerevole di Rousseau per indicare una condizione di perfetta umanità sia dal punto di vista biologico sia sentimentale e intellettuale, stabilmente posta su un punto di equilibrio. Essa vale quanto il mito, assai in voga presso i pensatori greci, della superiorità degli antichi per il fatto d’essere più vicini all’origine delle cose e quindi alla verità.
L’anti-intellettualismo e l’anti-culturalismo sono un punto di forza della critica di Rousseau contro gli illuministi del suo tempo che ci riporta al naturalismo sofistico, un coacervo di idee in subbuglio nell’Atene del V-IV secolo.
Parla il sofista Ippia di Elide: «O uomini qui presenti vi considero consanguinei, parenti e concittadini per natura non per legge. Infatti il simile è per natura parente del simile, mentre la legge che è tiranna degli uomini, molte volte forza molte cose contro natura».
Fa eco Antifonte: «Le disposizioni delle leggi sono accessorie, quelle della natura necessarie, quelle delle leggi sono convenzionali, quelle di natura naturali». Dunque è lecito violarle.
E ancora: «[…] siamo diventati come i barbari gli uni verso gli altri, ma per natura in tutto tutti egualmente siamo fatti per essere e barbari e greci».
L’ugualitarismo e il cosmopolitismo sono un fatto di natura, la divisione e la sopraffazione vengono dalla civiltà e dalla cultura.
Antistene il Cinico (pochi decenni dopo i sofisti di cui dicevamo) afferma: «La virtù di nulla ha bisogno se non della forza di Socrate», per questo la cultura e la morale filosoficamente fondata non hanno nessun pregio.
A conti fatti, ciò che i sofisti naturalisti sostenevano ai loro tempi vale anche per Rousseau ai suoi tempi: quello che lo sviluppo della civiltà propone come progresso – seppure lento e contrastato – è in verità un regresso perché oppone l’uomo all’uomo. Dunque, il ritorno alla natura metterebbe ogni cosa al suo posto.
Ma è proprio vero? Diamo la parola a Callicle (primi decenni del V secolo a.C.):
«MI PARE CHE LA NATURA STESSA MOSTRI CHE È GIUSTO CHE CHI È PIÙ FORTE ABBIA DI PIÙ DI CHI È PIÙ DEBOLE E CHI È PIÙ POTENTE ABBIA PIÙ DI CHI È MENO POTENTE. SICCHÉ, SE NASCESSE UN UOMO DOTATO DI UNA FORTE NATURA, FORTE QUANTO OCCORRE, ALLORA SCUOTEREBBE DA SÉ TUTTE LE REMORE DELLA LEGGE, LE SPEZZEREBBE E SE NE LIBEREREBBE, CALPESTEREBBE LE NOSTRE ISTITUZIONI E RIBELLATOSI IL NOSTRO SCHIAVO RISULTEREBBE ESSERE IL NOSTRO PADRONE E COSÌ RIFULGEREBBE IL GIUSTO SECONDO NATURA».
Insomma, il naturalismo in Grecia porta a due esiti contrapposti: l’assoluta uguaglianza e l’assoluta diseguaglianza.
Rousseau però, quando parlava di stato di natura a cui riportare l’uomo, non intendeva un impossibile ritorno al passato come sembrano dire i nostri sofisti o una regressione biologica allo stato selvaggio come auspicava Callicle, ma intendeva piuttosto un impegno culturale e filosofico per realizzare un nuovo modello di società umanamente più ricca.
A proposito di questo nuovo tema basta variare lo sfondo per avere la corrispondente prospettiva greca.
Ora parla Platone nella Repubblica. Platone sa bene che la sua città, Atene, è malata; e se è malata la sua città così colta e intelligente, figurarsi le altre. Non ha dubbi che sia malsana perché ben cinquecento giudici e una miriade di cittadini hanno condannato il più sapiente degli Ateniesi: il suo maestro Socrate, amico e guida per tutta la vita.
