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Un giro di Jack
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Un giro di Jack

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Un giro di Jack” è una danza di onnipotenza che tutti noi abbiamo prima o poi ballato quando la vita era farcita di tematiche universitarie e primi passi nel mondo del lavoro, di primi rapporti stretti creati al di fuori della famiglia, di gioco, divertimento e di indipendenza, sensazioni di maturità sognate mentre dormi con un uomo per più di tre giorni di fila. C’è stato e ci sarà luogo e tempo per giri di vino rosso, ma il serenamente spregiudicato giro di Jack rappresenta il periodo delle prime e ultime volte che non si rivivranno mai più. I rapporti vissuti a 360 gradi, sia in positivo che in negativo, quelle anime che s’incontrano e in alcuni casi non si lasciano mai, quegli amori che hanno senso di esistere solo tra i venti e i trent’anni. Ecco di cosa parla questo libro.
LanguageEnglish
PublisherAmico Libro
Release dateMar 26, 2021
ISBN9791220283915
Un giro di Jack

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    Un giro di Jack - Rita Murgia

    creduto.

    PREFAZIONE

    Questa potrebbe essere una prefazione allografa ma non lo sarà. Chi scrive è una terza persona rispetto all’autrice del libro, ma è anche uno dei personaggi del romanzo: la sorella malinconica e capricciosa della protagonista.

    Sono passati dieci anni dai fatti che mia sorella racconta, la ragazzina viziata che ero ha fatto spazio ad altro essere. Eppure, rileggendo quella che è anche la mia storia ho rivisto e rincontrato parti di me che pensavo fossero andate via. Come una matrioska mi sono resa conto che quella Mara è dentro di me.

    Un giro di Jack è una danza di onnipotenza che tutti noi abbiamo prima o poi ballato quando la vita era farcita di tematiche universitarie e primi passi nel mondo del lavoro, di primi rapporti stretti creati al di fuori della famiglia, di gioco, divertimento e di indipendenza, sensazioni di maturità sognate mentre dormi con un uomo per più di tre giorni di fila.

    C’è stato e ci sarà luogo e tempo per giri di vino rosso, ma il serenamente spregiudicato giro di Jack rappresenta il periodo delle prime e ultime volte che non si rivivranno mai più.

    Periodi di condivisione di appartamenti, di camere triple, di invidie e amicizie vissute come patti di sangue, dove tutto è eternamente in movimento, dove tra coinquiline universitarie ci si salterebbe al collo per i turni delle pulizie non rispettati, per questioni banali che paiono vitali.

    I rapporti vissuti a 360 gradi, sia in positivo che in negativo, quelle anime che s’incontrano e in alcuni casi non si lasciano mai, quegli amori che hanno senso di esistere solo tra i venti e i trent’anni. Ecco di cosa parla questo libro.

    Ci sono varie teorie sulla nascita delle anime: chi crede nell’aldilà in un luogo perfetto dove ritrovarci esseri perfetti, privati solo dei nostri abiti terreni; chi crede nella reincarnazione di anime vestite con le colpe o i meriti delle vite passate cui verrà riassegnato un nuovo corpo umano o animale. Preferisco credere, in modo romantico, nell’esistenza di innumerevoli vite, dove ogni volta le anime si sfiorano in qualche modo riconoscendosi.

    In Un giro di Jack si assapora questa dimensione: Rita, Giovanna, Chiara e naturalmente Alex e Mario e Nadia. Persone che certo si incontreranno ancora in altre vite e, nonostante immemori, penseranno, dopo uno sguardo iniziale, io questi occhi gli ho già vissuti.

    In questo libro troverete parti di voi, che magari avete dimenticato, come è successo a me.

    Troverete tanto rock’n roll fatto a modo nostro e se vi chiedete cosa sia veramente il rock, iniziate a leggere.

    Quindi non so voi ma a me nel frattempo è venuta voglia di bermi un bicchiere di Jack…

    Sara Murgia

    Il corso di una vita è molto breve e tutto avviene così in fretta che non riusciamo a vedere il rapporto tra gli eventi, non possiamo misurare le conseguenze delle azioni, crediamo nella finzione del tempo, nel presente, nel passato, nel futuro, ma può anche darsi che tutto succeda simultaneamente.

    La casa degli spiriti

    Isabel Allende

    I

    Ero appena tornata a casa e, incoraggiata da una birra media, tornavo a riflettere sull’opportunità di comporre il suo numero di telefono: il desiderio di sentirlo aveva scandito a intermittenza tutta la giornata.

