The pandemic and lockdowns have driven a collective desire to place artworks in a shared public dimension
L’arte che fuoriesce dai recinti istituzionali di musei e gallerie per irrompere negli spazi pubblici e nella vita d’ogni giorno delle persone non è certo cosa di oggi. Un insuperato modello storico è il festival del Nouveau Réalisme che, nel 1970, ha portato, tra gli altri, Christo a impacchettare a Milano i monumenti di Leonardo, in piazza della Scala, e di Vittorio Emanuele, sul sagrato del Duomo, e Jean Tinguely ad allestire una gigantesca scultura fallica e pirotecnica, sempre sul sagrato del Duomo. Un’esperienza gioiosa, democratica nelle intenzioni, che lasciò il grande pubblico indifferente, perplesso o, addirittura, scandalizzato. Oggi, allo scadere del secondo anno di pandemia, sono le persone che compongono il pubblico di musei, ma anche di cinema e teatri, a chiedere che i linguaggi artistici punteggino la loro quotidianità, arricchendola.
L’arte “sotto casa” verrà considerata un servizio ambito come un ufficio postale o la fermata della metro? Intanto, c’è senz’altro un gran desiderio di “prossimità culturale” che aleggiava già prima della pandemia e che i lockdown, con le chiusure dei luoghi deputati, hanno