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Montesquieu - Alberto Peratoner
Il filosofo
«I popoli abitanti in luoghi freddi e nell’Europa non mancano certo di coraggio, ma hanno scarsa intelligenza e cognizioni tecniche, perché hanno una vita più indipendente, priva di una guida politica e incapace di imporsi sui vicini. Gli asiatici, invece, sono di animo intelligente e industrioso, ma non hanno coraggio, per cui conducono un’esistenza servile, da succubi. Infine, la stirpe dei greci, per il fatto di occupare le regioni intermedie, assume le qualità degli uni e degli altri: per questo ha coraggio e intelligenza, gode di libertà in uno stato organizzato al meglio».
Il testo potrebbe concludersi così «… dunque il potere deve essere sempre dispotico in Asia, perché se la servitù non fosse estrema si produrrebbe subito una divisione che la natura del paese non può sopportare. Invece in Europa la divisione naturale forma diversi stati di media estensione, nei quali si forma uno spirito di libertà che rende ogni sua parte molto difficile da soggiogare. […] Al contrario regna in Asia uno spirito di servitù che non l’ha mai lasciata».
Se non fosse per la citazione dell’Europa, il testo sembrerebbe parte di un’unica opera, uscito dalla stessa penna. Invece fra la prima e la seconda parte passano quasi due millenni, giacché l’una viene dalla Politica di Aristotele mentre l’altra dalle Riflessioni sulla monarchia universale in Europa di Montesquieu.
Siccome il contenuto del passo citato, nel suo complesso, non esprime una grande teoria, ma più che altro idee generiche che facilmente si traducono in pregiudizi, si potrebbe pensare a una caduta di stile che in ogni tempo della storia prima o poi coinvolge tutti i pensatori. Invece, trattandosi di filosofi di rango, nasconde una lunga trama di pensieri che coinvolge ampi settori della sapienza antica e li lega agli inizi della filosofia. Per questo vale la pena di esplorarla.
Innanzitutto si potrebbe chiedere perché l’opera maggiore di Montesquieu si chiami Lo spirito delle leggi e non semplicemente Le leggi. Per lo stesso motivo – potremmo rispondere – per cui Platone scrisse la Repubblica e poi le Leggi e le tenne due opere ben distinte, alla prima affidando l’essenza dello stato, alla seconda un progetto concreto per la sua realizzazione.
Nella Repubblica si mostra l’azione del filosofo che traduce in forma storica la perfezione dell’anima: come è l’anima buona così dev’essere lo stato in un’armonia fra la parte concupiscibile (istintuale), irascibile (aggressiva) e razionale (intellettiva) dell’uomo, che si ispira alla giustizia. Perciò non è tanto la struttura dello stato a determinare la sua funzione e il suo valore, ma la condizione morale dei suoi cittadini: una società, per quanto primitiva, di uomini per bene (razionali) sarà comunque migliore della più sofisticata società di uomini viziosi (irrazionali). Dunque secondo Platone gli stati hanno una connotazione etica proporzionale alla loro capacità di riprodurre il modello ideale, sicché – e qui non è più Platone che parla, ma lo stesso Montesquieu nel Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri – «esiste in ogni nazione un carattere generale da cui quello individuale è più o meno influenzato; esso si produce […] mediante le cause morali [inclusive delle leggi, della tradizione, dei costumi e delle usanze] […] che contribuiscono a formare il carattere generale di una nazione e determinano la qualità del suo spirito in misura maggiore rispetto alle cause fisiche (climatiche, geografiche, ecc.)».
Immagine seguita da didascaliaL’edizione francese delle Lettres familières à divers amis d’Italie del 1767.
Immagine seguita da didascaliaIl frontespizio di un’edizione del volume secondo de Lo spirito delle leggi pubblicato ad Amsterdam in forma anonima nel 1749.