    Dovevo sentire la voce di Alex e, al contempo, volevo provare a fargli sentire di nuovo la mia, nella speranza che gli facesse ancora un qualche effetto.

    Desideravo raccontargli della giornata appena trascorsa, di un successo lavorativo dopo un periodo difficile in tutti i sensi. Lavoravo da solo un mese in Camera Arbitrale e Nicola mi aveva appena affidato il compito di curare la redazione di un vademecum sulla prassi in mediazione. Mi sentivo gratificata, era evidente che con il mio capo si stava creando un bel rapporto.

    Se negli ultimi dieci giorni avevo avuto difficoltà a essere presente a me stessa, a mangiare, a dormire, a controllare l’ansia, quello era il primo giorno in cui mi sentivo finalmente motivata e quasi mi pareva di non aver più voglia di scappare lontano o, peggio, di arrendermi e tornare a leccarmi le ferite in Sardegna a casa dei miei genitori.

    Dopo due anni e mezzo di rapporto vissuto al minuto, di scelte prese insieme e di ostacoli affrontati e superati senza problemi e paure, era forse naturale e istintivo aver voglia di condividere la sensazione che provavo in quel momento o, forse, me la stavo raccontando e si trattava di una semplice scusa per sentire la sua voce e ricercare un po’ di intimità con lui?

    Ed eccomi qui, a mezzanotte, dopo qualche ora trascorsa piacevolmente con gli amici, sotto le lenzuola da sola, con il cellulare in mano, indecisa sul da farsi, in compagnia di quel desiderio insinuatosi a tradimento nella mente.

    Pronto?

    La mia telefonata cominciava con tono colloquiale ma, forse, la voce tradiva la verità: si trattava dell’ennesimo tentativo di coinvolgerlo nuovamente in un noi.

    Eppure, quella parola, noi, doveva pronunciarsi con riguardo, dosata abilmente come un agente chimico pericoloso.

    La telefonata scivolava via senza emozioni apparenti: messo al corrente del nuovo impegno lavorativo, Alex si diceva molto contento per me, fiero e convinto delle mie capacità, a suo dire, straordinarie.

    Tutto qui.

    Non mi amava più? E se davvero non mi amava più, tutto il suo amore dove era finito? In cosa si era trasformato? Per non impazzire sarebbe stato meglio pensare che si era perso su una simbolica luna insieme al senno di Orlando.

    Mi informava che in quel momento si trovava in un pub con i compagni di classe delle superiori, C’è qui con me addirittura Beo, ricordi? Ci ha appena dato la grande notizia: è diventato papà!

    Avevo ventotto anni e, nell’ultimo periodo, mi sembrava quasi che tutti intorno andassero da qualche parte veloci, desiderosi di raggiungere la propria meta, mentre noi due ci eravamo arenati. Avevo, spesso, protestato, domandando ad Alex un futuro ed eccomi, per ironia della sorte, a sperare in un presente che a un tratto lui aveva messo in discussione.

    Cercavo di negarlo a me stessa, ma quel ragazzo che mi parlava degli amici al pub mi sembrava insopportabilmente lontano ed educato. La telefonata volgeva al termine e non avevo soddisfatto il mio bisogno di sentirlo.

    Che conferme cercavo?

    Alex, se mi avessi voluto lasciare, l’avresti già fatto! e, mentre proferivo queste goffe parole, mi maledicevo per non essere riuscita ancora una volta a essere leggera, divertente, allegra.

    Ottenevo, di rimando, un sommesso, Lo so, cui mi sarei aggrappata per qualche giorno, come a una piccola e incerta promessa.

    Ci salutavamo con discrezione, augurandoci la buonanotte.

    Ma dove erano finiti quei ragazzi che tre anni prima, inconsapevoli e curiosi, si erano capiti senza neppure aprire bocca, nel silenzio di un parcheggio di periferia?

    Dove erano finiti i pezzi del bicchiere che avevamo infranto e dove era finita la nostra complicità?

    Spegnevo la luce e mi giravo su un fianco a dormire.

    II

    Ho sempre pensato, nel rispetto delle eccezioni che confermano la regola, che le donne non sono o troie o spose. L’esperienza mi ha insegnato che nelle fasi alterne della vita, ognuna di noi più volte migra da una di queste due categorie all’altra.

    All’epoca dell’incontro con Alex avevo ventisei anni appena compiuti, una laurea fresca in giurisprudenza, un lavoro da praticante avvocato in uno studio legale e tanta voglia di voltare pagina sul fronte affettivo.

