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Carter: Carter, #1
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Carter: Carter, #1
Ebook299 pages3 hoursCarter

Carter: Carter, #1

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About this ebook

Una storia di amici d'infanzia che diventano amanti.

Questa è la storia di una rockstar in ascesa e di una ragazza innamorata.

 

Leah

Ero una sciocca innamorata. Dal momento in cui l'avevo visto, Carter Matheson era sempre stato quello giusto per me. Desideravo solo che lui ricambiasse i miei sentimenti. Siamo cresciuti insieme in povertà, cercando conforto l'uno nell'altra attraverso il nostro amore per la musica. La sua voce mi ha fatto perdere la testa. Cantava come un angelo, facendomi dimenticare per un po' che il mio amore non corrisposto mi avrebbe distrutta.

 

Pensavo che sarei andata in capo al mondo per lui. Pensavo che il mio futuro al suo fianco fosse scolpito nella pietra. Ma, di fronte a una decisione che cambierà per sempre le nostre vite, devo scegliere quali sogni seguire.

 

I miei o i suoi.

LanguageItaliano
PublisherGrey Eagle Publications
Release dateApr 24, 2024
ISBN9781643667737
Carter: Carter, #1

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    Carter - R.J. Lewis

    CARTER

    CARTER, #1

    R.J. LEWIS

    Grey Eagle Publications

    INDICE

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Carter

    Capitolo 5

    Carter

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Carter

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Carter

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Carter

    Capitolo 14

    Carter

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Carter

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Carter

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Carter

    Estratto da Ignite - Noi due siamo una scintilla di R.J. Lewis

    Estratto da Il nodo di Pam Godwin

    Informazioni sull’Autrice

    CAPITOLO UNO

    Sono innamorata di Carter da quando avevo dieci anni. È iniziato tutto nel giorno in cui l'ho visto trasferirsi nella roulotte accanto alla nostra, con suo padre che gli urlava di muoversi a uscire dalla macchina. Era l'estate del 1999, faceva caldo e il campo caravan puzzava di spazzatura e di fumo. Rannicchiata in silenzio sul portico, lo guardai mentre scendeva dal vecchio furgone e la prima cosa che notai nella mia mente innocente fu quanto fosse alto.

    Mi piaceva l'altezza.

    Mi piacevano anche i suoi capelli. Erano biondo scuro, arruffati, e avevano seriamente bisogno di essere pettinati. Cercò di passarsi le dita in mezzo a quel groviglio mentre si avviava con un'andatura insolitamente lenta verso la roulotte. Il suo volto era abbattuto mentre si dirigeva verso la porta d'ingresso, come se questo fosse l'ultimo posto in cui voleva trovarsi. Notai che le sue mani si stringevano in pugni mentre si avvicinava a suo padre.

    Quando lui scomparve all'interno, il padre alzò lo sguardo e, con mia grande sorpresa, incontrò il mio. Mi sentii rizzare i peletti sulla nuca. Aveva un aspetto spaventoso e mi ricordava mio zio quand'era arrabbiato. Sarei entrata di corsa se avessi potuto, ma il suddetto zio mi aveva cacciata fuori per affari. Ogni volta che aveva degli affari, ciò consisteva nel costringermi a stare fuori per ore. Degli sconosciuti andavano e venivano, tutti uomini con occhi strani e affamati. Quando alla fine venivo riaccolta in casa, vedevo zia Cheryl raggomitolata nel suo letto con le coperte addosso. Lo zio Russell contava i soldi nel piccolo soggiorno con una sigaretta accesa in bocca. Di solito erano i miei giorni preferiti, perché mi chiedeva che tipo di cibo da asporto volevo e io ottenevo quello che desideravo. Era meglio che vivere di maccheroni al formaggio o spaghetti in lattina negli altri sei giorni della settimana.

    Così, quando lo spaventoso padre di Carter mi guardò, mi girai dall'altra parte e fissai il campo caravan con le ginocchia al petto. Pochi istanti dopo, sentii sbattere la porta. Alcuni minuti più tardi, sentii delle grida provenire dall'interno e girai la testa in direzione della roulotte per ascoltare, ma non riuscii a distinguere nulla.

