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Leibniz
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Giurista, matematico, storico, teologo, Leibniz è una delle menti universali più affascinanti di ogni epoca oltre che uno dei filosofi di riferimento per la modernità. Rappresenta l'alba della consapevolezza del mondo attuale, giacché seppe sintetizzare l'impossibile, ovvero Platone con Democrito, Aristotele con Descartes, la scolastica con i moderni, la teologia e la morale con la ragione. Cercò di «intellettualizzare l'universo», ma non meccanicizzarlo come facevano i filosofi-scienziati del XVII secolo, creando un sistema di pensiero che avesse una precisa corrispondenza fra logica e ontologia. Pretese sempre di risalire alle verità ultime e ai fondamenti logico-filosofici che stavano alla base del mondo reale, introducendo concetti assolutamente nuovi. La sua fu una filosofia che partiva dal lontano passato per arrivare al futuro, cioè a oggi, e che ha anticipato una visione relativistica dell'universo che gli scienziati avrebbero sviluppato solo nel Novecento.
LanguageItaliano
PublisherPelago
Release dateJan 28, 2023
ISBN9791255011323
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    Leibniz - Alberto Peratoner

    Il filosofo

    Bisogna essere grati a Leibniz perché ha inventato la philosophia perennis, garantendo un futuro illimitato alla professione del filosofo, e poi perché è stato un inguaribile ottimista, riconoscendo che questo mondo è il migliore possibile. Non oso pensare come sarebbero stati gli altri mondi… ma bisogna accontentarsi. Comunque mi sembra di poter dire che di solito i filosofi più ottimisti sono quelli che hanno un riferimento soprasensibile. Effettivamente, bene o male il sensibile si disfa e muore, dal momento che così ce lo mostra l’evidenza. Ecco perché la realtà dei fatti non induce all’ottimismo e a causa sua si può solo disperare. Invece il soprasensibile – ogni volta che ciascuno si è scelto il suo – è eterno e non cambia mai: tutt’al più cambia la percezione che ne abbiamo via via che lo approfondiamo. In questo caso si può ben sperare.

    Il problema è che il sensibile è di solito concreto e convincente, mentre il soprasensibile lo è solo di rado. Infatti l’uno si impone a noi con vigore come nel caso del dolore e del piacere; l’altro vien fuori da un ragionamento che, però, spesso si accompagna a un contro-ragionamento se non a drastiche confutazioni. Insomma, sembra essere campato per aria.

    Tuttavia non se ne può fare a meno, perché la nostra mente funziona così e mette la ragione in ogni suo atto. I suoi concetti sono dovunque, anche nella sensazione: sentire, sentir di sentire, riconoscere quello che si sente sembra essere per l’uomo una scelta obbligata.

    Tenere insieme i due ordini di realtà – sensibile e soprasensibile – che Platone ha distinto è impresa quasi disperata. Platone ce l’ha messa tutta, i suoi successori anche. Plotino ha, a modo suo, risolto il problema introducendo un Uno creatore da cui vengono tutte le cose, ma anche i concetti, le idee e i valori.

    Pure Leibniz ce l’ha messa tutta e, come mostra Peratoner testi alla mano, con ottimi risultati.

    La chiave di volta per lui consiste nella monade, che è soprasensibile e però dà luogo al sensibile. Essa è originariamente designata come sostanza individuale, in seguito come forma sostanziale oppure col termine aristotelico di entelechia. Storicamente la monade era come un’aquila in gabbia: avrebbe potuto volare fino alle più alte vette, ma la sua prigione glielo impediva. Questo dipende dal fatto che all’origine era chiusa nell’ambito della matematica dei pitagorici e filosoficamente riuscì a diventare potenza cosmologica solo attraverso la mediazione della platonica teoria dei principi (dell’Uno e della Diade). Ecco come un anonimo pitagorico, forse del primo secolo avanti Cristo, descrive la rottura della gabbia e il volo dell’aquila-monade fino ai vertici del reale:

    «I PITAGORICI DICEVANO CHE LA MONADE È PRINCIPIO DI TUTTO, PERCHÉ IL PUNTO È PRINCIPIO DELLA LINEA, LA LINEA È PRINCIPIO DELLA SUPERFICIE, E LA SUPERFICIE DEL SOLIDO A TRE DIMENSIONI, OSSIA DEL CORPO. MA LA MONADE SI CONOSCE PRIMA DEL PUNTO, COSICCHÉ LA MONADE È PRINCIPIO DEI CORPI; PER CONSEGUENZA TUTTI QUANTI I CORPI DERIVANO DALLA MONADE».