    Ero fidanzata da sette anni con un ragazzo che viveva in Sardegna e di cui mi ero innamorata per gioco prima del compimento della maggiore età. Dopo sette anni di rapporto a distanza, non avevo la forza di ammettere a me stessa che la storia si trascinava stancamente già da un po’.

    Ahimè, non posso negarlo, negli ultimi due anni mi era capitato di inciampare, di trovare qualche distrazione, di scivolare tra le braccia di un altro per una sera perché non avevo voglia di stare sola o per il desiderio di emozionarmi, di sentirmi viva, di sperimentare. Ho imparato mio malgrado che quando si impara a saltare il muro poi non si smette, si impara a fare pace con la propria coscienza e si va avanti, mentendo, fingendo di essere una persona che si rispetta e che rispetta il proprio uomo, mentre purtroppo non è così.

    Da qualche mese avevo trovato in un collega di lavoro, praticante nel mio stesso studio, un confidente, non troppo discreto, con il quale mi confessavo quotidianamente spesso emozionata, altre volte preoccupata o triste.

    A lui raccontavo delle serate con Claudio, un giovane avvocato che veniva apposta da Biella per vedermi e portarmi sulla sua Audi in giro per i locali alla moda di Milano. Alaska, più grande di me di qualche anno ma ancora bambinone, mi ascoltava pettegolo e ogni tanto sghignazzava, commentando alcuni passaggi come fosse un mio camerata, forse cercando così di nascondere il leggero imbarazzo che gli causava la libertà delle mie parole.

    Alaska, albino di nome e di fatto, capelli corti biondi, occhi chiari, lineamenti del volto scolpiti su un incarnato roseo, era palestrato, timido e ironico, a tratti ridicolo, specie quando cercava di fare il figo e l’uomo di mondo.

    Lui, che ancora viveva con i genitori, ascoltava interessato i racconti delle notti in cui l’avvocato di Biella si tratteneva a dormire da me, nel mio appartamento in condivisione - ovviamente quando le coinquiline non c’erano. Lui, con indosso solo i boxer e gli occhiali da vista, alto e slanciato, rimaneva in piedi senza muovere un dito, impalato a guardarmi mentre preparavo un bagno caldo in una notte gelida di dicembre. Un via vai dalla cucina al bagno con pentole d’acqua riscaldata perché lo scaldabagno non aveva abbastanza autonomia.

    Claudio, così lontano da quella mia arte dell’arrangiarsi, più grande di me e più realizzato di me, si fingeva supergiovane in quella casa in affitto priva di qualsiasi comfort come la Jacuzzi e la mega sala da pranzo che aveva a casa sua. Casa di studenti, con il materasso con le molle rotte, sopra il quale facevamo l’amore con impeto sino a quando la branda, camminando un centimetro alla volta dopo ogni colpo, arrivava a sbattere contro l’armadio davanti e ridevamo sudati… i suoi occhiali sul mio comodino, le sue mutande bianche sull’antiquato boudoir specchiato anni settanta della tripla, muri coperti con carta da parati beige abbelliti, a discrezione mia e delle coinquiline, da poster e da foto attaccati qua e là alla rinfusa.

    Alaska subiva anche le mie lamentele nei periodi di silenzio in cui Claudio spariva e partiva da solo o con la fidanzata per i Tropici o per l’isola della Réunion. Ultimamente frignavo anche perché le mie coinquiline non mi volevano più bene.

    In pratica, ogni giorno arrivava in studio, appoggiava la borsa, si sedeva alla scrivania, accendeva il pc e mi guardava, in attesa di ricevere il biglietto giornaliero per le montagne russe del mio umore.

    Qualche volta, anche Alaska trovava il modo di raccontarmi dei suoi strani amici del varesotto, rivali in amore e compagni di bevute e festini che si svolgevano in una casa variopinta, di concerti e di musicisti che indossavano cappotti zebrati e manette di peluche rosa e che amavano il rock degli anni ’80 e i Motley Crue.

    Mi raccontava di un capodanno nel quale era stata sfiorata la rissa a causa del tasso alcolico degli invitati e di un soprannome sbagliato.

    Le sue storie non erano noiose: il Jack Daniel’s scorreva sempre a fiumi, le corna abbondavano, così come le belle ragazze che creavano scompiglio. Una di loro, aspirante modella, appariva sul sito web del fidanzato chitarrista senza reggiseno! Per la precisione, si trattava del sito del gruppo musicale glam rock Razzle Dazzle di cui Alaska mi parlava spesso, era bellissimo: tutto colorato e allegro, merito del web master e amico dei ragazzi Margu.

