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La Tela Strappata: Storie di film non fatti
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La Tela Strappata: Storie di film non fatti

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«Fare una descrizione precisa di ciò che non ha mai avuto luogo è il compito dello storico». La sentenza di Oscar Wilde

guida questa ricostruzione del rimosso del cinema del Novecento, la storia dei grandi film non fatti, dal Don Chisciotte di

Welles al Viaggio di G. Mastorna di Fellini, dal Cristo di Dreyer al Napoleone di Kubrick, dal Que viva Mexico! e Il prato

di Bežin di Ejzenštejn al The Day the Clown Cried di Lewis. E ancora, Godard, Pasolini, Munk, Vertov, Lanzmann: la storia

di grandi progetti incompiuti, di riprese che si sono protratte per decenni e poi sono state dimenticate in qualche magazzino,

immagini rimaste sulla carta oppure riutilizzate, ma al di fuori della loro destinazione originaria. Attraverso questo racconto,

emerge il profilo di quello che il Novecento non ha saputo vedere e raccontare, il retro della Storia, nonché il profilo di

una storia delle immagini del cinema che disloca la centralità della sala cinematografica per far emergere i meccanismi di

negoziazione e i doveri d’autore che preludono alla visibilità o alla scomparsa di tali immagini perdute.
LanguageEnglish
Release dateOct 19, 2016
ISBN9788868223762
La Tela Strappata: Storie di film non fatti

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    Book preview

    La Tela Strappata - Alessio Scarlato

    Collana diretta da

    Roberto De Gaetano

    ALESSIO SCARLATO

    LA TELA STRAPPATA

    Storie di film non fatti

    Prefazione di
    Pietro Montani

    Frontiere. Oltre il cinema

    Collana diretta da Roberto De Gaetano

    Comitato scientifico

    Gianni Canova, Francesco Casetti, Ruggero Eugeni, Pietro Montani, Dork Zabunyan

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2016

    ISBN: 978-88-6822-376-2

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    a Emma

    Prefazione

    La Storia nei film non fatti

    Fa bene Alessio Scarlato ad aprire la sua originale e informatissima ricognizione sulla storia di alcun grandi film non fatti (o incompiuti) con una descrizione accurata della breve sequenza in cui Don Chisciotte, Sancho Panza e Dulcinea si ritrovano non si sa come in una sala cinematografica durante la proiezione di un film storico o mitologico – un peplum, suggerisce l’autore. La sequenza, ben nota, fu girata da Orson Welles per il più importante tra i suoi film non realizzati e tutti ricordiamo come va a finire: l’impavido cavaliere raggiunge lo schermo, dove è in atto una concitata battaglia, e a colpi di spada lo riduce in mille pezzi nella convinzione, si deve supporre, di dover difendere il pubblico in sala, o l’intera umanità, dall’ennesimo sopruso perpetrato da quegli uomini armati che minacciano di fare irruzione nel mondo vero. Di più non ne sappiamo, perché la sequenza finisce così, dopo appena cinque minuti, e inoltre, dettaglio notevole, è priva di sonoro, e anzi sembrerebbe addirittura girata nello stile dei film muti. Nel senso che sono numerosi gli scambi comunicativi tra i personaggi presenti in scena, solo che essi avvengono senza l’ausilio del parlato, come se tutti fossero consapevoli di non poter far uso della parola per dirsi quel che c’è da dire. Già, ma che cosa ci si dovrebbe dire in una sala cinematografica?

    Prendiamo l’incantevole dialogo gestuale tra Sancho e Dulcinea (un’intraprendente biondina con le trecce, poco più che una bambina), che Welles ha girato con una cura evidente e non casuale. Intanto, come ho già detto, è un dialogo totalmente privo di parole, come se Dulcinea, che prende l’iniziativa, si fosse già convinta che Sancho non parla la sua lingua, o non ne parla alcuna. Così gli si rivolge a gesti e che cosa fa? Gli insegna come ci si comporta al cinema con poche efficaci istruzioni, che Sancho fa immediatamente sue mostrando un’elevata ricettività. Sono bastati pochi secondi e Sancho si è già tolto l’ingombrante berretto, ha imparato a scartare e a usare nel modo appropriato un lollipop (che non si addenta ma si lecca, gli ha fatto capire Dulcinea) e a divertirsi come un ragazzino alle scene che sta guardando e che immaginiamo, almeno in quella fase della proiezione, come scene molto animate e probabilmente comiche.