    Si capisce che la monade spicca il volo non appena abbandona la natura matematica, come peraltro aveva già indicato Platone quando ammetteva l’esistenza dei numeri matematici, dei numeri ideali – l’unità, la dualità… – e dell’Uno e della Diade in quanto principi. Però, in seguito, per i pitagorici presero valore due nozioni diverse: da un lato quella di monade e dall’altro quella di unità. La prima «era considerata come appartenente all’ambito degli intelligibili, l’unità invece all’ambito dei numeri».

    In verità questi filosofi non avevano una chiara percezione della differenza ontologica fra il materiale e lo spirituale, e fra il concreto e l’astratto, e quindi il contatto fra le due dimensioni non appariva né difficile, né problematico. Del resto i pitagorici erano convinti che i numeri fossero spazialmente estesi e si trovassero nelle cose «come elementi, e tutto quanto l’universo fosse armonia e numero». Leibniz, invece, aveva ben chiara tale differenza, ma cercò di ridurla a partire dal concetto di spazio e tempo. Questi sono da lui ridotti a fenomeni, ossia al contributo che ogni soggetto pensante apporta alla percezione della realtà, e per tale motivo non stanno dalla parte degli oggetti ma dei soggetti.

    Anche qui la philosophia perennis, ossia la tradizione filosofica, offriva a Leibniz una legittimazione ex auctoritate nella figura di Aristotele, il quale introduceva l’anima numerante come essenziale alla definizione del tempo – «in assenza dell’anima necessariamente non esisterebbe il tempo» – e ne riscontrava la prova nel fatto che il tempo è ovunque uguale, condizione che non si verificherebbe mai nella dimensione dei sensi.

    La medesima condizione si dà anche nello spazio. Se questi due enti dipendono da noi si possono anche eliminare dal teatro della natura sensibile senza che nulla realmente cambi e si può avvicinare la natura alla realtà immateriale e intellegibile. I principi delle cose sarebbero allora unità di energia semplice: quelle che Leibniz chiamava monadi, cioè realtà unitarie e non composte. Da qui vengono le proposizioni fondamentali della sua Monadologia:

    1. la monade è una sostanza semplice che entra nei composti; semplice cioè senza parti;

    2. è necessario che ci siano sostanze semplici, poiché esistono delle sostanze composte: il composto, infatti, è un ammasso o aggregato di semplici;

    3. ora, dove non ci sono parti, non è possibile né estensione né figura né divisibilità. Le monadi sono dunque i veri atomi della natura: in breve sono gli elementi delle cose.

    Il pensiero corre inevitabilmente agli atomisti dell’antichità, Leucippo e Democrito, e inoltre a Epicuro. Leucippo per salvare i fenomeni che Parmenide aveva negato tradusse la coppia essere non-essere nella coppia pieno-vuoto, e nel contempo, proprio per la presenza del vuoto, moltiplicò l’essere in una serie di enti «invisibili per la piccolezza del loro volume» e indivisibili in quanto sono l’assolutamente pieno e quindi non scomponibili in parti.

    Avendo intorno il vuoto che li separa l’uno dall’altro gli atomi si muovono di moto proprio e così generano le cose collegandosi e intrecciandosi e possono dare luogo alla distruzione separandosi. «Dunque, la generazione e la disgregazione sarebbero due processi che si compiono e mediante il vuoto e mediante il contatto», in una forma strettamente meccanica.

    Tuttavia, come osserva un grande studioso del primo atomismo, Vittorio Enzo Alfieri, Democrito quando doveva designare l’atomo – che in greco ha forma di aggettivo nel significato di «ciò che non si può dividere» – spesso lo attribuiva al sostantivo idea:

    «IN CHE SENSO IDEA, IN CHE SENSO VISIBILE [IDEIN IN GRECO SIGNIFICA VEDERE]? VISIBILE, EVIDENTEMENTE, SOLO ALLA VISTA DELL’INTELLETTO: L’INTELLETTO ASTRATTO, CHE PARTE DAL VISIBILE CORPOREO SPINGENDOSI FIN DOVE I SENSI NON POSSONO ARRIVARE PIÙ E TROVA IL SUO TERMINE D’ARRESTO IN UN MONDO DEPOTENZIATO, CHE È IL CORRISPONDENTE DEL VISIBILE CORPOREO. FORMA È DUNQUE IL VISIBILE GEOMETRICO, CIÒ CHE È VISIBILE ALL’INTELLETTO, MA PUR SEMPRE ANALOGO AL SENSIBILE E PERCIÒ RITENUTO CAPACE DI GENERARE IL CONCRETO SENSIBILE».