    Apprezzavo la modernità e libertà dei costumi di questi ragazzi del nord Italia e amavo ascoltare le scanzonate storie di Alaska, dove lui recitava sempre la parte del deus ex machina, cui era toccata in sorte una comitiva di amici strani e sopra le righe.

    Per me quello non era certo un bel periodo: il mio fidanzato restava beatamente in Sardegna e non pensava proprio di venirmi a trovare a Milano; il lavoro non mi permetteva di tornare a Cagliari per fargli visita. Mi stavo barcamenando con la professione legale da qualche mese ed era molto impegnativo: uscivo la mattina e tornavo la sera, a volte molto tardi per ultimare la redazione di parti di atto, fare delle fotocopie o svolgere qualche ricerca giurisprudenziale. Qualche volta il dominus, ovvero il principale dello studio legale, l’avv. Pardi richiedeva la mia presenza in studio anche di sabato… per dettarmi il libro che aveva in testa, Le lezioni dell’avvocato.

    Le mie coinquiline invece frequentavano ancora l’università e la medesima facoltà, trascorrevano insieme quasi l’intera giornata a casa e si facevano compagnia, studiavano, si interrogavano, insomma, condividevano momenti.

    La mia sensibilità, all’epoca, non mi permetteva di mettere a fuoco le loro esigenze, ero troppo concentrata su me stessa, ma avevo notato un loro lento e graduale distacco da me.

    Al distacco era seguita una malcelata ostilità.

    Io assorbita dal lavoro, assorbita da me e dai miei casini ero come un cellulare spento: irraggiungibile!

    Con il senno di poi, devo dire che non ero molto collaborativa nelle faccende di casa: non facevo la spesa, non pulivo la casa, tornavo a casa intorno alle venti e quindi neppure cucinavo; d’altra parte, però, le invitavo alle feste, partecipavo alle spese, pagavo l’affitto e non russavo… anche se parlavo nel sonno.

    Nonostante Lella fosse mia amica dagli anni del collegio e avessimo condiviso assieme un milione di serate belle, brutte, di intime confessioni, di pianti, di gioie e successi, di sessioni di trucco dove mi sottoponevo al suo estro creativo, ora sembrava averne abbastanza di me.

    Ora che Giovanna era partita e aveva preso il suo posto Federica, avevamo perso il nostro equilibrio e io ero diventata palesemente di troppo.

    Una sera a tarda ora litigammo per un interruttore della camera da letto acceso da Lella quando io già dormivo, evidentemente con l’intento di farmi un dispetto e svegliarmi: quel litigio decretò la fine della convivenza.

    Alle mie rimostranze Lella vomitò con tutta la cattiveria possibile il suo astio, costringendomi, per calmarmi, a scappare e chiudermi in bagno nell’attesa che smettesse di gridare.

    I litigi tra me e Lella negli anni non erano mai mancati ma, questa volta, la rabbia mi faceva tremare. Avrei voluto darle un pugno e fracassarle gli occhiali sul naso ma, se mi fosse saltata addosso, mi avrebbe letteralmente schiacciata sotto il suo peso!

    Lella era piccola di statura ma piuttosto robusta, come un boilerino da cinquanta litri.

    Tendeva a essere cattiva e invidiosa ma, nei periodi migliori, riusciva a interpretare la parte dell’amica più grande e più saggia che, per il tuo bene, ti sottopone a giudizi impietosi, Sei un angelo blasfemo, a volte mi diceva e forse era un complimento.

    Dopo mille litigi e riappacificazioni eravamo giunte al punto di non ritorno: si era coalizzata con quella gran troia di Federica per farmi fuori. Federica, che aveva conosciuto da qualche mese mentre con me vantava anni di amicizia.

    Dovevo andarmene via di casa di mia spontanea volontà, mi dovevo organizzare e per questo avevo bisogno di un po’ di tempo.

    Per il momento evitavo di respirare l’aria di congiura che alleggiava su di me e, dopo il lavoro, temporeggiavo sempre prima di tornare a casa: facevo la staffetta da una compagnia all’altra, nella speranza di poter rincasare di soppiatto quando Stanlio e Ollio - così ormai le chiamavo - già dormivano.

    Alaska mi proponeva ogni tanto serate e gite fuori porta e scambiava il mio disperato bisogno di svago per interesse, romanzava con me sui rischi che correva nel portare a spasso una ragazza già fidanzata con un sardo gelosissimo, nonché amante di un avvocato di successo!