    Mi piacerebbe interpretare questo rilevante frammento della nostra sequenza come l’esposizione della messa in fase, per così dire, della macchina cinematografica e dell’esperienza complessiva che vi si configura. C’è qualcuno – Sancho, nella fattispecie – che deve imparare di che cosa si tratta e che lo fa in modo così rapido e spontaneo – a cominciare dai preliminari: prendere posto, prestare attenzione ai diritti di chi siede dietro, scartare una caramella adatta all’accompagnamento della visione –, che nel momento in cui il suo sguardo si rivolge allo schermo è come se quel che vi compare non dovesse produrre nient’altro che una sonora e partecipe risata e il novizio fosse già diventato a tutti gli effetti uno spettatore esperto. Vale a dire uno che ha immediatamente capito le regole del gioco, le ha introiettate e si è messo in condizione di trarne un congruo godimento. Dove congruo significa questo: che, finita la scena comica, leggiamo ora sul volto di Sancho e di Dulcinea un subitaneo mutamento di espressione – dal divertimento all’allarme – dovuto, si suppone, al fatto che c’è stata una svolta nel racconto presentato sullo schermo e che ora si impone a chi assiste allo spettacolo una diversa partecipazione emotiva, un modo diverso di abbandonarsi al flusso narrativo.

    E Don Chisciotte? In questo frangente lo abbiamo visto seduto in disparte, con un’espressione attonita e impettita. Sappiamo già che cosa sta meditando. Proverei a descriverlo in questo modo: sta meditando di disarticolare l’intera macchina alla cui messa in fase hanno così efficacemente accudito Dulcinea, la maestra, e Sancho, il solerte e partecipe allievo. Non solo, dunque, il gioco della finzione e della realtà, e lo scambiare l’una per l’altra, ma l’intero dispositivo che, appunto, dispone un tale gioco e lo articola dettandone le regole e le strategie. Vorrei anche suggerire che sullo sfondo di questo progetto di disarticolazione complessiva la mancanza della parola parlata rafforza il suo peso specifico. Sarei addirittura incline a dire che è il cinema muto che Chisciotte, il più letterato tra gli eroi romanzeschi, va a colpire, nella più grande disperazione del povero Sancho, che si riscopre inchiodato alla coazione a ripetere dell’implacabile cavaliere proprio nel momento in cui si stava godendo una nuova forma di loisir. È l’immediatezza comunicativa di questo cinema, infatti, è il rapido e fisiologico apprendimento per ostensione delle sue facili regole ciò che a quanto pare dev’essere fatto a pezzi e messo a morte come se fosse questa la vera finzione da combattere: una scena sommamente illusionistica, priva di ogni mediazione linguistica.

    Sono convinto che non sia affatto un caso che per noi, oggi, la lettura che ne ho appena proposto renda il comportamento iconoclasta di Don Chisciotte così simile a quello di chi depreca la fine della cultura letteraria (della Galassia Gutenberg) ad opera della cultura iconolatrica della rete e ne denuncia i gravissimi danni che immancabilmente ne conseguiranno. Non sto dicendo, è ovvio, che Orson Welles avesse avuto in mente una cosa del genere – anche se forse un’allusione beffarda agli anatemi dell’industria culturale il meno adorniano tra i grandi registi l’avrà ben messa in conto. Sto dicendo che una cosa del genere è comunque presa di mira o intesa da quella sequenza; che una cosa del genere si colloca nel suo ambito intenzionale impersonale e anacronico. E che questo ambito impersonale, questa plasticità sovratemporale, assume a quanto pare nei film non girati o incompiuti una particolare ed enigmatica vitalità su cui il libro di Alessio Scarlato non smette di richiamare l’attenzione.