Ha anche una diagnosi per questa malattia: si tratta di una discrasia
, cioè di uno squilibrio dei naturali elementi dell’anima (quello concupiscibile, irascibile e razionale), e pertanto basterebbe che l’uomo ritornasse alla propria interiorità per trovare la via del riscatto. Tutti hanno in dotazione queste facoltà, sicché all’umanità non mancano le risorse per sollevarsi purché si metta d’impegno in tale direzione.
Un aiuto considerevole a questo scopo viene dal modello di città ideale della Repubblica, dove Platone progetta uno stato perfetto in cui gli uomini si associano in classi in funzione del loro carattere psichico prevalente: se sono concupiscibili
, cioè se in essi prevale il desiderio di ricchezza, andranno a costituire la classe degli operai e dei commercianti; se sono irascibili faranno i soldati e i custodi dell’ordine pubblico; se sono razionali, diverranno filosofi in seguito a un lungo e faticoso tirocinio. Dopo di che, tenuto conto che la ragione prevale sulle altre funzioni, i filosofi guideranno lo stato, guardando al mondo dei valori e delle idee di cui sono assidui frequentatori e senza bisogno di particolari leggi. A tale scopo fisseranno di volta in volta non solo la condotta della città e dei suoi abitanti, ma anche il suo futuro sviluppo con un progetto educativo pubblico, comune a maschi e femmine, e ritagliato sulla psicologia e la funzione di ciascuna classe. Naturalmente la pedagogia è intesa come strumento di conservazione di questa architettura sociale ritenuta perfetta e naturale.
Dal punto di vista politico Platone vuole togliere ai custodi la proprietà di beni e di denaro (comunismo) e, dopo aver arruolato donne e uomini con pari diritti e doveri nella difesa dello stato dai nemici esterni e interni, pensa anche di privarli della propria famiglia, per offrirne una molto più grande, vasta come la città. In tal modo essi non avranno figli né mogli proprie, ma in comune.
In questa nuova condizione «non avranno più nulla di cui dire è mio
, o meglio di tutto potranno dire è mio
». Una condizione analoga a quella che Rousseau chiamava volontà generale
, che segue al contratto sociale ed è necessariamente volta al bene comune.
Frontespizio del Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini (1754). Si tratta del secondo Discours composto da Rousseau.
Infatti, per ambedue i filosofi è solo la volontà individuale che sceglie il bene privato, sicché una volta liberato l’uomo da questo condizionamento, si impone necessariamente il bene comune. Si noti che in entrambi i pensatori la volontà generale non è la somma o la media delle volontà individuali, ma è un nuovo soggetto, un nuovo corpo morale e collettivo
generato dalla rinuncia di ciascuno ai propri interessi in favore della comunità.
Cambiamo per l’ultima volta lo sfondo, puntando su Aristotele. In questo caso non per trovare consonanze ma differenze. D’altra parte è logico che se Rousseau assomiglia a Platone e Aristotele si oppone a Platone, Rousseau si opporrà ad Aristotele. Il nostro sarà dunque uno sfondo contrastato.
Il fatto che la città – la polis greca – abbia un’origine naturale e uno sviluppo necessario non è per Aristotele un teorema, ma un’evidenza storica legata al fatto che la famiglia da sola non potrebbe sopravvivere. Si aggrega allora con altre famiglie a formare il villaggio, poi si sviluppa ancor più fino a raggiungere uno stato di equilibrio e di autarchia nella città; e qui resta. Dunque non vi è alcuna involuzione nell’associarsi degli uomini, ma una necessità naturale indotta dal principio di sopravvivenza che è anch’esso del tutto naturale. Anzi, in questo processo si trova qualcosa di più e di meglio che una pura sopravvivenza. Perché a un certo punto del suo sviluppo, quando ormai è stabilmente inserito nel tessuto cittadino, l’uomo non si accontenta più della natura in senso universale, ma cerca di realizzare la propria particolare natura umana. Così al fine della pura sopravvivenza sostituisce quello del ben vivere: una vita piena in cui la differenza è fatta non solo da un maggior benessere, ma anche dalla possibilità di avere del tempo libero (in greco scholé, da cui deriva il termine scuola
), per formarsi intellettualmente ed elevarsi nello spirito. È a questo punto che l’uomo si realizza e, per così dire, diventa veramente umano. Ciò porta il nostro filosofo a dire che la città esiste prima dell’uomo, perché il vero uomo – cioè l’animale pienamente razionale – nasce per intervento dello stato.