La ricerca del nostro filosofo sul carattere generale di una nazione è assai più ampia e scientifica di quella di Platone e si trova nella convergenza e nella sintesi di innumerevoli dati empirici riguardanti le condizioni climatiche, geografiche, economiche che possono avere influenza sui cittadini.
Su questa via si era già mosso con rigore Aristotele, come particolarmente si nota nella Politica, VII, 11, dove si forniscono indicazioni sulla locazione ideale delle città al fine di orientare in senso positivo – oltre alla qualità della vita – pure le abitudini, l’indole e perfino la complessione fisica dei cittadini. In questo senso la definizione de Lo spirito della nazione, per così dire, proseguendo la prospettiva empirica di Aristotele, lascia l’ispirazione astratta e teoretica di Platone e accede a fondamenti scientifici e sociologici.
Ma ciò non esaurisce l’influsso dell’antica filosofia.
Uno dei dibattiti più appassionanti fra gli antichi pensatori era quello sull’origine della civiltà e sulla condizione dell’uomo selvaggio. La posizione più rilevante a tal proposito fu quella di Aristotele, che propose la celebre definizione dell’uomo come animale politico nella nota formula che si trova nella Politica: l’uomo è per natura un animale politico e chi non ha città o è una bestia o un dio. Con ciò il filosofo intendeva dire che l’uomo non sa vivere da solo – come sanno fare le bestie o potrebbe fare un dio –, ma solo insieme ai suoi simili in una comunità: insomma è condannato all’aggregazione. Infatti, lo sviluppo nel tempo di questa idea è che all’origine l’istinto di sopravvivenza e la necessità di difendersi dagli animali hanno costretto a vivere in agglomerati sempre più vasti fino alla formazione delle città. La convivenza di molti individui ha richiesto le leggi, e le leggi hanno formato il carattere e la condotta del cittadino. Prima della città c’erano solo esseri antropomorfi
, sicché l’idea, all’apparenza paradossale, che l’uomo – in quanto razionale – sia nato insieme alla città ha, per lo meno, un fondamento storico.
Ma com’era questo ominide
prima di diventare uomo, cioè cittadino? L’immagine del Ciclope descritta da Omero sembrava perfetta per riprodurlo: nessuna qualificazione professionale (non sapeva far niente se non condurre le capre), minimi legami sociali, ateo, corto di cervello e forte di muscoli. E per finire aggressivo e cannibale.
Platone, però, non condivideva questo giudizio sulla figura dei selvatici Ciclopi.
Riconobbe senz’altro che i selvaggi avrebbero condotto una vita quanto mai stentata e precaria, ma ritenne che questo fosse il primo necessario gradino verso la civiltà, alla quale sarebbero giunti agevolmente perché di per sé non erano niente affatto aggressivi. Anzi erano di indole pacifica, per il fatto che essendo in pochi e con tanta terra a disposizione, non avevano alcuna tentazione di ricchezza né possibilità di possesso.
E allora, si chiede Platone, in quel tempo «in cui erano tanto pochi, non saranno stati tutti lieti di vedersi e […] quando si incontravano non sarebbe stato per loro una vera festa?».
Montesquieu conosceva bene tale contrapposizione anche perché era stimolante dal punto di vista sociologico: il selvaggio aggressivo – così come lo concepiva Hobbes con la formulazione dell’homo homini lupus – avrebbe inesorabilmente prodotto un sistema di leggi ma, oltre a esso, anzi al di sopra di esso, avrebbe dovuto adottare un sovrano assoluto per farle rispettare. Al contrario un selvaggio mite e benevolo avrebbe prodotto spontaneamente una società buona
, con saggi amministratori, come del resto prefigurava il modello della Repubblica di Platone. Montesquieu, avversando alquanto le conclusioni di Hobbes, optò per la soluzione platonica (lo stato di guerra non appartiene all’uomo in sé, perché la conflittualità presuppone un vissuto relazionale), ma non alla maniera di Platone, bensì ispirandosi direttamente agli stoici, i quali amavano porre tali problemi a un livello universale e non solamente storico.