    Proverei a trarne questa conclusione che forse si può generalizzare e riferire ai grandi film non fatti come una sorta di principio occulto che ne spieghi, almeno in parte, insieme al fallimento e all’intrattabilità anche l’energia e la singolare plasticità. È la disarticolazione violenta di un complesso dispositivo simbolico ciò che prima ancora di decretarne l’infattibilità si costituisce come il fondamento e la primaria – e forse oscura o inconscia? – ambizione dei grandi film non fatti. In un modo o nell’altro questi film avrebbero lavorato contro il cinema – o meglio: contro la forma istituzionale e contro gli automatismi culturali assunti di volta in volta dal cinema nel corso della sua ancor breve esistenza. Perché dev’essere ben chiaro che il cinema in quanto tale, il cinema nella sua essenza, contiene già all’origine il movimento che lo conduce asintoticamente verso la sua stessa, costante disarticolazione. E che gli autori di cinema, o almeno alcuni grandi, si sono fatti di tempo in tempo interpreti a tal punto radicali di questa esigenza di rinnovamento da averla vissuta nella forma canonica del fallimento. Spesso del fallimento prolungato.

    Credo che l’importante saggio di Alessio Scarlato presenti ed esponga in modo al tempo stesso rigoroso e avvincente proprio una tesi come questa, e che ne sottolinei in modo del tutto particolare un aspetto decisivo: il rapporto problematico tra il cinema e la storia. Non si tratta solo, dunque, di una storia dei film non fatti, ma anche – e forse soprattutto – della Storia nei film non fatti. La Storia in quanto forza motrice, principio costruttivo e contenuto documentale di quella disarticolazione del dispositivo che starebbe alla base dei film non fatti in quanto sta alla base, come ho già suggerito, del cinema in quanto tale, del suo essersi costituito come uno strumento e un veicolo di attestazione storiografica bisognoso di riscrivere continuamente le regole del gioco.

    Era questo, del resto, l’assillo di J.-L. Godard, puntualmente ricordato ed esemplarmente commentato da Scarlato nell’ultimo capitolo del libro. Nel quale la vicenda storica che il cinema non sarebbe riuscito a raccontare, essendogliene forse mancata la regola giusta, è quella dei campi di sterminio. Ma è anche la vicenda storica della doppia visione, prospettica e retroattiva, che si impianta come un obbligo sull’orrore dei campi di sterminio e delle sue immagini, esistenti o distrutte, rielaborate o rimosse. Nel senso che da quella cesura in poi nessuna immagine avrebbe più potuto dirsi estranea al compito (al dovere d’autore dice Scarlato) di assumere nel suo medesimo processo generativo la cura di quella impervia testimonianza, o almeno qualche sua traccia o segno. Ma anche nel senso che da quella cesura lo sguardo rivolto indietro, lo sguardo rivolto alla storia speciale del cinema, sarebbe diventato anche uno sguardo rivolto alla disarticolazione della comprensione convenzionale della storia (la storia dei vincitori, di cui parlava Walter Benjamin) quale è stata possibile nel cinema e grazie al cinema. E segnatamente in alcuni grandi film non realizzati o incompiuti.

    Sotto questo profilo, lo sguardo stralunato e straniante di Don Chisciotte e quello meticolosamente e visionariamente decostruttivo di Godard circoscrivono l’orizzonte nel cui ambito la comprensione storiografica e critica dei film non fatti o incompiuti diventa, alla lettera, una ricostruzione della Storia nell’ottica disarticolante di quel modo d’essere del cinema che non ha mai assunto, né in ultima analisi avrebbe potuto pienamente assumere, la dimensione del film finito, dell’opera chiusa e magari benedetta da un final cut d’autore.

    In questo orizzonte originalmente storiografico – e si tratta precisamente della benjaminiana storia spazzolata contropelo, come ricorda l’autore, e dell’invenzione delle sue regole ogni volta diverse – vanno dunque collocati tutti i film e tutte le attentissime analisi distribuite nei quattro capitoli di questo libro i quali conducono, in un percorso improntato a una temporalità non cronologica, da Chisciotte a Godard, passando via via per Ejzenštejn e Vertov, Dreyer e Kubrick, Buñuel, Pasolini, Fellini e altri ancora. Ma vi va anche collocata – non ultimo pregio del saggio – una comprensione complessiva della macchina cinematografica (del cinema, ho appena detto, e non di questo o quel singolo film) che ci aiuta a capire meglio la sua condizione presente, e in particolare la sua ormai definitiva disseminazione mediale rispetto all’istituto della sala, con le sue specifiche strategie, e la sua capillare riorganizzazione su basi sempre meno finalizzate al prodotto finito o alla chiusura testuale dell’opera. E penso ai fenomeni del riuso e del rimontaggio, del found footage e del mash-up grazie ai quali la questione stessa dei film non fatti assume di colpo una nuova fisionomia che, a conferma dell’intera curvatura teorica di questo libro, si apre in modo profondo e non avventizio a una ricomprensione epocale dell’essere storico delle immagini prodotte tecnicamente.