    In realtà il mio uomo si godeva le prime belle giornate di mare al Poetto e non pensava certo ai miei problemi di convivenza. L’amante invece si era offeso e non mi chiamava da un bel po’, da quando una sera, stanca dal lavoro e complice l’abbondante cena appena consumata, mi ero addormentata su di lui mentre facevamo l’amore.

    I sabati a Milano arrivavano come dispetti, sottraendomi al lavoro che riusciva a tenermi impegnata e io - per il costo di una piega riccia - mi trattenevo svariate ore dal parrucchiere.

    Mi sentivo alla deriva: mi mancava il sorriso di Giovanna, la mia migliore amica, la mia sorella elettiva, che ormai da qualche mese si era trasferita in Puglia. Mi aveva scritto poco dopo essere partita, Eccoti il mio pugno stretto sulla penna, eccoti me.. il mio bene, la mia immensa e quotidiana nostalgia di te, tu sei il mio grande rimpianto, era tornata a casa per studiare magistratura.

    Buona, solare e abbondante come una torta con i canditi la mia amica Giò, mentre Federica era sottile, spigolosa ed esile come un bastoncino di liquirizia. Sorridente la prima, ammaliante e traditrice la seconda.

    Eppure inizialmente mi era stata pure simpatica: Federica, faccia di madonna crocifissa, occhi languidi tristi e labbra serrate in una espressione seria, spalla a spalla aveva partecipato alle migliori serate al Plastic di quell’epoca. Si infilava in un miniabito che avvolgeva il suo corpo snello e mi seguiva nella notte milanese, sempre all’altezza della situazione, sempre imperturbabile, sempre di poche parole, seduta sui divanetti del locale tra Fabrizio e Damiano che si baciava con uno mentre l’altro aspettava il suo turno. Era uno spettacolo! Federica, da grande artista, si alternava e si concedeva ai due, contenti e soddisfatti del suo ingresso nel gruppo.

    Si concedeva nonostante tutto con classe, socchiudendo gli occhi dalle lunghe ciglia e scavallando le lunghe gambe affusolate.

    Nella disarmonia domestica che si viveva non riconoscevo più la donna sensuale che avevo portato in giro per locali, ma solo un fantasma che si dileguava ogni volta che entravo a casa. A differenza di Lella non aveva neppure interesse ad affrontarmi a viso aperto.

    La vita in quella casa era davvero insostenibile e Alaska ancora una volta provava a strapparmi alla noia e al disagio di un ennesimo weekend.

    Mi invitava in uno strano locale fuori Milano: era la fine di maggio e mi voleva presentare i suoi cari amici musicisti, i Razzle Dazzle, che sotto i pantaloni attillati, ci teneva a precisare mentre mi conduceva alla serata, non indossavano le mutande.

    Nel locale, che altro non era se non un capannone disperso nella campagna dell’hinterland, si respirava glam rock. Sino a quel momento, per me i massimi rappresentanti di questo genere musicale erano stati esclusivamente i famosi Mirko e Satomi dei Bee Hive, protagonisti di un cartone animato giapponese che guardavo da bambina. Notavo però che la capigliatura dei ragazzi al bancone ricordava lo stile dei cantanti trasmessi negli anni ’80 da Disco Ring.

    A modo loro tutti curatissimi e attenti al look: nonostante il caldo c’era chi indossava stivali borchiati, chi stivali texani, altri stivali da biker, vedevo improbabili cappelli da cowboy, guantini di pizzo, catene e gilet; alcuni ragazzi erano addirittura truccati e cotonati da fare invidia. Le ragazze, più o meno, sembravano normali: stivaletti, minigonna e calze a rete alla Loredana Bertè.

    È arrivato Zucca, andiamo a salutarlo, Alaska richiamava la mia attenzione.

    Zucca, o meglio Alex, era là in piedi, gli occhi stanchi e gonfi, un sorriso appena accennato sul volto. Sembrava venire fuori da settimane di stravizi, chiacchierava con altri capelloni e teneva un bicchiere in mano.

    Sfoderavo il mio migliore sorriso, decisa a conquistare la sua simpatia… istintivamente volevo piacergli.

    Volevo piacere a uno sconosciuto, che poi tanto sconosciuto non era, a uno dei personaggi fantastici dei racconti di Alaska, un chitarrista mezzo satiro che, serenamente stanco e intrigato, mi guardava come se fossi stata la vera sorpresa della serata.

    Mentre mi dirigevo verso il gruppo pensavo che mi sarebbe piaciuto stupirlo, mostrandomi

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