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La Giungla nell’Anima: una storia vera
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La Giungla nell’Anima: una storia vera
Ebook327 pages5 hours

La Giungla nell’Anima: una storia vera

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About this ebook

Roxana D. è una paratleta, una modella e una combattente infaticabile. La Giungla nell'Anima è il suo libro di memorie che ci trasmette una visione cruda e senza filtri della sua vita: partendo da un'infanzia di indigenze in Romania, attraverso tutti gli eventi traumatici subiti, fino al percorso di autoscoperta iniziato con il tragico incidente che l'ha paralizzata dalla vita in giù.

La Giungla nell'Anima non è una storia per chi è debole di cuore: la schiettezza di Roxana sulla sua infanzia e il suo vissuto di abusi colpisce come un pugno allo stomaco, costringendoci a rivedere le nostre priorità e la nostra visione sul mondo. È un libro che apre gli occhi sulle molte sfide che ogni donna, nonché ogni persona diversamente abile, si trova ad affrontare giorno dopo giorno. La storia di Roxana mette in discussione i nostri stereotipi e ci racconta la nuda verità della vita di chi all'improvviso scopre di dovere dipendere, in tutto e per tutto, da una sedia a rotelle.

La Giungla nell'Anima ci accompagna lungo il viaggio che Roxana ha percorso verso la sua ripresa e l'accettazione della sua nuova situazione. È una storia dedicata a chiunque voglia inseguire i propri sogni osservando la vita da un punto di vista diverso, ma è anche una lettura per chi vuole sapere di più sulle sfide quotidiane di una vita da disabili.

Strumento prezioso per chi si trova in un momento di depressione o di scarsa autostima, questo libro fornisce una chiave fondamentale per riuscire a superare i momenti bui e vivere una vita più piena e più felice.

LanguageEnglish
PublisherRoxana D.
Release dateMar 17, 2024
ISBN9798224479528
La Giungla nell’Anima: una storia vera

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    La Giungla nell’Anima - Roxana D.

    La Giungla nell’Anima

    Una storia di dolore, paura e speranza

    Roxana D.

    Traduzione di Barbara Dalla Villa

    © Roxana D. 2021 – Diritti riservati.

    I contenuti di questo libro non possono essere riprodotti, duplicati o trasmessi senza esplicito permesso scritto dell’autore.

    Questo libro è protetto da copyright e si intende per uso strettamente personale. Non è possibile modificare, distribuire, vendere, usare, citare o parafrasare in nessuna delle sue parti il contenuto del presente volume, senza il permesso dell’autore.

    Questa non è un’opera di finzione ma presenta la storia vera e senza filtri di Roxana D. Ci si affida a una lettura consapevole da parte del lettore, poiché sono presenti descrizioni dettagliate di situazioni di vita vissuta e contenuti adatti a un pubblico adulto: episodi di violenza, abusi, uso di sostanze illegali e pensieri suicidi.

    L’autrice ha fatto il possibile per presentare gli avvenimenti in modo delicato, nel rispetto del lettore, e non incoraggia i comportamenti pericolosi o illegali citati nel presente volume. Alcuni nomi sono stati modificati per proteggere l’identità e l’integrità delle persone citate.

    Alla Challenged Athletes Foundation (CAF)

    San Diego, Ca.

    Prefazione

    Vi siete mai chiesti quanta sofferenza, speranza, dolore o amore possano trovare posto dentro un cuore umano? Avete mai pensato alla volontà e alla forza che si possono nascondere nel cuore di una donna che è riuscita a scoprire se stessa e a lottare per i suoi sogni? Avete mai immaginato che aspetto abbia il cuore di una giovane donna che è stata sul crinale tra la vita e la morte, sul confine tra disperazione e beatitudine?

    Il cuore di Roxana è pieno di cicatrici e di ricordi dolorosi che hanno iniziato a lasciare tracce importanti decisamente troppo presto, quando già nella sua infanzia fu segnato in modo indelebile da eventi che la costrinsero a fuggire dalla sua piccola città natale in Romania. È il cuore di un’adolescente diventata madre troppo presto, scoprendo le pericolose insidie di cui sono pieni la vita e l’amore, e dalle quali ci si può liberare solo facendo leva sulle proprie forze e sulle proprie convinzioni.