    Pietro Montani

    Introduzione

     Quattro storie

    Fare una descrizione precisa

    Di ciò che non ha mai avuto luogo

    è il compito dello storico

    Oscar Wilde

    Una scena dimenticata (dal Don Chisciotte)

    Un uomo di mezza età, tarchiato, la barba non rasata e i vestiti logori da contadino, si aggira con lo sguardo all’interno di un’ampia sala da teatro. Quello sguardo è ricambiato da una ragazza appena adolescente, i modi leziosi, le trecce bionde che le cadono ai lati della testa, un vestito da scolaretta, mentre gioca con un leccalecca. La ragazza si volta dall’altro lato, verso un signore magrissimo, con l’armatura da cavaliere, la barba appuntita, gli occhi sporgenti e impietriti, rivolti verso un punto di fuga ancora diverso. La ragazza mostra sorpresa e si rigira verso il contadino, che cerca di richiamare l’attenzione del cavaliere fischiando, attirandosi i rimproveri degli altri spettatori. Il contadino va allora a sedersi accanto alla ragazza, che gli offre un altro leccalecca. Il cavaliere è sempre impietrito, lo sguardo fisso, mentre la ragazza e il contadino guardano verso lo stesso punto di fuga del cavaliere, passando in pochi istanti dalla curiosità alla commozione al divertimento. La ragazza è più interessata alle reazioni del contadino e del cavaliere, piuttosto che a quello che sta accadendo in scena. La ragazza e il contadino applaudono, mentre il cavaliere si alza, si muove con furia verso quel punto di fuga che ora finalmente si rivela. È la tela sulla quale si proiettano delle immagini. Gli spettatori della sala non stanno assistendo a una rappresentazione teatrale, ma cinematografica.

    Le scene sullo schermo non sono chiare. Inquadrati dal basso, si riconoscono dei cavalli correre in direzione frontale, come se stessero per uscire dallo schermo. Il cavaliere ha tirato fuori la spada, si abbassa per evitare di essere travolto dagli zoccoli dei cavalli. Il contadino e la ragazza lo guardano preoccupati, mentre la sala rumoreggia, si alza in piedi per insultarlo. I bimbi ridono. Il film che si sta proiettando sembra essere uno di quei peplum di moda negli anni cinquanta. Lo schermo proietta un combattimento di cavalieri, a cui a sua volta assiste una donna piacente, con l’abbigliamento di una nobile della Roma imperiale. Il cavaliere partecipa alla battaglia e con la spada muove fendenti alla tela. La sala rumoreggia sempre di più, tutti si sono alzati dai propri posti e si accalcano, mentre il contadino è sempre più preoccupato. Quasi come un lampo, mentre il cavaliere sta continuando a squarciare con la spada la tela, appare sullo schermo Gesù crocefisso o comunque qualcuno che lo ricorda. Oramai tutta la parte centrale della tela è stata strappata e al posto delle immagini c’è il nero del fondale e quindi il retro della tela, con i diffusori sonori esposti. La sala è in preda all’isteria e al riso, mentre la ragazza guarda il cavaliere con occhi stupiti, quasi incantati. Finalmente il cavaliere si volta verso la sala e sospira, esausto.

    Questa sopra descritta è una sequenza girata negli anni cinquanta da Orson Welles per il suo progetto incompiuto, Don Chisciotte, al quale si è dedicato per più di trent’anni. Tale sequenza dura poco meno di cinque minuti, è in bianco e nero, e per essa non è stato editato alcun sonoro. Non è presente nel montaggio realizzato da Jesús Franco nel 1992 per l’Exposición Universal di Siviglia. È una sequenza dimenticata all’interno di un film mai completato e che già durante la sua lavorazione assunse il carattere di un film interminabile. Ma sono immagini facilmente rintracciabili sulla rete di Internet, a volte sonorizzate nei modi più lontani dalla natura originaria del progetto e, come spesso accade a causa delle controversie legate alla titolarità del diritto di uso delle immagini, scompaiono o riemergono ciclicamente.

