Nel Seeondo dopoguerra, in Italia, la ricostruzione non fu solo materiale, ma coincise anchecon la costruzione di una nuova identità, cui i musei fornirono un contribute sostanziale. Nell'ampio decennio compreso tra le ultime battute degli anni Quaranta e gli anni Sessanta, il nostro Paese contribuì in maniera originate a una riforma museografica che corroborò il passaggio dalla dittatura alla democrazia, da una concezione elitaria del museo a una sua reinterpretazione in chiave di accesso popolare.Carlo Scarpa, Franco Albini, Luigi Caccia Dominioni e i BBPR elaborarono indicazioni calzanti sulle direzioni da intraprendere nell'ambito di un programma ambizioso, anche se limitato a casi esemplari di riutilizzo e di riscrittura di edifici storici e strutture esistenti.
Proprio per questo, però, si percepiva nelle loro proposte l'urgenza di un “fare nuovo”, anzi, ‘moderno’, che apriva la porte del museo alla nuova arte che avrebbae caratterizzato la ripresa del marchio Italia nel mondo: l'industrial design. La rivoluzione illuminotecnica - dai lucernai inserlti nei vecchi tetti ai nuovi dispositivi industriali messi al servizio del design - sfatava l'uggia dell'eterna penombra di sale e gallerie, mentre sedie e divani - forniti dai cataloghi dell'industria del mobile - facevano con discrezione comparsa negli spazi di sosta, sovrapponendo alla tradizionale immagine del luogo d'arte quella domesticità dei salotti delle abitazioni borghesi. Si trattava infatti. per usare le parole di Ernesto N. Rogers ( 211,1956), di mostrare al pubblico una nozione dei musei come “organismi architettonici concepiti per conservare i documenti dell'esperienza storica non come cose mode