    Dunque, anche i primi atomisti, che non disponevano di termini o categorie per designare il mondo spirituale, quando dovevano definire le sostanze semplici costitutive dell’universo ricorrevano a oggetti intelligibili. In questo senso l’atomismo è nato non già come un prodotto dei sensi, ma come superamento del sensismo e l’opposizione verità-apparenza gli fu congenita fin dai tempi di Democrito:

    «DEMOCRITO, TALVOLTA, RESPINGE CIÒ CHE LE SENSAZIONI FANNO APPARIRE: EGLI ASSERISCE CHE, IN QUESTE, NON SI MANIFESTA NULLA DI CONFORME AL VERO, MA SOLO CONFORME ALL’OPINIONE; E AFFERMA CHE LA VERITÀ DELLE COSE DIPENDE DALL’ESSERE DEGLI ATOMI E DAL VUOTO. […] PERTANTO, SECONDO CONVENZIONE È IL DOLCE, SECONDO CONVENZIONE L’AMARO, IL CALDO E IL FREDDO, IL COLORE, MENTRE VERI SONO SOLTANTO GLI ATOMI E IL VUOTO. […] DEMOCRITO IN UN CERTO MODO CONDANNA LE SENSAZIONI IN QUANTO SOSTIENE CHE NOI NON PERCEPIAMO NULLA CHE SIA FERMAMENTE ANCORATO ALL’ESSERE, GIACCHÉ CIÒ CHE È PERCEPITO CAMBIA IN BASE ALLA DISPOSIZIONE DEL NOSTRO CORPO E A QUELLA DI CIÒ CHE ENTRA NEL CORPO O DI QUELLA CHE GLI OPPONE RESISTENZA». [DK 68 B 9].

    Dunque perfino Epicuro, che non era amante delle astrazioni e in generale era un sensista dichiarato, su questo tema non si accontentò dei sensi, e se pure pensava che anche gli atomi come il resto della realtà dovevano essere divisibili in parti, riteneva che queste parti, chiamate minimi, «non fossero uguali a ciò che ha una estensione percorribile» e fossero oggetto di una divisione solamente logica e mentale, ma non fisica e reale.

    L’atomo dunque ha fin dall’inizio una sua vocazione all’idea soprasensibile, se non altro perché contravviene alla regola attestata dall’esperienza che tutte le cose si possono smontare.

    Per tornare a Leibniz, egli approda al traguardo della spiritualità quando definisce le sue monadi come principio di forza e di attività intellettuale, gerarchicamente organizzate, capaci, ciascuna, di percepire e rispecchiare tutto il resto del mondo per dar forma all’armonia prestabilita dell’universo.

    Comunque, con tutte le differenze del caso, l’avventura di Leibniz finì come l’avventura di Plotino, cioè col problema di tutti gli spiritualisti: come spiegare la materia. Al pari di Leibniz, che riconduceva tutto l’universo a un’unica forza di percezione, Plotino aveva ridotto l’universo a un’unica forza di contemplazione che man mano si riduceva di intensità e andava trasformandosi in materia. Oppure, per dirla con Leibniz, man mano che le percezioni si fanno confuse e in malo modo rispecchiano il resto del mondo, ecco che le monadi si manifestano come una massa e sono quindi non più realtà sostanziali, ma dei semplici fenomeni. Si tratta comunque di una degradazione della realtà sia naturale sia cognitiva, la medesima che lamentava Democrito.

    La presenza della filosofia trascorsa – quella del pensiero greco-romano e medievale – in Leibniz non è casuale, ma è voluta nella convinzione che quanto ha valore deve mantenersi nella rivoluzione della scienza e offrirsi a complemento di una verità più piena: non cieca nei fenomeni particolari e non mutila nei principi primi. Del resto la storia della filosofia compresa nel senso di Leibniz mostra linee che si inabissano e riemergono in tempi diversi e spesso molto lontani.

