Domus

Turandot Opéra national de Paris, 2021

The elegant and the playful, the static and the agile intersect in the scenes and costumes, assigned by eager instinct to a Japanese inspiration with intense distortions apparently rooted in expressionism

Robert Wilson non si aspetta dal bagaglio culturale del pubblico nulla più di un’ingenua benevolenza. Per questo, al di là di ogni velleità di ecumenismo popolare, si rivolge a tutti: dal neofita all’esperto – o presunto tale – e, tra questi, dal bambino all’esteta. Nel caso della , unisce spettatori che hanno percorso, isola dopo isola, l’arcipelago del regista, altri che ne apprezzeranno le tracce a posteriori, altri che finalmente vivono di persona l’esperienza del suo universo, dopo averlo solo assaggiato, altri ancora che vi si avvicinano come a una terra vergine, sempre che oggi questo sia ancora possibile. Forse lo è. La firma e lo stile di Wilson sono inconfondibili, identificabili al. In lontananza, la gamma cromatica sfuma nel ciclorama, con le sue profonde azzurrità, i suoi fremiti lattescenti, i suoi fiammeggianti smalti metallici. Sfumature in sordina si alternano a furore e scoppi in una pienezza rinnovata di continuo: così procede la fama, che avvolge gli umori come un velo calato troppo presto per lasciarne trasparire i dettagli. Sarebbe inopportuno strapparlo via, questo velo, ma converrebbe sollevarne un lembo. Certo, Wilson non cede alle tendenze e il presentismo gli è estraneo. È quindi fuori moda? È rappresentativo solo del passato, sia pure del suo? Lo stile, come una storia, si forma per accumulazione, si costruisce a forza di sfumature e di biforcazioni e, oltre che attraverso la replica di se stesso, si forma attraverso i suoi strappi e le sue contraddizioni, rovesciando il suo rilievo e attraverso i suoi paradossi. Non esistono ingranaggi senza intoppi né auto senza incidenti. La grazia levigata e la rigida dignità sono create dalle spine inserite in questo monolite d’austerità che, pur rischiando di essere riduttivi, è stato subito dato per scontato. Spesso Wilson ha professato e praticato l’arte del contrappunto, talvolta quella dello scarto e dello scollamento atto a smontare la supposta omogeneità del suo universo. Nella sua carriera, spettacoli economici e lussureggianti, solenni e scherzosi si alternano come se fosse il medesimo spettacolo. E poi l’elegante e il ludico, lo statico e l’agile. La sorvegliata eleganza, che l’istinto zelante attribuisce a un’ispirazione giapponese, incrocia intense distorsioni la cui origine, sia pur lontana, si fa risalire all’Espressionismo. Ciascuna tira dalla sua parte, di qua e di là, si collegano, accolgono anche tratti da o da americano. Tutte queste sfumature e registri diventano visibili e si affermano in una giustapposizione che resiste a ogni fusione. Sincretica, l’opera di Wilson non conosce l’esclusione. Anche se poco menzionata, l’ironia non è l’ultima degli invitati, spontanea fino alla facezia. Il tempo di un sogghigno e di una strizzata d’occhio, di un rapido saltello, ginocchia flesse e braccia levate, l’ironia è quella che smorza, accelera e annulla la gravità, prima di metterla in rilievo per contrasto o in proporzione.

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