«LA LEGGE – DICEVA IL NOSTRO NE LO SPIRITO DELLE LEGGI – È LA RAGIONE UMANA IN QUANTO GOVERNA TUTTI I POPOLI, SICCHÉ LE LEGGI POLITICHE E CIVILI NON DEVONO ESSERE CHE I CASI PARTICOLARI IN CUI QUESTA RAGIONE UMANA SI APPLICA»
come un abito ritagliato su misura di ciascun popolo dalla medesima stoffa. La legge, diceva lo stoico Zenone in Stoicorum veterum fragmenta, I, 62: «è la somma ragione insita nella natura, perfezionata e consolidata dalla mente umana», e quindi ogni legge ha una nobile origine ed è degna di lode. La sua nobiltà consiste nell’essere un’emanazione diretta del principio del logos (ragione) che si diffonde dovunque – in tutte le parti del mondo, e in specie nella storia umana – sotto forma di spirito (pneuma) portatore di vita, ordine e razionalità. Se poi, come è evidente, la razionalità dell’uomo si esalta nel diritto, è certo che nel diritto la tensione del logos è massima. Gli stoici credevano anche che il diritto nascesse direttamente dallo spontaneo e reciproco amore degli uomini, sul quale si imprime il sigillo della natura che gli conferisce stabilità – come, del resto, dà stabilità alle virtù. Ma anche l’istinto sociale trova un fondamento universale nella comunanza benevola e amichevole di tutti gli esseri divini e umani partecipi della ragione, come ben spiega Crisippo nel frammento 129 compreso negli Stoicorum veterum fragmenta, II. A questo punto le società storiche non farebbero che perpetuare questa forma perfetta. Montesquieu a quanto sembra è molto vicino alla sensibilità stoica, e grazie a essa può sensatamente affermare che la giustizia è eterna e non dipende affatto dalle convenzioni umane. Nonostante ciò le leggi dei popoli, quand’anche fossero giuste, sono relative, perché attengono allo spirito di coloro che le propongono e «dei popoli che le osservano». Tuttavia, nel suo pensiero le leggi relative
non portano a una forma di relativismo giuridico perché il legame con la giustizia universale resta indissolubile e le rende solidali fra loro e col tutto.
L’idea stoica che «la legge è sovrana di tutte le cose, divine o umane» trova uno straordinario sviluppo ne Lo spirito delle leggi, laddove si afferma che
«LE LEGGI, NEL SIGNIFICATO PIÙ AMPIO, SONO I RAPPORTI NECESSARI DERIVATI DALLA NATURA DELLE COSE: E IN TAL SENSO TUTTI GLI ESSERI HANNO LE LORO LEGGI: LA DIVINITÀ HA LE SUE LEGGI, IL MONDO MATERIALE HA LE SUE LEGGI, LE INTELLIGENZE SUPERIORI ALL’UOMO HANNO LE LORO LEGGI, L’UOMO HA LE SUE LEGGI».
Rimbalzando da Platone ad Aristotele, da Aristotele agli stoici e perfino al mondo fantastico di Omero, le idee antiche hanno trovato una sintesi preziosa in Montesquieu, nel suo pensiero socio-politico in cui «tocca al potere fermare il potere». Con ciò le nozioni antiche, per merito del nostro pensatore, in alcuni aspetti si ritrovano nella teoria dello stato di diritto che sulla divisione dei tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – si fonda. Si potrebbe anche pensare allo stato di Montesquieu come a una sublimazione della politica costituzionalista di Aristotele – costituzionalista
nel senso che procede soprattutto attraverso l’analisi comparativa delle costituzioni storiche – nella sua appassionata ricerca di una libertà fatta di equilibri, non per fare tutto quello che si vuole, ma «tutto ciò che le leggi permettono».
I temi
Immagine seguita da didascaliaMontesquieu nella copia di un ritratto originale realizzato da Jacques-Antoine Dassier. L’olio su tela, datato 1728, è conservato presso il Museo di Storia di Francia, Reggia di Versailles.