    La vita di Roxana è stata un vortice continuo di alti e bassi, un insieme di decisioni buone e cattive, un labirinto di luci e di ombre. È la storia di una donna con le ali di un angelo, nata nel 1985, morta e rinata nel 2009, ma tornata veramente a vivere nel 2017, quando scopre che c’è vita oltre la disabilità. Quando impara che, indipendentemente da quanto ostile possa sembrare a volte l’esistenza, o da quanto pesanti possano sembrare i fardelli che gravano sulle nostre spalle, esistono sempre un barlume di speranza e un Angelo Custode che si prenderà cura di noi.

    Senza dubbio l'autrice di questo libro ha saputo vedere al di là della disabilità. Ha chiamato a raccolta tutte le sue risorse fisiche e spirituali e ha usato tutta la sua forza per andare avanti. Dopo avere superato una lunga convalescenza e dopo aver smaltito i pesanti fumi della depressione che la stavano soffocando, Roxana ha deciso di lottare per lei e per suo figlio. Accettando la sua nuova realtà di persona diversamente abile, è riuscita a superare se stessa diventando un’atleta, una modella, una brava oratrice motivazionale e una scrittrice.

    Leggendo la storia della sua vita scoprirete come l’incidente di cui rimane vittima quando ha solo ventiquattro anni abbia cambiato completamente il corso del suo destino. Una giovane, vivace e ribelle donna un giorno si sveglia in un letto di ospedale scoprendo che non camminerà mai più. Il colpo è tremendo, il suo dolore smisurato, e la sua tristezza oltrepassa qualsiasi limite umano. Tuttavia, Roxana ha la forza di superare tutto. Riesce a reinventarsi e impara ad amare la sua vita come mai ha fatto prima. Anzi, va oltre: si fa crescere le ali e trova nel handbiking lo scopo della sua vita, diventando una famosa atleta professionista.

    Il presente libro non è ammirevole per il suo valore letterario, ma per il suo asciutto realismo, che si intreccia a un vero talento per la narrazione. Si tratta di un’autobiografia scaturita da un lungo e meraviglioso processo di autoscoperta e di autoguarigione. È un libro scritto per tutte quelle donne che qualche volta si sono sentite oberate dalle avversità della vita. È anche un libro per tutte le persone che sono sopravvissute a tragedie apparentemente insuperabili senza mai cedere o rassegnarsi, ma scegliendo piuttosto di seguire la propria strada con coraggio e determinazione e di guardare sempre avanti.

    Roxana ha avuto il coraggio di mettere la sua vita nero su bianco, dando ai lettori il privilegio di scrutare la sua anima e di conoscere i suoi pensieri e le sue esperienze più intime, insieme alle prove e alle paure che ha dovuto affrontare. Non è facile presentare al mondo la propria vita senza veli, e inserire in un libro pagine del proprio diario personale costituisce un atto di vero coraggio. Tuttavia, se si sa che quel libro potrà sanare e riparare anime di giovani che hanno visto l’inferno e sono tornati alla vita, allora lo sforzo letterario non conterà. Libri come La Giungla nell’Anima sono come cerotti per quei cuori sofferenti e sanguinanti. Sono vere gemme letterarie che possono adornare con eleganza l’anima di ogni lettore, indipendentemente dalla sua storia personale o dalle sue esperienze di vita.

    Liliana Moldovan[1]

    Introduzione

    Cos’è la vita? Molto tempo fa si pensava che assomigliasse a una nebbia. Per la cristianità la vita è eterna, mentre l’ateismo sostiene con fermezza che dopo la morte non esista nulla. Una verità inconfutabile è che la vita è un dono che si può perdere in qualsiasi momento. Un incidente, una distrazione momentanea, trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato, e finisce tutto. La nebbia evapora e noi svaniamo. Rimaniamo vivi nella memoria dei nostri cari finché non ci seguiranno anche loro in quel grande oltre.

    La mia vita terminò là, in quel freddo giorno autunnale. Non dimenticherò mai il 3 novembre 2009, la data in cui una macchina si scontrò contro quella in cui mi trovavo io. Era tardo pomeriggio, erano circa le sei. Sì, quel freddo giorno di novembre la mia vita terminò, e me ne fu offerta una nuova, per nulla simile a quella che avevo vissuto fino a quel momento. Era una vita che io non volevo. La nuova opportunità che mi veniva presentata era brutta e spaventosa. La odiavo profondamente, e la accettai di malavoglia… lottando giorno dopo giorno per poter sopravvivere. Solo più tardi capii che ciò che io percepivo come brutto sarebbe anche potuto diventare bello, sapendo come indossarlo e come sfoggiarlo. Prima, però, avrei dovuto passare sette difficili anni di continua depressione, nutrendomi di sogni e speranze deliranti. Aspettavo che un miracolo mi facesse tornare in vita e mi riportasse a quel mondo che conoscevo prima che tutto ciò avesse inizio.