Lo stesso concetto Aristotele lo esprime nella celebre definizione dell’uomo come animale politico, dove politico
non significa solamente una generica propensione ad associarsi, ma indica un carattere essenziale e costitutivo dell’umanità: finché non è politico – a prescindere dalla forma costituzionale in cui vive – non può dirsi uomo e quando smette di essere politico – ossia esce dalla città – perde i caratteri propriamente umani.
Quest’ultimo aspetto si trova espresso nella nota affermazione di Aristotele che fuori dalla città non si troverà mai nessun uomo, ma solamente dei o bestie: non solo perché sono gli unici esseri autosufficienti ma anche perché l’attributo dell’umanità viene dalla civilizzazione (da civis, cittadino).
Un altro definitivo segno dell’alternativa Platone-Rousseau/Aristotele si trova nella considerazione che questi filosofi avevano del barbaro
, che nell’antichità era categoria vastissima che includeva tutti i non-greci: negativa e spregiativa da parte di Aristotele – il prototipo del barbaro era per lui il Ciclope, selvaggio, asociale, ateo e antropofago –; positiva per Platone che vedeva nei barbari, e perfino nei Ciclopi, l’inizio ingenuo ma sincero del progresso.
La visione della storia umana di Aristotele è complessivamente ottimista e lo sarebbe ancor più se non avesse una chiara percezione della precarietà degli equilibri sociali all’interno della polis. Da filosofo della politica egli intende regolare sulla base di progetti costituzionali questi scompensi che l’istinto e l’avidità umana determinano; con ciò mostrava di fidarsi assai più del metodo storico e sociologico che di quello filosofico o morale. Questo segna la massima distanza fra lui e Rousseau (e anche Platone).
I ruderi dell’antichità sullo sfondo di un dipinto aggiungono alla prospettiva dello spazio quella del tempo passato che si fa vicino. Quando i ruderi
si intravvedono in un quadro storico-filosofico di solito rappresentano la linea delle cause che è tesa fino al punto focale dell’origine.
I temi
Immagine seguita da didascaliaIl volto di Jean-Jacques Rousseau per come ci viene restituito da Jean Édouard Lacretelle nel 1843. L’opera, commissionata da Luigi Filippo di Francia e conservata al Museo di Storia della Francia, nella Reggia di Versailles, è stata dipinta più di 50 anni dopo la morte del filosofo. Testimonia quindi la sua duratura e crescente fama.