    Vi sono sguardi diversi in quella sala, quelli ilari dei bimbi e quelli rabbiosi degli adulti, a cui è stato sottratto il divertimento che nasce dall’incanto. Gli sguardi dei tre personaggi, Don Chisciotte, Sancho Panza e Dulcinea, oscillano tra la curiosità distratta, quella dello spettatore di stampo benjaminiano che non ha più timore reverenziale verso immagini che lo devono sapere attrarre, far riflettere, o anche soltanto divertirlo, e l’attenzione religiosa che concentra in modo ossessivo l’occhio verso una visione trattata in modo rituale, così che il corpo di essa non possa essere ridotto a fantasma o incantesimo, ma sia inteso come cosa reale, come presenza con la quale interagire, anche combattendo, anche usando la violenza della spada. Questa geometria di sguardi tra Sancho, Dulcinea e Don Chisciotte non si limita a tale oscillazione. Ognuno dei tre, oltre a guardare verso quella tela cinematografica, guarda ed è guardato dagli altri. Anche Don Chisciotte, che dopo aver concentrato la propria attenzione verso quella cosa reale, si è girato e ha guardato sospirando gli spettatori in platea e la stessa Dulcinea. Ogni sguardo costruisce un percorso di proiezioni non soltanto rispetto all’immagine, ma anche rispetto agli altri spettatori.

    Don Chisciotte crede che quella cosa sia reale e, in quanto scena di un martirio sacrificale, di una battaglia di armi (i cavalieri) e di seduzioni (la nobile), partecipa a quella battaglia. Nel farlo, squarcia quella scena così composita, contraddittoria, incredibile, in cui convivono seduzioni, battaglie, crocefissioni, in cui sono montati tempi e spazi lontani. Ma la stessa contraddittorietà anima del resto la scena in platea, scena nella quale convivono le armature di un cavaliere del XVI secolo e i vestiti dal taglio elegante di un europeo di metà del Novecento. Don Chisciotte, tagliando lo schermo, ci permette di vederne il retro, il nascosto, finanche il rimosso; lascia scoperta l’impalcatura perché quella tela possa reggersi, perché quell’immagine possa offrirsi.

    L’oceano dei film non fatti non è soltanto spazio da annettere alla terra dei film visibili[1]. Non va a ricomporre una totalità compiuta, un racconto unitario. Piuttosto invita a una contro-storia, a una storia del rimosso, del sommerso, in cui le istanze (tecniche, economiche, politiche, poetiche) non sono riuscite a trovare una negoziazione. Non è una storia cronologica, non è una catena evolutiva di correnti espressive, di tecniche, di opere che hanno manifestato il logos del proprio tempo. È una storia di immagini sommerse che, fuori dal proprio tempo, fanno emergere la miseria che spesso segna il fallimento quel lavoro di negoziazione, o che sono sopravvissute per il proprio splendore. Come è accaduto con la scena wellesiana di Don Chisciotte in guerra con la tela del cinema. Per raccontare quella miseria, quello splendore, lo storico-archeologo dovrà da una parte dotarsi di uno sguardo minuzioso, dovrà prestare attenzione a quei dettagli materiali che hanno impedito la composizione delle diverse istanze produttive in un’opera da distribuire nelle sale. Al contempo, sarà necessario immaginare, anche oltre i dettagli materiali, oltre il fascino dell’aneddoto. Il testo da commentare non è qualcosa che è già dato, ma è invisibile, è fantasma che prende corpo e si costruisce attraverso il racconto del proprio fallimento. Le immagini del cinema vanno oltre il confine buio della sala cinematografica. Raccontare questo oceano sommerso ci permette di indagare il rimosso, il retro del dispositivo cinematografico, nonché dei modi con cui raccontiamo la Storia.