    Ciò che mi faceva andare avanti era la mia immaginazione. Chiudevo gli occhi e passavo ore e ore a sognare il mio mondo, dove tutto era bello e perfetto, proprio come lo volevo io. Pensavo a come sarebbe stata la felicità, e la bramavo… nella forma perfetta che sognavo io. La mia immaginazione e il mio mondo erano la mia via di fuga, le uniche cose che mi facevano sentire bene. Desideravo così tante cose, ma non mi impegnavo realmente per poter realizzare i miei sogni. Semplicemente, concedevo loro di rimanere desideri impossibili e irrealizzabili, mentre la mia mente vagava lontana, al di là dell’oceano. Molto spesso mi portava a San Diego, in California, il luogo che per me rappresentava il paradiso. Era là che con cura mi costruivo una vita perfetta, fatta di balli, canti, amore e felicità.

    Il mio sogno americano iniziò poco alla volta, insieme alla mia nuova vita, mentre ero alla ricerca di una cura o una terapia che mi riportassero alla persona che ero stata prima di quel maledetto incidente. Non mi ero mai concessa del tempo per capire o per apprezzare che la persona che ero diventata dopo quella terribile disgrazia era la versione migliore di me stessa che fosse mai esistita. Quella nuova me era più gentile, più saggia, più generosa, più coraggiosa, più curiosa e più piena di amore. E, cosa più importante di tutte, quella Roxana ritrovata era ansiosa di scoprire un mondo nuovo e di trovare il buono nelle persone che la circondavano. La nuova me stessa vide la luce quando mi svegliai nell’Unità di Terapia Intensiva in un ospedale di Verona, e dovetti lottare per sopravvivere. Ma all’epoca non me ne rendevo conto. Mi ci vollero anni di sofferenza silenziosa per fare la conoscenza di quella nuova Roxana. Anni nei quali mi rifiutai di aprirmi all’universo e di scoprire la persona che ero diventata, preferendo invece guardare al passato, verso la persona che non ero più.

    Mi misi alla ricerca di una cura in molte cliniche di riabilitazione. Fu così che arrivai in Germania, per un trapianto di cellule staminali che, secondo le promesse, mi avrebbero riparato la colonna vertebrale danneggiata, e avrebbero migliorato le mie condizioni. Perché ero paralizzata. Un violento trauma alla colonna vertebrale porta spesso a danni irreversibili. Una volta che i nervi vengono danneggiati, le possibilità di guarigione sono scarse. Di solito non si rigenerano completamente e ciò porta a una paralisi parziale o completa. Tuttavia, per qualche ragione, io ero sicura che ci fossero speranze. Ero fermamente convinta che il giorno in cui avrei camminato di nuovo fosse dietro l’angolo, e così avevo riposto in quella clinica tutte le mie speranze e tutta la mia fiducia. Avevo pregato Dio perché mi concedesse un miracolo ed ero partita per Leipzig, in Germania.

    Tutto ciò che mi riportai a casa fu un dolore terribile, non solo nell’area della lesione, ma anche alla testa: un dolore talmente atroce che mi impediva di alzarmi dal letto. Ogni volta che cercavo di muovermi, anche solo di un centimetro, sentivo la testa che mi scoppiava dal male. Sia il dottore che mi aveva operato, che l’intermediario che aveva organizzato la transazione economica (avevo pagato una bella montagna di soldi per l’intervento) mi assicurarono che il dolore era un buon segno. Secondo loro, era la prova dell’esistenza di una forte connessione tra il mio cervello e la sezione paralizzata del mio corpo. Che posso dire… ero ingenua. Credevo a tutto quello che mi dicevano e aspettavo che quel collegamento si rinforzasse, aspettavo il giorno in cui avrei riacquistato i sensi nella parte inferiore del corpo.