LA FOCALITÀ ANTROPOLOGICA
Il punto di condensazione e unificazione delle molteplici prospettive e direzioni di ricerca della riflessione di Rousseau – che in lui non hanno certo la vastità dell’orizzonte enciclopedico leibniziano, né la tendenza a costituirsi in sistema
– è l’antropologia quale priorità lucidamente individuata a fronte di un contesto culturale che ne rendeva problematica la comprensione. La deriva del razionalismo illuminista finiva infatti per compromettere il piano esistenziale e, in particolare, etico-politico, dell’uomo, e Rousseau dovette riconoscere in essa l’esito finale di un progressivo snaturamento dell’umano e del suo ethos elementare. Il filosofo ginevrino finisce per avvertire, infatti, nell’iper-razionalismo e nella piega riduzionistica dell’antropologia dei philosophes una grave inautenticazione dell’identità concreta della persona e dello spessore della sua esperienza. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’ala estrema della corrente dei Lumi, con Julien Offray de La Mettrie (1709-1751), Claude-Adrien Helvétius (1715-1771) e Paul Henri Thiry d’Holbach (1723-1789), finiva sul binario morto di una riduzione meccanicistica della totalità dell’uomo, contro la quale Rousseau si propose di riabilitare la dimensione sapienziale della riflessione filosofica e una concezione multidimensionale della persona, sino alla restituzione dell’ineludibile valore della sua dimensione religiosa. L’esito della riflessione appare pessimistico, per le tinte fosche in cui viene ritratta la natura umana allo stato presente – «Tutto è bene quando esce dalle mani dell’autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo», esordisce l’Emilio –, ma il pessimismo antropologico
di Rousseau, che sembra tanto opposto all’ottimismo naturalistico dei philosophes, è da intendere correttamente: vi è una radice di ottimità naturale, nell’uomo, rinvenibile nella sua condizione pre-sociale, cioè a monte delle deformazioni indotte dalla cultura e dall’innaturale complicazione delle relazioni sociali e istituzionali, irriducibile a qualsiasi pessimismo.
Ad ogni modo, la concezione del progresso come alterazione dello stato originario di una natura in sé buona, ricade sulla stessa autocomprensione della natura umana, vale a dire sulla stessa antropologia filosofica, per come è venuta evolvendosi: «è a forza di studiare l’uomo che ci siamo messi nell’impossibilità di conoscerlo», scrive nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini.
Nell’aprire le indagini in questo stesso Discours, coll’annunciare l’esperimento di descrivere l’uomo «quale è dovuto uscire dalle mani della natura», Rousseau si prefigge di indagare e rappresentare «uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai», per cui l’operazione si presenta già con le caratteristiche di un’astrazione che questa avvertenza preliminare intende correttamente presentare per tale, a scanso di equivoci nell’interpretazione di quanto si accinge a trattare.
Ora, in questo esperimento di astrazione, dove anche la costituzione fisica dell’uomo subisce un peggioramento con lo sviluppo della civiltà (la costituzione robusta dell’uomo primitivo, sana nella vita semplice e naturale e forte di un organismo tenuto nell’esercizio di tutte le sue funzioni, si illanguidisce col progredire delle relazioni sociali e della sua capacità strumentale), la stessa ragione umana viene deposta dal piano della bontà della costituzione antropologica originaria, e riportata a un fattore di sviluppo secondario, per lo più negativo, perché proprio la ragione avrebbe concorso a quello sviluppo delle scienze e delle arti già condannato come innaturale nel primo Discours.
In tutto ciò è evidente che, in questa collocazione, la ragione è assunta da Rousseau nella sua accezione cartesiana e postcartesiana di raison raisonnante, cioè di ragionamento, o ragione processuale.
Fatto interessante, la squalificazione della razionalità umana nella sua accezione processuale o, per dir così, calcolante (divenuta prevalente nella modernità), grazie al recupero della dimensione sapienziale dell’umano, che pone Rousseau sulla linea di quella modernità alternativa che ha il capostipite in Pascal – e con ciò in rotta di collisione col razionalismo dei philosophes –, si traduce in lui nella liquidazione della bontà naturale della razionalità tout court, con la conseguente conferma di quell’identificazione della ratio con la ragione calcolante che dell’età moderna diviene (grazie anche, paradossalmente, al filosofo ginevrino) un tratto caratterizzante acquisito. Infatti Rousseau, nella natura umana considerata nella bontà della sua condizione originaria, antepone alla ragione i «due principi anteriori» dell’istinto di conservazione, o amore di sé, e della naturale pietà, che inclinano naturalmente l’uomo, senza il concorso della ragione, che anzi soltanto in un secondo tempo subentra nel ridefinire le regole