    Ero una ragazzina ficcanaso. Solo perché mi sentivo sola. C'erano molti bambini in giro, ma erano per lo più maschi e allo zio Russell non piaceva che io avessi molti maschi intorno. Passavo la maggior parte del tempo seduta sul portico a guardarli giocare. Di solito tiravano calci a un pallone in un pezzo di terra tra le roulotte, vicino a un parco fatiscente in cui nessun genitore avrebbe osato far entrare i propri figli. Erano ragazzi di tutte le età e alcuni di loro mi dicevano parole sprezzanti che, all'epoca, non capivo. Naturalmente, crescendo, avrei imparato cosa significavano.

    Quando Carter alla fine uscì e si mescolò alla folla, il mio corpo si irrigidì e un formicolio mi attraversò il petto fino alla bocca dello stomaco. Era alto, con i capelli chiari e bellissimo. Un ragazzino di quasi dodici anni, che non girò mai la testa a guardarmi. Lo osservai integrarsi naturalmente tra i ragazzi, diventando molto popolare tra loro senza nemmeno provarci.

    Non era il suo atteggiamento disincantato a far sì che i ragazzi si sottomettessero a lui. Era il fatto che Carter non aveva paura. Non temeva nessun bambino, a prescindere dalla stazza, ed era inaudito essere così in un posto difficile come quello in cui vivevamo, dove gli adulti che avremmo dovuto ammirare erano in realtà i cattivi della nostra storia. In cambio, i bambini lo volevano dalla loro parte e lo guardavano come se fosse oro in mezzo a un mare di spazzatura.

    Per me, lui era proprio così: lucente e brillante, liscio ma duro, e bello oltre ogni cosa io avessi mai visto.

    Come me, Carter passava la maggior parte del tempo all'aperto. Anche quando faceva molto caldo sotto il sole cocente, lui ed io stavamo fuori. Allontanandomi dalle discussioni di zia Cheryl e zio Russell, fuggivo dal portico e seguivo Carter in giro. Di solito, lui aveva un pallone da basket in mano e lo faceva rimbalzare su e giù per la strada, con la maglietta tolta e legata intorno al collo. E io ero lì, venti passi dietro di lui, nascosta dietro gli alberi e le macchine, con indosso solo un prendisole rosa e dei sandali logori.

    Lui faceva rimbalzare il pallone da basket fino a uscire dal campo caravan, sbattendolo con forza contro l'asfalto, attraversava la strada ed entrava nella riserva naturale. E io gli andavo dietro ogni volta, superando la boscaglia, mentre lui raccoglieva la palla e si fermava vicino a un ruscello. Si toglieva le scarpe e faceva riposare i piedi nell'acqua, all'ombra. Avrei voluto avere il coraggio di avvicinarmi, di sedermi accanto a lui e immergere i piedi doloranti nell'acqua rinfrescante. Invece, scacciavo le zanzare e mi spostavo continuamente i capelli biondo scuro e sudati da una spalla all'altra.

    Restavo ad ammirarlo, aspettando con impazienza che aprisse la bocca e facesse quello che faceva quando credeva di essere solo.

    Cantare.

    Aveva una voce morbida e profonda, che risuonava da dentro; ti faceva venire voglia di piangere se chiudevi gli occhi e restavi ad ascoltarla. Cantava spesso la stessa canzone e avrei voluto sapere perché. Volevo capire cosa significasse per lui.

    Thank You dei Led Zeppelin gli fluiva dalle labbra, suonando meglio dell'originale.

    If the sun refused to shine, I would still be loving you

    When mountains crumble to the sea, there will still be you and me.

    Il fastidio che provavo valeva la pena. Pur di ammirare Carter, accettavo volentieri le zanzare sulla pelle bruciata dal sole. Lasciavo che mi pungessero finché non ero ricoperta di bolle rosa e pruriginose dalla testa ai piedi. Lui mi incuriosiva troppo per curarmene. Credo che, a volte, a pizzicarmi il cuore fosse il modo in cui osservava l'ambiente circostante con uno sguardo lontano in volto. Vedevo così tante emozioni quando cantava. Si comportava da duro. Voleva che tutti pensassero che era in grado di cavarsela da solo e, per lo più, ci riusciva. Tuttavia, dopo aver trascorso un'intera estate con gli occhi puntati sulla sua testa ad ascoltare la sua voce soul, capivo quello che gli altri non sapevano.