    Nel frattempo, continuavo a cercare sul web posti tecnologicamente più avanzati, che magari mi avrebbero riparata. Fu così che mi imbattei in una clinica californiana che si vantava di potermi rimettere completamente a nuovo. A sentire loro, più del settantacinque percento dei loro pazienti avevano avuto enormi miglioramenti, e io stupidamente ci credetti. Pensavo che mi avrebbero potuto restituire ciò che ormai avevo perduto per sempre: la capacità di camminare con i miei piedi e di avere il pieno controllo sul mio corpo. I miei pensieri andavano di continuo a quella clinica. Chiesi un preventivo e iniziai a pensare a come arrivare a quel posto dove, così pensavo, si facevano miracoli. Ma non fraintendetemi: nessuno mi aveva mai parlato di un posto di santi o angeli che facessero miracoli o aggiustassero i pazienti. Eppure, io avevo fiducia in loro.

    Nelle mie fantasie mi vedevo indossare scarpe eleganti con il tacco alto, quelle che in una vita diversa amavo così tanto. Mi vedevo camminare con grazia lungo le strade, mentre muovevo il corpo in modo allusivo e seducente, mettendolo in mostra in tutto il suo splendore. Sognavo di camminare a piedi nudi sulla sabbia calda mentre il vento mi accarezzava dolcemente i capelli. Mi sembrava di vivere in un luogo incantato, fatto solo per me, mentre bevevo con avidità i raggi del sole e ricevevo piacere da ogni singolo granello di sabbia. Sognavo di correre presto, all’alba, con i piedi nudi che accarezzavano l’erba fredda e ricoperta di rugiada, mentre ridevo ed esultavo come una bambina.

    Sono sogni che faccio tuttora…

    Sognavo a occhi aperti, inconsapevole del fatto che l’unica cosa che la clinica poteva offrirmi erano false speranze. Non sapevo che fossero solo una manica di illusionisti al lavoro tra fumo e specchi. Si trattava solo di un altro business, proprio come quello in Germania, il cui unico interesse era il denaro e che puntava sulle anime ingenue e disperate che avrebbero pagato qualsiasi cifra per una cura! Il ciclo di inganni continuava, con truffatori che diventavano sempre più ricchi, e pazienti sempre più poveri e avviliti.

    Proprio pochi mesi prima di quando avevo programmato di andarci io, quella clinica di San Diego chiuse i battenti. E fu così che alla fine, mentre ero alla disperata ricerca di una cura, mi trovai innamorata di un posto che stava dall’altra parte dell’oceano e che avevo visto solo in foto e in video. Scoprii una California bella, incredibile e piena di sole, e rimasi incantata dalle sue meraviglie. Alla fine la clinica era diventata solo la mia scusa per arrivare fin là. Ciò che mi ci guidò fu il mio amore sincero, un desiderio che illuminò gli anni più bui della mia vita.

    Non potevo sospettare che quel desiderio si sarebbe un giorno realizzato. Nel 2017, di nuovo in una giornata di novembre, intrapresi il viaggio della mia vita e realizzai il mio sogno americano. Volai da Milano a San Diego, senza sapere minimamente ciò che mi avrebbe aspettata laggiù e ciò che mi sarebbe successo. Anzi, sapevo che non c’era proprio nulla ad aspettarmi. Non avevo fatto nessun tipo di piano. Avevo semplicemente preso la mia bicicletta e i miei bagagli e mi ero messa in strada…

    Mi piacerebbe che la mia storia iniziasse all’aeroporto di Malpensa, con il primo giorno della mia sorprendente avventura. Però, per arrivare ai sogni, si devono prima attraversare gli incubi… e quindi è così che inizia la storia della mia vita.

    Capitolo 1

    La A4 è l’autostrada più trafficata d’Italia e una delle più pericolose in tutta Europa, proprio per l’elevato numero di veicoli che la percorrono. La marea del traffico pesante occupa due corsie, costringendo le macchine ad ammassarsi nella terza: la corsia per l’alta velocità, dove se non si vuole essere ridotti in minuscoli frammenti da una Ferrari, si deve viaggiare a tavoletta. Questa autostrada era considerata, e lo è tuttora, una delle arterie principali della rete stradale italiana, in quanto fa da corridoio tra la Penisola Iberica e i Paesi Balcanici. Io ero in viaggio con un’amica in una Volkswagen Passat del 2002, a velocità sostenuta sulla seconda corsia. Dalla provincia di Venezia stavamo tornando a casa, a Travagliato, vicino a Brescia. Ingoiai l’ultimo boccone del mio panino con prosciutto crudo e mozzarella e mi misi comoda sul sedile del passeggero. Bevvi un po’ di acqua e mi accesi una sigaretta. Mi andava di ascoltare un po’ di musica, quindi alzai il volume della radio. Avevo un brutto presentimento, una specie di buco nello stomaco, come una tragedia incombente, e stavo facendo del mio meglio per rilassarmi e togliermelo di dosso. Attribuii quella sensazione di terrore alla stanchezza e allo stress che avevo accumulato.

