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Comte - Alberto Peratoner
Il filosofo
Ci aiuta a comprendere Comte il motivo per cui Eraclito si meritò il titolo di oscuro
, al di là del fatto che se l’è proprio cercato, perché, quando depose la sua opera filosofica come offerta nel tempio di Artemide, la trascrisse «nella forma più oscura possibile, affinché vi si accostassero soltanto quelli che erano in grado di capirlo» (DK 22 A 1). E poi andava dicendo che gli uomini non intendono ragione
, cioè non capiscono la «verità eterna, […] né prima di udirla né dopo averla udita». In conclusione, a suo giudizio, è meglio dissuaderli dallo studio della legge del mondo
– che egli riteneva espressa nei suoi testi – perché comunque l’avrebbero fraintesa. La tradizione per questi suoi atteggiamenti lo ritenne un presuntuoso, mezzo matto.
Ma la spiegazione non è del tutto soddisfacente, perché qualche secolo dopo si ripresenta lo stesso caso, questa volta con Platone, che non era certo presuntuoso – altrimenti non sarebbe stato così a lungo discepolo e seguace di Socrate – e non era matto. Ebbene Platone fece qualcosa di peggio rispetto a Eraclito: non scrisse proprio la parte culminante del suo pensiero, cioè la dottrina dei principi. La mantenne nella sfera dell’oralità, esattamente come secoli prima aveva fatto Pitagora, vincolando al segreto i suoi discepoli. Platone ne diede anche una motivazione esplicita:
«TUTTI COLORO CHE AFFERMANO DI SAPERE QUELLE COSE DI CUI MI DO PENSIERO […] NON È POSSIBILE CHE ABBIANO CAPITO ALCUNCHÉ DI QUESTO OGGETTO. SU QUESTE COSE NON C’È UN MIO SCRITTO E NON CI SARÀ MAI».
Immagine seguita da didascaliaIl ritratto originale di Comte eseguito da Louis-Jules Etex e conservato al Temple de la Religion de l’Humanité a Parigi, unico tempio positivista esistente in Europa. L’edificio fu abitato da Clotilde de Vaux, musa di Comte, e qui il filosofo costruì una cappella consacrata al suo credo.
A questo punto la spiegazione caratteriale non funziona più: troppi malmostosi nel giro di pochi secoli, anche per una categoria stravagante come quella dei filosofi!
La ragione vera è che fin dall’inizio era implicita – e poi con Platone è diventata esplicita – la differenza fra la scienza e l’opinione.
L’opinione (in greco doxa) è il sapere comune come si presenta direttamente ai sensi, nella sua caratteristica essenziale del divenire e della precarietà. Siccome il nostro intelletto ama la stabilità e la definizione, l’avere a che fare con qualcosa di fluente lo mette a disagio perché, in definitiva, l’opinione dà sempre risultati deludenti. Oltre a ciò tutti riconoscono che esiste un’opinione vera e una falsa: per esempio credere, sulla base dell’esperienza comune, che tutti i bipedi sono uomini è un’opinione falsa, e invece credere che tutti gli alberi al sole fanno ombra è un’opinione vera.
E allora su che base si deciderà quale è vera e quale è falsa?
Sulla base della scienza (in greco episteme), che Platone presenta in modo ammirevole nel Menone rispondendo a questo problema: «la scienza sia di maggior pregio della retta opinione e perché siano diverse l’una dall’altra». La soluzione è che l’opinione, anche quando è vera, è instabile. Perché l’intelletto riesca a possederla deve essere legata da un ragionamento causale
. In tal modo, però, smette di essere opinione e diventa scienza.
A questo punto si comprende che la differenza fra la scienza e l’opinione non sta tanto nel contenuto, quanto nel metodo (il quale raggiungerà livelli più elevati con Aristotele): chi non possiede il metodo giusto e il linguaggio che gli compete non potrà trarre alcun profitto dalla scienza e, ben che vada, riuscirà solo a travisarne i contenuti.
Dunque il motivo per cui quei grandi filosofi rifiutavano ogni forma di divulgazione è che la divulgazione operata dall’incompetente non diffonde i contenuti se non deteriorandoli.
Questo ci riporta al nostro autore e alla legge dei tre stadi dello sviluppo umano – teologico, metafisico e positivo – in cui ogni livello precedente appare necessario al seguente, ma il seguente sospende ed elimina il precedente, perché nel complesso «il loro carattere è essenzialmente diverso e anche radicalmente opposto», come ben illustra Alberto Peratoner nel terzo paragrafo dei Temi e nei testi afferenti.