    Il retro del cinema (inseguendo Dulcinea)

    «Il film si potrà concludere quando vorrò io. L’ho finanziato integralmente io stesso. Nessuno ha il diritto di scocciarmi per questo motivo. Uno scrittore non viene obbligato a finire un libro se ha voglia di interromperlo per un certo periodo… Ci sono dieci film differenti in questo film. E non so se l’originale esiste ancora…»[2].

    Welles aveva iniziato a lavorare intorno al Don Chisciotte a metà degli anni cinquanta. È stato l’unico a partecipare a tutte le fasi del progetto. Lo chiamava «il mio bambino». Già a Parigi, dopo aver concluso le riprese di Rapporto confidenziale, aveva girato alcuni provini con uno degli interpreti del film appena concluso, Mischa Auer, e con Akim Tamiroff, nei ruoli di Don Chisciotte e Sancho Panza. Riprende il progetto quando Sinatra, padrino della figlia, paga una scommessa perduta a Las Vegas con il regista, mettendo a disposizione 100.000 dollari per produrre un programma televisivo di 30 minuti basato sul Don Chisciotte. Welles inizia a girare senza alcun piano di produzione. Nel ruolo di Sancho rimarrà Tamiroff, con il quale aveva appena girato L’infernale Quinlan, mentre sostituisce Auer con un attore spagnolo settantenne esiliato dal regime franchista in Messico, Francisco Reiguera, la cui figura alta, disarticolata, dai movimenti sgraziati e con gli occhi fuori dalle orbite si adatta all’immagine tradizionale di Don Chisciotte. Per il ruolo di Dulcinea sceglie invece una giovanissima Patty McCormack, appena dodicenne nel 1957. Il film sarebbe cominciato con Welles che raccontava la storia a una piccola ragazza, Dulcie, una turista americana ospite con la sua governante a Mexico City: la voce del demiurgo, che dà vita alla verità di una finzione, secondo i modi che, trasposti dall’attività radiofonica, Welles ha spesso riportato nel suo cinema. Quella voce demiurgica avrebbe introdotto quindi Dulcie nel racconto stesso, immaginandola nel ruolo di Dulcinea di Toboso. Il cavaliere e il suo scudiero avrebbero attraversato non la Spagna del XVI secolo, ma la contemporaneità, e le loro avventure sarebbero state intercalate dal commento/dialogo di Welles con Dulcie/Dulcinea. La dimensione demiurgica di questa voce continuerà ad affermarsi, quando Welles registrerà i dialoghi per il Don Chisciotte. Era lui stesso a leggere le due voci di Don Chisciotte e Sancho Panza, recitandole con accenti diversi, un elegante inglese shakesperiano per il cavaliere e un popolare accento americano per il suo scudiero. Li recitava senza vedere le immagini e i movimenti labiali degli attori, stabilendo così egli stesso il ritmo da imprimere al montaggio. È durante il soggiorno messicano che gira la sequenza della tela strappata, rielaborazione del capitolo 26 della seconda parte del romanzo, in cui Don Chisciotte assaliva un burattinaio e ne distruggeva il teatrino.

    Pur avendo girato molto, le riprese messicane non sono sufficienti, ma Welles può tornare a dedicarsi al «suo bambino» soltanto nel 1959, quando oramai McCormack è quattordicenne e il suo aspetto è mutato rispetto a due anni prima. Welles per molto tempo pensa di poter ripetere la soluzione pensata per il suo Otello, integrando a quelle messicane nuove sequenze girate con un’attrice diversa, somigliante alla McCormack. Durante gli anni sessanta, Welles insegue Dulcinea, indeciso se cercare di conservare quel girato messicano, oppure ripensare alla radice l’articolazione narrativa del film. Sembra illudere/si, quando ciclicamente ripete che per terminare il film serve soltanto una sequenza. All’inizio è quella conclusiva, che sarebbe dovuta essere un’esplosione atomica. Poi è quella della festa in maschera nella quale il Duca, per prendersi gioco di Don Chisciotte, nominava Sancho Panza governatore dell’isola. Questa festa in maschera era all’interno di una sezione del romanzo di Cervantes, i capitoli 30-53 della seconda parte, tra i più sottili nel gioco di sovrapposizione di realtà e finzione, perché le vicende prendevano le mossa dalla consapevolezza del Duca e della Duchessa di trovarsi di fronte ai personaggi narrati in un romanzo intitolato Il fantastico cavaliere Don Chisciotte della Mancia. Welles immagina questa festa come apertura del film, a sostituire il dialogo tra se stesso e Dulcie/Dulcinea: il cavaliere e il suo servo, scambiati per maschere e ricevuti i complimenti per la perfezione del travestimento, si sarebbero rivelati come gli autentici Don Chisciotte e Sancho Panza, suscitando l’ilarità dei presenti. Più tardi, negli anni settanta, Welles di nuovo ripete che per completare il film manca da girare soltanto una sequenza finale, questa volta Sancho Panza che osserva alla televisione un evento contemporaneo sconvolgente, come per esempio sarebbe potuto essere in quei mesi lo sbarco sulla Luna.