    Non avrei dovuto fare finta di niente, invece continuai a ignorare la mia ansia piuttosto che cercare di risolverla. Mi sfilai gli stivali di similpelle. Ero stanca morta e non vedevo l’ora di arrivare a casa perché avevo davvero bisogno di una doccia calda e di un letto comodo. D’accordo, casa potrebbe essere un termine un po’ esagerato per quell’appartamento di cento metri quadri nella Piazza di Travagliato, in condivisione con altre quattro persone. Nonostante ciò, non vedevo l’ora di arrivare. Non mi sentivo a mio agio con tutti i miei compagni di appartamento, perché non li conoscevo bene. Erano tre ragazzi e Cristina, l’amica che ora stava guidando. Però ero abbastanza soddisfatta della nostra sistemazione. Avevo una stanza tutta per me dove mi sentivo al sicuro e, se gli altri si facevano troppo rumorosi, potevo semplicemente chiudermi dentro e starmene per conto mio.

    Invece di tenere gli occhi sulla strada, Cristina cercava l’accendino per iniziare la sua seconda sigaretta. Non le importava che ne avessimo appena spenta una, buttando i mozziconi dal finestrino per evitare di essere invase dalla puzza di fumo. Lei ne voleva un’altra.

    «Ehi, dov’è l’accendino rosa? Quel cazzo di coso si perde sempre,» mi disse con tono accusatorio.

    «Fumi come una ciminiera! Ecco qua il tuo accendino!» Glielo passai con un’espressione spazientita. Voltai il capo e fissai, senza vederlo veramente, lo sciame di auto che andava nella stessa nostra direzione.

    Poi, all’improvviso, la mia testa andò a sbattere contro il finestrino con una violenza tale che la pelle mi si spaccò in un attimo, tracciando delle macchie rosso acceso sul vetro. Il colpo mi lasciò impietrita, ma non ebbi il tempo per capire cosa stesse succedendo. La forza dell’urto mi scagliò verso sinistra. Proprio nello stesso istante il mio sguardo andò verso Cristina, e ricordo vagamente di averla guardata mentre lei cercava di riprendere il controllo del veicolo. Stava stringendo il volante con entrambe le mani. Assomigliava a una statua grottesca, con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati, immobile per il terrore. Cristina era alta circa un metro e sessantacinque, come me, ma avevamo una corporatura diversa. Lei era decisamente più cicciottella e i suoi ottanta chili la aiutarono a mantenersi ben salda sul sedile, il che la riparò da ulteriori danni.

    A un certo punto lei iniziò a lamentarsi, con un suono che mi ricordava una mucca in punto di morte. Io rimasi lì a guardarla… Non avevo paura, né mi sentivo preoccupata. Ero stordita. Era come se il mio corpo stesse fluttuando nello spazio, e io non ne avessi il controllo. Stavo solo osservando il disastro che succedeva tutto intorno a me. Erano bastati un momento di distrazione e una sigaretta. Era bastato quello perché lei perdesse il controllo dell’auto, mentre cambiava corsia a una velocità di poco superiore ai cento chilometri orari. Era successo tutto così in fretta che io non ero riuscita a dire niente.

    Guardavo con aria assente lo scenario che mi si parava dinnanzi agli occhi, e all’improvviso sentii, o pensai di sentire, che l’auto si era fermata. Spaventata com’ero, mi affrettai a slacciarmi la cintura di sicurezza, e mi allungai per prendere la borsa che era ancora sul sedile posteriore. Volevo fuggire al più presto. Il mio istinto mi diceva di scappare senza voltarmi indietro. Ma ciò non successe. Non riuscii mai a uscire da lì. Tutto prese a vorticarmi intorno, come se fossi stata intrappolata in un potente tornado. Era come se un violento tifone tropicale fosse arrivato fino in Italia a portarci via.

