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Graffiando il mito
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Ebook177 pages2 hours

Graffiando il mito

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Cardamone bussa alla porta dei confini estremi della storia – oltre i quali, a monte, pesa l’interdetto – per delineare, a valle, una ipotesi di storia a venire verso cui orientare le coscienze e riattivare l’energia propositiva di un pensiero utopico fatto di fantasia e di ragione; e questa ipotesi non abbisogna di esplicitazioni, di enunciazioni di dettaglio, trovandosi illuminata nei suoi presupposti dagli atti di interpretazione conseguenti a quel bussare, a quell’estrarre allegorico, a quell’arrischiare letture del senso delle origini, al di qua della storia che è usualmente scritta e tràdita dalla penna del potere, come non possiamo non sapere oramai (dalla prefazione di Marcello Carlino).

 
LanguageEnglish
Release dateMar 7, 2017
ISBN9788868225391
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    Graffiando il mito - Alfonso Cardamone

    alfonso cardamone

    graffiando il mito

    prefazione di Marcello Carlino

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2017

    ISBN: 978-88-6822-539-1

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    ai miei figli

    ai miei nipoti

    e alle loro madri

    I capitoli che compongono questo libro (eccezion fatta per quello di apertura) sono ispirati a saggi scritti dall’autore e pubblicati sulla Rivista il piede e l’orma, diretta dallo stesso per i tipi della Pellegrini Editore, opportunamente rivisti, rielaborati, aggiornati e conformati ai fini dell’impresa.

    Prefazione

    Bussando alla soglia

    1.

    Quando accade che si risalga il corso del tempo, tanto che viene valicato il confine segnato da ciò che per convenzione, e dietro garanzia di expertises scientifiche ed accademiche, si definisce storia – ma a scrivere la storia, e poi a farne recapito con l’assicurata della damnatio memoriae, è la dialettica del potere: non possiamo non saperlo oramai –, ci si portano incontro, di necessità, sentieri non tracciati, perciò impervi e malfidi. E i più dicono improprio, anzi disonorevole, il solo accostarli e quindi vivamente sconsigliano di praticarli, di corrervi l’avventura. Fermarsi dinanzi a quella linea di confine, come dinanzi ad una porta dell’Ade presidiata da mostri, e tornare al noto, restando al quia e così riprendendo a battere la strada già battuta: questo si deve? No, Dio ci scampi da quella scienza piccola piccola, e timida, che s’appisola al riparo della correttezza filologica e della inoppugnabilità documentaria premiate ovunque e sempre dalle congreghe dell’accademia. Del resto, la preveggenza acuta della fantasia, congiunta alla ragione e usata a sedurla e a sostenerla, è un costituente irrinunciabile della ricerca, come le grandi scoperte hanno sempre asseverato; e la storia, per chi la intrattenga intensamente a colloquio e la responsabilizzi, non è mai senza uno sfondo possibile né è senza il riverbero che, sul futuro immaginato e auspicato, si proietta dalla lettura del passato, anche il più remoto. La storia è storia davvero se non s’appaga, satolla e inutile, dell’equazione di reale e razionale; e se determina le coordinate della sua posizione e della sua azione prendendo spinta e forza, viceversa, dall’utopia. E lo storico annovera tra le sue più degne di nota la virtù dell’allegorista. Per questo occorre trafiggere il presente con lo sguardo volto all’indietro come un angelus novus, arrivando finanche a bussare alle porte chiuse su ciò che per convenzione – e per convenzione interdetto – è al di qua della storia; e per questo è bene rispondere al dovere morale di interpretare: interpretare, con il lavoro tenace di chi decritta allegorie, i segni pur labili che provengono dai margini, dalle periferie, dai recessi occultati, dalle distanze abissali ovvero da quanto di fattuale si mischia al leggendario. Ecco, esplorarlo come con analisi stratigrafiche per prestargli la parola – e chiamarlo a rendere testimonianza – e graffiare il mito al fine di cogliere cenni, trasposizioni, sensi di quel che sotto vi può essere nascosto: una tesi di filosofia della storia che sia sostenibile, e che sia da difendere e che si voglia raccomandare, inscrive potenziali di prassi siffatti. Non ho dubbio alcuno al riguardo.

    2.