    Non ci sono certificati di decesso in filosofia, sono tutte morti apparenti.

    I temi

    Immagine seguita da didascalia

    Il volto di Gottfried Wilhelm Leibniz ci viene proposto dall’incisore inglese B. Holl in questo ritratto realizzato per il volume The Portrait Gallery of Distinguished Poets (1853).

    SISTEMA ED ENCICLOPEDIA

    Tra i termini più ricorrenti e caratteristici della scrittura leibniziana, spicca il sostantivo sistema. Esso segna la preoccupazione costante, da parte di Leibniz, di portare a ordine unitario e organico i vari elementi delle sue elaborazioni teoriche sulla realtà del mondo, dell’uomo, di Dio (cfr. pp. 61-67, pp. 67-69 e pp. 82-92). Il carattere polivalente ed enciclopedico della sua riflessione si accompagna a un’esplicita tensione all’unificazione sistematica e, perciò, enciclopedica del sapere. Ciò che rischia di apparire persino dispersivo nella vasta e capillare produzione testuale di Leibniz – egli spazia dalla matematica e logica alla fisica e alle scienze naturali, sino alle applicazioni tecnico-ingegneristiche, dalla metafisica alla teologia e alle relazioni interconfessionali tra le Chiese cristiane, sino alla diplomazia internazionale, al diritto e alla storiografia –, dove più che i grandi trattati vediamo privilegiata la forma del saggio breve e schematico, viene riscattato da un’inclinazione costante alla sistematizzazione, per cui enciclopedia e sistema sono due dimensioni complementari e strettamente correlate nella sua grandiosa concezione della realtà, dove nulla, della multidimensionalità dell’esperienza, viene a essere trascurato.

    A questo ideale enciclopedico risponde, quale strumento, la vagheggiata, ripetutamente annunciata e mai conclusa messa a punto della characteristica universalis o di quello che Leibniz chiamò pure l’alfabeto dei pensieri e, con ciò, dello strumento di traduzione logica della descrizione di ogni realtà e possibile situazione (cfr. pp. 55-57).

    Il sistema si realizzò sul piano ontologico metafisico, e come sintesi che ripropongono in forma sistematica il pensiero leibniziano prendono forma e si presentano i due brevi trattati del 1714: i Principi razionali della natura e della grazia e la Monadologia (cfr. pp. 127-139 e pp. 139-161). Di fatto, possiamo riconoscere in Leibniz il momento di prima culminazione dell’aspirazione enciclopedica della modernità in senso logico-ontologico-metafisico e, con essa, della fiducia nella possibilità di una descrizione organica della realtà capace di pervenire alla compiutezza del sistema.

    PRINCIPI

    I principi, o primi principi, o ancora verità prime, per Leibniz, come del resto per la tradizione filosofica di più lungo corso – su questo punto, come su altri, la modernità non ha ancora corroso i guadagni speculativi del pensiero classico e scolastico –, sono le elementari strutture assiomatiche logico-metafisiche che garantiscono rigore e veridicità alla riflessione filosofica, giacché in esse si riducono tutte le verità conseguibili mediante il procedimento argomentativo. Leibniz si riferisce costantemente ai principi logico-metafisici e vi ricorre regolarmente in sede fondazionale del discorso, e il termine va a comporre i titoli dei due densi trattati del 1714 nei quali egli presenta una sintesi organica del proprio sistema: i Principi razionali della natura e della grazia e i Principi di filosofia, cui fu in seguito attribuito il più noto titolo di Monadologia. Nel breve trattato Primae veritates (1686) Leibniz li distingue in:

    1. principio di identità e di non contraddizione;

    2. principio di inerenza del predicato al soggetto («il predicato o conseguente inerisce sempre al soggetto o antecedente»);

    3. principio di ragion sufficiente («nulla è senza ragione», o «nessun effetto è senza causa»);

    4. principio di identità degli indiscernibili («nella Natura non possono esistere due cose singolari differenti unicamente per numero»);

    5. principio di convenienza («il concetto completo o perfetto di sostanza individuale implica tutti i suoi predicati, passati presenti e futuri»).

    Il primo

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