    Era bastato solo un maledetto attimo perché un’altra auto, una Land Rover nuova di zecca, venisse a fracassarsi direttamente addosso alla nostra. La nostra macchina si mise a roteare a una velocità folle nel mezzo dell’autostrada, con me incastrata in una posizione assurda tra i due sedili anteriori. Probabilmente fu in quel momento che successe… la mia spina dorsale si spaccò in due come un esile rametto, e la spinta centrifuga mi catapultò sul sedile posteriore. La macchina andò a sbattere contro il guard-rail e si fermò proprio sulla corsia d’emergenza.

    Aprii gli occhi e mi guardai intorno. Capivo di essere ancora in macchina, ma non ero sicura di dove. Mi chiesi perché la mia testa fosse sottosopra sul sedile posteriore e le gambe ancora tra i due sedili davanti, incastrate e piegate in un modo innaturale. Perché sembravo rotta a metà? Cercai di valutare il mio stato, ma non ci capivo nulla. Sentivo un dolore terribile alla schiena, come se qualcuno ci avesse infilato un coltello. Facevo fatica a respirare, e a ogni respiro sentivo quel pugnale invisibile che si rigirava e mi affondava ancora di più nella schiena, provocandomi un’agonia inimmaginabile. C’era qualcosa che non andava, pensai. Mi guardai di nuovo intorno, e feci di tutto per togliermi dall’auto e da quella strana posizione in cui mi trovavo. Provai a tirare le gambe verso di me, per risistemarmi. Pensavo che ciò avrebbe diminuito il dolore, ma non riuscivo a fare nulla. Non mi sentivo più le gambe, né riuscivo a comandare il mio corpo. In breve, non riuscivo minimamente a muovermi.

    Mi fermai un attimo, cercando di riprendere fiato, ma il dolore si stava facendo più acuto. Avevo bisogno di respirare, ma mi diventava sempre più difficile. Avevo paura, una paura terribile, ma non dicevo nulla. Cercai di rimanere calma e di capire cosa mi fosse successo. Lo faccio abitualmente quando mi trovo in un momento di crisi. Con attenzione, feci un piccolo respiro e cercai di ricostruire ciò che mi era appena capitato. Guardai fuori dal finestrino e vidi il tramonto, che stava già sbiadendo. Presto l’oscurità della notte sarebbe arrivata a inghiottirmi nel suo terribile incubo.

    Sentii la voce di una donna al telefono. In quel momento non sapevo chi fosse, ma la sentii urlare con la persona all’altro capo: «Sbrigati, ho avuto un incidente in autostrada! Venite a tirarmi fuori di qui!» Non si stava nemmeno rendendo conto che non era la sola a essere stata coinvolta nell’incidente.

    Dopo un attimo di silenzio, l’uomo al telefono, suo marito, le chiese di me.

    «Roxana chi? Ah, Roxana!» Fece un attimo di pausa, per riprendere fiato, poi rispose: «Non lo so, caspita, non la sento. Penso sia morta! Dai, vieni a tirarmi fuori di qui, prima che muoia anche io!»

    Cristina uscì dalla macchina, nel disperato tentativo di salvarsi. In quel momento io iniziai a gridare e a fare uscire tutto il dolore e la disperazione che mi si erano accumulati dentro. Gridai con tutta la forza che i miei polmoni mi concedevano, un lamento straziante che avrebbe anche potuto essere il mio ultimo. Fu allora che un uomo, un camionista, dopo che era riuscito a fermare il suo gigantesco mezzo vicino ai resti della nostra macchina, mi venne in aiuto. Penso mi abbia sentito urlare e sia venuto subito a darmi una mano. Mi guardò con uno sguardo terrorizzato e mi salutò con un gesto: «Ciao Bella![2]». Aveva una chioma nera e riccia e una barba folta.

    Non riuscendo a rispondere, mi limitai a guardarlo con uno sguardo pieno di lacrime che implorava aiuto. Lui mi fissò a lungo, cercando di capire come fossi finita lì e che cosa potesse fare per aiutarmi. Il mio corpo era così contorto tra i resti della macchina che credo di essergli sembrata una spaventosa bambola di pezza. Per prima cosa mi sollevò le gambe prive di vita dalla posizione in cui si trovavano tra i sedili anteriori, e con cura mi prese da sotto le braccia per mettermi a sedere. Non poteva sapere che avevo la schiena spezzata e che avrei potuto morire da un momento all’altro. Lui voleva solo aiutarmi. Mi sistemò il corpo in qualche modo e iniziò a confortarmi come meglio poteva. Mi accarezzò la fronte, mi pulì il sangue dal viso e mi parlò, probabilmente dicendomi qualche frase di incoraggiamento. Io non potevo capire quello che mi diceva: parlava italiano, una lingua che all’epoca mi era ancora sconosciuta. Immagino mi stesse dicendo che sarebbe andato tutto bene e che dovevo stare calma. Che altro mi avrebbe potuto dire?