    Una prassi di tale specie, dentro una filosofia della storia che supponga lo scegliere e l’elaborare in prospettiva per una migliore qualità della vita, ha cittadinanza piena nella politica. E di essa in questa congiuntura, nella quale l’ideologia del postmoderno è reduce dall’essersi costituita sopra la postulazione raccapricciante della fine della storia e sopra la ferale beanza liberistica procurata dal dominio dell’impolitico (un dominio tutt’affatto funzionale alla devastante politica del potere economico-finanziario e dei suoi santuari): di essa noi rivendichiamo la funzione nodale, noi che dichiariamo la nostra nostalgia del futuro in un presente in cui tutto congiura a che siamo derubati, deprivati del futuro. Ebbene, come altrove mi è capitato di scrivere, la ricerca di Alfonso Cardamone a pieno titolo appartiene alla politica e, nella sua modalità di conduzione, si manifesta specificamente politica. Cardamone bussa alla porta dei confini estremi della storia – oltre i quali, a monte, pesa l’interdetto – per delineare, a valle, una ipotesi di storia a venire verso cui orientare le coscienze e riattivare l’energia propositiva di un pensiero utopico fatto di fantasia e di ragione; e questa ipotesi non abbisogna di esplicitazioni, di enunciazioni di dettaglio, trovandosi illuminata nei suoi presupposti dagli atti di interpretazione conseguenti a quel bussare, a quell’estrarre allegorico, a quell’arrischiare letture del senso delle origini, al di qua della storia che è usualmente scritta e tràdita dalla penna del potere, come non possiamo non sapere oramai. Per ottemperare ad una missione così forte, Cardamone si cuce addosso un abito professionale di rigoroso taglio sartoriale, nel quale la competenza s’unisce al dilettantismo, dovendosi precisare che il dilettante, come asseriva un grande intellettuale italiano del Novecento, è colui che prova diletto e ne riconosce con soddisfazione le grandi aperture euristiche. Una curiosità che non arretra dinanzi a certificazioni di (de)merito, rilasciate dalle solite congreghe dell’accademia, è la premessa di base. Studi antropologici e reperti etnografici, storiografie varie in edizioni vicine o lontane nel tempo, stemmi araldici a denominazione etimologica controllata, narrazioni delle origini e favole intrecciate sui miti di fondazione, opere conteste di un epos riferito soprattutto ad una geografia culturale che esorbita dall’occidente e oltrepassa così le colonne d’Ercole della tradizione ad una sola dimensione, risultata egemone nella nostra civiltà: su sondaggi in questi campi per solito giudicati eterogenei, e considerati incompatibili, vengono compiuti gli atti istruttori: qui vengono rinvenuti indizi e prove per pronunce impegnative. Si direbbe che l’insieme dei materiali analizzati e dei testimoni escussi abbia per Cardamone l’attendibilità di quanto un tempo, prima di qualunque categorizzazione da divisione del lavoro, veniva denominato letteratura. E che era – per il contributo degli storici come dei poeti, dei mitografi come dei teatranti, dei lirici come dei tragici, degli anonimi testatori dell’immaginario collettivo come degli interpreti in assoli di una oralità epica a larga e partecipata diffusione – la grande raccolta del sapere. Una raccolta da consultare, una letteratura collettiva di servizio.

    3.

    Il movimento è quello rizomatico, che scansa certezze rettilinee. Dietro ogni personaggio se ne mostrano altri da avvicinare e da scoprire, che vengono intervistati secondo arte maieutica, in risalita lungo il loro albero genealogico. Sulla via maestra in prima istanza percorsa affacciano una sequela di diramazioni alle quali ci si convince come ascoltando il canto delle sirene o come seguendo l’estro di una Alice nel paese delle meraviglie. La superficie del percorso stabilito per arrivare alla meta è vista disseminata di concavità o varchi che introducono ad altri scenari, a profondità ipogee che contengono il represso da liberare, a più lontane evenienze. E una rete di parentele si stende e avviluppa, ancoratasi ad archetipi condivisi. E una sequela di corrispondenze accordano sull’unisono taluni valori di normazione delle umane astanze. E le persone che hanno nei referti mitologici la loro sola autenticazione vengono trattate come uomini o donne in carne ed ossa, protagonisti salienti di cronache nere o rosa, poiché nel mito, come in altrettante maschere di cultura e società, è pensato racchiudersi un insieme di idee di realtà e di vissuti realmente appartenuti a popoli, a stati. E il mito è perciò abraso così che esprima quel che trattiene, il mito che la convenzione vuole che mostri astenendosi dal dire, che si renda silenzio misteriosamente apodittico esso che è stato racconto e racconto su racconto: a graffiarlo convergono tanto una disposizione dubitativa, che assume la maniera di una continua, implicita domanda, quanto la scelta di un mixer che confronta e sovrappone le voci che provengono da diverse latitudini culturali, da svariati ordini di mondo, quanto ancora un persuaso, incrollabile orientamento laico, che toglie il velo a qualunque strumentale domiciliazione religiosa (e siffattamente demistifica il rito che sempre si usa da palinsesto sacrale per il mito). Cardamone restituisce il mito alla sua natura di racconto e torna a raccontarlo, intrecciandolo con ciò che si conviene essere storia e interpretandolo per scoprire il paradossale realismo di cui è depositario. Il suo è un procedere da storico e, al tempo stesso, da narratore. La sua è opera di storia mentre è opera di letteratura, che conserva il piacere del racconto, che stilla il diletto di chi inanella lungo una quête appassionante la bellezza di una pluralità rutilante di vicende, di micro-parabole avvolte in larga misura dall’indeterminatezza che è la base del poetico: il diletto del dilettante rivalutato dall’intellettuale del Novecento a cui sopra s’è fatto cenno, del dilettante i cui talenti sono l’intelligenza e la leggerezza e il rifiuto di una specializzazione cocciuta e supponente, che isterilisce la ricerca. Graffiando il mito è insomma libro di fusione di generi, dalla ricca intertestualità, composto da osservazioni storico-antropologiche e da racconti e da metaracconti: è libro di letteratura, se per letteratura si intende, come un tempo si intendeva, uno spazio di raccolta del sapere collettivo, uno spazio di pubblica utilità e di servizio, uno spazio politico. Non a caso Cardamone ama Erodoto, uno storico che non è solo uno storico e che è più di uno storico, un autore che sta sui confini tra generi di scrittura diversi; e in Graffiando il mito ha l’occasione di ribadirlo. Gli è propria, in chiave tutta letteraria, una sorvegliatezza dello stile, per la quale intorno agli enunciati si traccia una fascia di percorrenza che dà agio al lettore di osservare i concetti e di pesarli trovandoli chiari e distinti. E gli si confà la presa in carico della responsabilità pensante del linguaggio, che dovrebbe essere un requisito inalienabile di una democrazia e dei suoi istituti di promozione e di salvaguardia dei diritti di cittadinanza e che è, ancor più, valore e impegno da cui la letteratura, comunque se ne definiscano gli ambiti, è inammissibile che deroghi.