LA LEGGE COME RAPPORTO
E L’IDEA DI RELATIVITÀ GIURIDICA
La categoria di rapporto costituisce una chiave di lettura fondamentale dell’universo giuridico-politico di Montesquieu, tutto concepito come una complessa trama di rapporti, e di fatto si presenta già con sufficiente chiarezza sin dalle Lettere persiane. Nella lettera XXXI, l’autore definisce infatti la stessa giustizia come «un rapporto di convenienza realmente esistente tra due cose», e afferma che «tale rapporto resta sempre il medesimo, qualunque sia l’essere che lo consideri, sia esso Dio, un angelo o infine l’uomo». La stabilità del rapporto pone al riparo l’idea di giustizia da qualsiasi rischio di fraintendimento relativistico, e di fatto Montesquieu afferma che «la giustizia è eterna e non dipende affatto dalle convenzioni umane; e, se ne dipendesse, sarebbe una tremenda verità, che bisognerebbe nascondere a se stessi». La relatività delle leggi è altra cosa, ed esprime, diversamente dalle leggi «generali, immutabili, eterne» dell’ordinamento del cosmo, la variabilità delle leggi volte a «regolare le società umane», in quanto relative allo «spirito di coloro che le propongono e dei popoli che le osservano».
La nozione di rapporto sarà esplicitata nello stesso titolo esteso del De l’esprit des lois, che suona Lo spirito delle leggi, o il rapporto che le leggi devono avere con la costituzione di ogni governo, con i costumi, il clima, la religione, il commercio, ecc. Si noti che il rapporto viene qui a equivalere allo stesso spirito
delle leggi che dà il titolo dell’opera, e di fatto l’esordio del primo capitolo del libro primo del trattato è la definizione delle leggi come «rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose» (cfr. pp. 120 ss.). E lo sviluppo del monumentale trattato consisterà appunto in un’analitica della complessa trama dei molteplici rapporti che le leggi vengono a costituire con le più diverse dimensioni dell’esperienza: «Queste leggi devono essere in relazione con le caratteristiche fisiche del paese; col suo clima gelido, ardente o temperato; con la qualità del terreno, con la sua situazione, con la sua estensione; col genere di vita dei popoli, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori; devono rapportarsi al grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare; alla religione degli abitanti, alle loro inclinazioni, alla loro ricchezza, al loro numero, ai loro commerci, ai loro costumi, alle loro maniere. Infine, esse hanno rapporti fra loro; ne hanno con la loro origine, col fine del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali sono stabilite. È dunque necessario che vengano considerate sotto tutti questi punti di vista. È appunto ciò che mi accingo a fare in quest’opera. Esaminerò tutti questi rapporti: essi, nel loro insieme, formano ciò che viene chiamato lo spirito delle leggi» (cfr. p. 127).
Lo spirito delle leggi, dunque, l’espressione che dà il titolo al capolavoro di Montesquieu, è la trama delle relazioni che istruiscono il complesso legislativo particolare di una qualche unità etno-geo-politico-culturale:
«NON HO SEPARATO LE LEGGI POLITICHE DA QUELLE CIVILI, POICHÉ, SICCOME TRATTO NON DELLE LEGGI, MA DELLO SPIRITO DELLE LEGGI, E QUESTO SPIRITO CONSISTE NEI VARI RAPPORTI CHE LE LEGGI POSSONO AVERE CON DIVERSE COSE, HO DOVUTO SEGUIRE NON TANTO L’ORDINE NATURALE DELLE LEGGI QUANTO QUELLO DI QUESTI RAPPORTI E DI QUESTE COSE».
La nozione di rapporto, che accompagna la riflessione di Montesquieu sin dalle Lettere persiane, trova così, sin dall’esordio de Lo spirito delle leggi, il suo compimento come chiave di volta dell’intera concezione giuridica del pensatore