    Nel frattempo, io pensavo che erano passate solo due settimane da quando ero arrivata in Italia con la speranza di costruirmi una vita migliore. Chi avrebbe mai pensato che i miei sogni sarebbero terminati prima del dovuto, su un letto di ospedale? Destino crudele.

    Non riuscivo a smettere di piangere: il dolore era troppo atroce da sopportare.

    Improvvisamente, mentre sentivo le sirene delle ambulanze diventare sempre più forti, rividi in un attimo tutta la mia vita. Sentii quel suono che tutti conosciamo bene e che quando si avvicina fa accapponare la pelle, con quel senso di terrore che trasmette e che costringe a rendersi conto che qualcuno, da qualche parte, sta lottando per la sua vita. Quella volta quel qualcuno ero io. Ero io quella che piangeva e implorava aiuto.

    L’ambulanza arrivò in breve sul luogo dell’incidente, mi liberarono in fretta dalla mia prigione di metallo e mi piazzarono su una barella. Fui intubata sul posto e con grande sollievo riuscii a far entrare un po’ di aria nei polmoni affamati di ossigeno. Quando arrivammo all’ospedale di Borgo Trento a Verona, urlavo per il dolore. Mi venne subito assegnato un codice rosso, con scarse probabilità di sopravvivenza ma i medici riuscirono subito a stabilizzarmi. E rimasi in vita.

    Dopo due giorni, mi svegliai in Terapia Intensiva, collegata a un sacco di macchine. Mi guardai intorno cercando di capire dove mi trovavo. Non riuscivo a dare un senso a ciò che mi stava succedendo. Il ricordo dell’incidente e di tutto ciò che era successo dopo era stato rimosso dalla mia memoria ed erano rimaste solo paura e confusione. Avevo le braccia distese lungo il corpo e dei cavi bianchi attaccati alla punta delle dita. Cercai di muoverle, ma era incredibilmente difficile. Guardai le flebo, le apparecchiature di sorveglianza e il monitor con il suo bip intermittente, che mi controllava. Avevo un tubicino nel naso e riuscivo a vedere parecchi altri tubi e fili ai quali ero collegata.

    La morfina mi teneva a bada il dolore. Però, non appena iniziai a sentirlo di nuovo, lo riconobbi perfettamente come fosse stato il momento in cui l’avevo sentito per la prima volta. Mi tornò in mente lo scontro. Cercai di nuovo di muovermi ma non riuscivo a fare nulla. Mi chiesi cosa mi avessero fatto. Perché non sentivo le gambe? Guardai verso il basso, cercandole, ma il lenzuolo bianco mi copriva dalle spalle ai piedi. Fui presa da un pensiero terribile. E se avessi perso le gambe? Costrinsi la mano sinistra, debole e tremolante, a mettersi in movimento, e riuscii a togliermi di dosso il pesante lenzuolo, scoprendo il mio fragile corpo. Quando mi vidi le gambe, tirai un sospiro di sollievo. C’erano ancora. Ma perché non riuscivo a sentirle? Con fatica cercai di muovere il braccio sinistro e afferrai il tubicino che mi usciva dal naso, per vederlo meglio. Le pareti interne del tubo erano sporche di muco scuro.

    Iniziai a dare di matto e a tirare i cavi e tutto quello che mi stava a portata di mano. Volevo scappare da quella prigione tutta bianca e tornarmene a casa. Il suono acuto di un allarme mi spaventò e mi bloccai. Passai in rassegna la stanza e scoprii che ora la porta della camera era aperta. Un’infermiera piccola e magrolina entrò di fretta, seguita da una collega dall’aspetto meno esile. La seconda infermiera era piuttosto robusta e massiccia, e i suoi passi facevano vibrare il pavimento. Il suo triplo mento ondeggiava in un modo ridicolo da destra a sinistra mentre mi

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