    Welles durante gli anni sessanta finanzia autonomamente il Don Chisciotte, che assume i contorni dell’home movie, girato con pochi mezzi e una troupe di poche persone, per il quale il regista non vuole essere sottoposto ad alcun condizionamento, che sia quello di un produttore, che sia quello stesso di uno spettatore. Con una battura fulminante, Truffaut disse che l’unico spettatore che Welles immaginava per il suo Don Chisciotte era sé stesso.

    Per poter vedere il proprio film miraggio, Welles si impegna in attività disparate. Nel 1959, all’epoca del matrimonio con Paola Mori, accetta il ruolo di Saul nel peplum biblico Davide e Golia, per il quale dirigerà, non accreditato, alcune sequenze. Con i soldi guadagnati continua le riprese del Chisciotte a Menziana, vicino la capitale. La mattina lavora al Chisciotte, quindi nel pomeriggio torna a Roma per lavorare nel Davide e Golia. L’anno seguente, sempre d’estate, girerà in Italia alcune scene senza attori, mentre è impegnato come attore nelle riprese de I Mongoli. Nel 1962, Welles propone successivamente alla Rai una serie televisiva, Nella terra di Don Chisciotte, con cui ha la possibilità di reperire nuovi fondi e al contempo di percorrere la Spagna indagandone più attentamente la fisionomia profonda. Ne uscirà fuori un documentario in nove capitoli di mezzora, per cui Welles non aveva previsto una voce narrante, che sarà aggiunta nell’edizione apparsa sulla televisione italiana tra il 1964 e il 1965[3]. Durante questi anni, Welles gira perlopiù il Chisciotte ad agosto e settembre, quando appaiono nel cielo quelle caratteristiche nuvole a cumulo, che sono il motivo iconografico dominante del film. Torna in Spagna per le riprese di Falstaff, tra il 1964 e il 1965, e continua a girare per il Don Chisciotte. Come continuerà a girare in Italia nel 1969, a Civitavecchia. Ma nel novembre di quell’anno muore Reiguera, a cui segue nel 1972 la morte di Tamiroff. Welles ancora cerca una nuova attrice per Dulcinea, ma quello che potrà fare da lì in avanti sarà montare e rimontare il materiale girato tra il 1957 e il 1969. Inizia a lavorare con Welles, come assistente al montaggio, l’allora ventenne Mauro Bonanni. La collaborazione dura fino al marzo del 1970, quando il regista decide di lasciare l’Italia, infuriato per le rivelazioni scandalistiche che riguardano il tradimento nei confronti della moglie Paola Mori e l’inizio della sua relazione con Oja Kodar. Welles lascia in custodia per qualche mese il materiale a Bonanni, per poi far ritirare la copia-lavoro, ma non il negativo, dalla figlia Beatrice. Il materiale aveva un sistema di catalogazione difficile da intendere per estranei, perché basato non sulla sequenza numerica ma sul nome delle sequenze, spesso brevi, di pochi minuti. Un sistema che Welles aveva escogitato anche per rendere impossibile che qualche produttore rimontasse il suo materiale, come era accaduto con tanti suoi film, anche con quell’Infernale Quinlan con cui sperava di rilanciare la propria carriera hollywoodiana e che gli sarà di nuovo sottratto; proprio in quei mesi di quell’ennesima delusione, decide di dedicarsi al «proprio bambino». Alcune sequenze andavano ridoppiate o risincronizzate, non c’era una colonna sonora. Nel complesso il girato conduceva a un film di

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