    4.

    Si comincia da un racconto, il racconto di un sogno o meglio di una catena di sogni; d’altronde sono i sogni che chiedono, per lo più, per il fascino che hanno, di essere raccontati; in essi si rintraccia, forse, un’origine del racconto. Cardamone torna a narrare e a interpretare, in Preludio, il sogno di Kessi, che è tanto della storia ittita, dopo avere tracciato un breve profilo del leggendario cacciatore. La sequenza onirica in sette atti di cui Kessi è stato spettatore e insieme attore (le due parti sono congiunte nel sogno) batte sette volte il tema della morte; e così lo elegge, e lo consegna a futura memoria, come fondamento della vicenda dell’uomo. È dell’uomo scontare la sua condizione mortale e porsi continuamente a confronto con la morte, metaforicamente a ridosso della sua soglia. E se il sogno con il suo linguaggio non verbale che deve verbalizzarsi nel racconto è all’origine del mito, che in origine è racconto, e se è dal sogno che scaturisce la letteratura, se è il sogno a produrla prioritariamente, essenzialmente, nel sogno di Kessi, che è un archetipo del sogno, è possibile rinvenire la nascita della letteratura e insieme una sua decisiva missione. Dalla notte dei tempi è della letteratura, è forse un suo principio costituzionale, confrontarsi con la morte e, per tanto, fare espressione della sostanza della condizione umana. Quando suppone e inventa la continuità ininterrotta del racconto che può differire la condanna capitale e simulare l’eternità dell’esistenza (così fa Sheherazade, la narratrice per antonomasia), quando s’avventura nell’ideazione e nella finzione scenografica e nell’esplorazione dello spazio oltre i confini della vita (la porta dell’Ade, che poi altri provvederà a ripristinare e ad aprire, nel sogno di Kessi trova la sua prima), quando (si) volge le domande sull’universo e sulle posizioni che vi occupa la specie degli uomini (e indugia sul pensiero dominante, incatenandolo al dolore e al male di vivere; e rivà ad una genealogia virtuale sistemata nelle forme del racconto, con le sue nette funzioni attanziali), la letteratura sta a petto della morte, a volte sublimandola, a volte soffrendola, a volte strappandole la maschera. Cardamone in Graffiando il mito opera una strenua difesa e una convinta rivendicazione: non foss’altro che per questo suo esporsi alla morte, intrattenendola o dichiarandone i domini o subornandola e lasciando che perduri e che da altri possa essere raccolto il filo della memoria, la letteratura svolge un compito di rilevanza assoluta. Cardamone contraddice la marginalità, inscritta nella dialettica del potere e nella logica dei conflitti sociali, alla quale la letteratura è condannata in special modo nell’odierno frangente. E con il racconto dei sogni di Kessi rimarca il valore consistente, rilancia l’apprezzamento della letteratura. Quella letteratura in specie che scelga di

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