«Siffatta legge – osserva Comte – consiste nel fatto che ciascuna delle nostre concezioni principali […], ossia ciascun tipo di filosofia, oppure di sistema concettuale generale sull’insieme dei fenomeni» esclude l’altro. Però la serie di Comte non è indefinita, perché se «il primo è un punto di partenza necessario dell’intelligenza, il terzo (quello positivo, scientifico) è il suo stato fisso e definitivo e il secondo è unicamente destinato a servire come tappa di trasformazione».
È la stessa differenza che intercorre fra la doxa e l’episteme platoniche: a cambiare registro cambia la legge del mondo
, e non esiste ritorno al passato se non, naturalmente, in caso di decadenza o regressione.
L’uomo positivo non può usare della metafisica e l’uomo metafisico della teologia-mitologia. O, per meglio dire, l’uomo positivo non può usare del metodo dell’uomo di fede, perché non può affidarsi «all’azione diretta e continua di agenti soprannaturali»; ma neppure al metodo metafisico riempiendo il mondo di essenze, alla stregua di un buon profumiere.
L’unica via percorribile per l’uomo consiste nel rinunciare all’obiettivo di un sapere assoluto, alla conoscenza dei principi, delle cause profonde dei fenomeni, per limitarsi a scoprire le leggi effettive
degli enti naturali, cioè le loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza.
Questo per Comte è il metodo giusto che inaugura un’epoca definitiva
, quella – per dirla al modo di Platone – dell’episteme; ma di un’episteme non astratta, bensì destinata a dominare la natura attraverso la scienza, interpretando i fatti attraverso le leggi, parlando il linguaggio della matematica e usando l’osservazione sperimentale come verifica.
Però Platone parrebbe più tollerante di Comte, perché non riteneva esauste
– come si direbbe delle pile – le tappe precedenti allo stadio positivo, e a esse riservava un certo ruolo, senz’altro non centrale, ma specifico e in qualche misura insostituibile. Per quanto Platone ritenesse che tutta la realtà conoscibile è perfettamente comprensibile col metodo dialettico, a differenza del nostro filosofo, non riteneva certo che tutto fosse (pienamente) comprensibile: a suo giudizio alcune parti del reale – per esempio i fenomeni del mondo fisico che sono irregolari, o i destini dell’anima – sfuggono alla cognizione intellettuale.
Tali aspetti trovano espressione nel mito che in tal senso vale come un prolungamento della ragione, un’anticipazione in via provvisoria di quanto la scienza doveva in seguito appurare. Nel colloquio con Gorgia si esprime bene questo concetto (Gorgia, 527 a):
«A TE, GORGIA, SEMBRERÀ CHE IL MITO DELL’OLTRETOMBA SIA UNA LEGGENDA, DI QUELLE CHE NARRANO LE VECCHIERELLE, E LA DISPREZZERAI; E INVERO IL DISPREZZARE QUESTE COSE NON SAREBBE ASSURDO, SE CERCANDO RAZIONALMENTE POTESSIMO TROVARNE ALTRE MIGLIORI E PIÙ VERE».
Insomma – parrebbe dire Platone – le vecchierelle
non vanno disprezzate, neppure quando pensano, perché sono quelle che meglio degli altri – giovani o sapienti che siano – hanno capito come va a finire la vita e da parte loro si sono arrischiate a credere
cose inusuali. Comunque, conclude Platone: «il rischio è bello!» (Fedone, 114).
In un certo senso anche gli Stoici, al pari di Comte, ritenevano che il principio della Ragione (il logos) si esprimesse a tre livelli (SVF, II, 1009) – che per loro corrispondevano alla forma scientifica (filosofica), alla forma mitica (religiosa) e a quella politica (con le legislazioni) –, ma non secondo un ritmo storico (una dopo l’altra, una al posto dell’altra), bensì tutti insieme, in contemporanea. Per tale ragione, tenendo fermi questi canali di espressione, il compito della scienza – o meglio della filosofia – è quello di riassorbire gli altri due canali in un’unica prospettiva razionale onnicomprensiva, per esempio servendosi della filosofia politica e dell’allegoria filosofica.
Immagine seguita da didascaliaA sinistra: il frontespizio di Auguste Comte. Sa vie, sa doctrine, storica monografia che Michel Salomon dedicò al pensatore.
A destra: un’edizione del Corso di filosofia positiva stampata a Torino per le cure di Franco Ferrarotti.
Da tali punti di vista l’eliminazione del mito sarebbe un atto d’imperio, ma dal punto di vista di Comte è pure una necessità motivata dall’aggiornamento del sapere allo stadio di sviluppo in cui l’umanità si trova, riconoscendo alla tradizione il ruolo che le spetta come propulsore dello sviluppo, ma non il ruolo di guida per il presente. Sarebbe come se oggi un medico usasse i salassi per curare il mal di testa.
Per quanto le differenze appena illustrate separino gli antichi filosofi dal positivista Comte, altre affinità più generali, ma non meno significative, li avvicinano.
Per esempio, tanto Platone quanto Comte quando parlavano di stadi di sviluppo si rivolgevano sia alla sfera individuale che a quella politica in senso lato. Il primo filosofo deduceva la forma ideale dello stato composta da tre classi – i filosofi, i guerrieri e i produttori-distributori di beni – dalle parti dell’anima che è razionale, irascibile e concupiscibile. Queste, in verità, non sono il risultato di idealità metafisiche
, bensì empiricamente si riscontrano da un’analisi dei comportamenti umani e infantili, sicché è certo che riguardano tutti gli uomini seppure in diversa proporzione. Pertanto è legittimo credere che gli uomini, incontrandosi per formare un agglomerato sociale, si aggreghino secondo i loro caratteri: i razionali con i razionali, gli irascibili con gli irascibili, e i concupiscibili con i loro affini. Ecco dunque, bell’e formati, gli elementi della comunità umana. Che se poi questi elementi sono armoniosamente combinati in una gerarchia che fa prevalere i filosofi, compare la città ideale, modello di ogni buona costituzione.
Anche Comte – come nota bene Peratoner nella sezione successiva – collega lo sviluppo individuale a quello collettivo attuando «una trasposizione della dinamica descritta dalla legge dei tre stadi al piano dell’evoluzione del pensiero individuale».
In ragione di questa ogni uomo sarà teologo nella sua infanzia, metafisico nella giovinezza e fisico nello stadio adulto, ma non cercherà di armonizzare l’insieme di queste prospettive, bensì a un certo punto le eliminerà tutte – certo con l’onore delle armi – tranne l’ultima, che, aristotelicamente parlando, potrebbe essere il fine della storia umana.
In verità la prospettiva di Comte è ancor più universale e vasta di quella di Platone, perché allinea la politica all’antropologia e l’antropologia alle scienze naturali in ordine al metodo scientifico. Così le leggi fisiche una volta verificate nei fatti non si applicano solamente allo studio della natura, ma pure allo studio della società. Quest’ultimo passaggio, come ben leggeremo nel prosieguo del libro, prenderà il nome di sociologia, che sarà in definitiva una fisica applicata alla società umana, con la stessa necessità e le stesse capacità di previsione che ha la scienza fisica.
Platone non avrebbe mai potuto seguire Comte su questa via, perché il campo della realtà per lui non è all’origine omogeneo, e quello che vale per un ambito – per esempio, l’episteme per il mondo ideale, e la doxa per quello fisico – non può valere per l’altro.
I temi
Immagine seguita da didascaliaQuesta incisione antica – tratta da un dipinto di Louis-Jules Etex (1810-1889) – ci restituisce il volto intenso del pensatore.
SCIENZA E FILOSOFIA: LA SINTESI DEL PENSIERO POSITIVO
Nell’Avvertenza al primo volume del Corso di filosofia positiva (1830), Comte precisa di impiegare «il termine filosofia nell’accezione che gli davano gli antichi, e in particolare Aristotele, a designare il sistema generale delle concezioni umane; e, con l’aggiungere il termine positiva, annuncio che considero questa maniera speciale di filosofare che consiste nel considerare le teorie, in qualsiasi ordine di idee, come aventi per oggetto il coordinamento dei fatti osservati, il che costituisce il terzo ed ultimo stato della filosofia generale». E ancora:
«CON FILOSOFIA POSITIVA, PARAGONATA A SCIENZE POSITIVE, INTENDO SOLTANTO LO STUDIO PROPRIO DELLE GENERALITÀ DELLE DIVERSE SCIENZE, CONCEPITE COME SOTTOMESSE A UN METODO UNICO, E COME FORMANTI LE DIVERSE PARTI DI UN PIANO GENERALE DI RICERCHE».
UN NUOVO DISEGNO ENCICLOPEDICO
L’elaborazione teorica di Comte costituisce una delle ultime proposte sistematico-enciclopediche prodotte dalla modernità. Il suo spirito dichiaratamente antimetafisico la pone nelle condizioni di una sorta di esperimento-limite: quello di progettare un enciclopedismo (epistemologico in senso positivista) oltre l’enciclopedismo (ontologico), senza il pieno avvertimento della contraddizione interna del residuo metafisico che inevitabilmente soggiace all’idea di un’unificazione del sapere, per quante misure siano effettivamente prese dallo stesso Comte per seppellirlo e dare una configurazione post-metafisica a tale progetto.
Nella Prefazione personale al Corso di filosofia positiva Comte evoca in questi termini il primo prender forma del proprio sistema: «Avevo appena raggiunto il quattordicesimo anno d’età che, percorrendo spontaneamente tutti i gradi essenziali dello spirito rivoluzionario, provavo già il bisogno fondamentale di una rigenerazione universale, politica e filosofica ad un tempo, sotto l’attivo impulso della