    Carter era distrutto. Era solo e triste. Era senza una madre e senza l'amore di un padre, che, quando non beveva per dimenticare i dispiaceri, certe sere lo conciava per le feste. Era come me per molti aspetti e, con ogni fibra del mio essere, volevo andare da lui e dirgli che non era solo. Volevo dirgli che sapevo cosa significasse restare senza madre, essere lasciati soli senza un briciolo di amore in una zona trascurata e povera; andare a letto affamati e stanchi e non desiderare altro che otto ore di sonno senza il rumore di cani che abbaiano, coppie che urlano e bambini che piangono.

    Ma non andai da lui. Per due anni, lo osservai da lontano, invisibile come sempre. Finché, un giorno, accadde. Fu inaspettato e io non ero preparata al fatto che lui entrasse nella mia vita in quel modo.

    Ci volle uno stronzetto cattivo per indurlo a guardarmi e fu allora che le nostre vite si intersecarono e diventarono una sola.

    CAPITOLO DUE

    Primavera del 2001

    12 anni

    Mia madre dice che tua zia è una puttana dichiarò Graeme, fermandosi davanti a me mentre mangiava il suo ghiacciolo viola.

    Eh, già, un altro giorno di bullismo.

    Ero seduta distrattamente sulla panchina del parco che si affacciava sul campo da basket, intenta a tingermi le unghie di un rosso rosato mentre ammiravo Carter, ormai tredicenne. Quel giorno, lui era bellissimo: indossava una canotta bianca oversize che metteva in risalto la sua pelle abbronzata. Stava organizzando le squadre, quando questo stronzetto si mise a rovinare tutto. Io lo ignorai, però, e ripresi a dipingermi le unghie dei piedi.

    Graeme istigava sempre alle risse. Se la prendeva con tutti, purché fossero più minuti e più giovani dei suoi tredici anni. Per dirla tutta, era un patetico bullo quando riusciva a farla franca. E, purtroppo, la faceva franca spesso.

    Dice che anche tu diventerai una puttana continuò. Dice che tuo zio sta solo aspettando che cresci un altro po'. Diventerai una puttana come tua zia. Mi stai ascoltando, Leah? Una puttana!

    Ok, Graeme gli risposi semplicemente, incurante delle sue parole.

    Non era la prima volta che qualcuno me lo diceva e, ora che avevo dodici anni, ero molto più consapevole di quello che succedeva davvero in quella roulotte in certi giorni. Non avevo bisogno che questo stronzetto sadico me lo raccontasse.

    Ah, allora ti va bene così mi disse. Ho tre dollari in tasca. Vuoi cavalcarmi come tua zia cavalca quegli uomini?

    No.

    No? Posso radunare dei ragazzi e mettere qualche moneta in più, se fai la taccagna.

    No ripetei distrattamente.

    Non avevo bisogno di guardarlo per capire che molto probabilmente stava diventando viola per la rabbia. Cercava una reazione da parte mia e non sembrava rendersi conto che ero insensibile a tutto questo. Crescere con persone scurrili era la norma per me. Graeme era troppo innocuo per curarmene.

    Udii i suoi passi e, prima che potessi alzare lo sguardo, lui afferrò il mio smalto e lo gettò a terra con forza. La boccetta non si ruppe come lui avrebbe voluto. Colpì il terreno morbido con un tonfo, ma il danno era stato fatto. Il liquido fuoriuscì, rovinando il verde brillante dell'erba. Fissai per un attimo lo smalto e riuscii a pensare soltanto alla zia Cheryl, che me lo aveva regalato per il mio dodicesimo compleanno, tre settimane prima, e a quanto fossi stata felice di riceverlo. L'avevo aperto per la prima volta solo quella mattina e ora era rovesciato, spargendo fino all'ultima goccia il colore che sarebbe dovuto servire per farmi bella.

    Le puttane non si mettono lo smalto! Graeme mi urlò contro.

    Sentii il sangue affluirmi alle orecchie. Il mio battito accelerò e la mia pelle si imperlò di sudore.

    Le puttane non sono fatte per essere belle!

    Le mie dita si contrassero mentre i miei occhi vedevano rosso.

    Rosso rosato ovunque.

    Rosso rosato che avrebbe dovuto essere su di me.

    Le puttane come te non meritano cose belle...

    Le sue parole si spensero e uno strillo acuto gli fuoriuscì nel momento in cui lo buttai a terra. In preda a un attacco di rabbia accecante, strinsi le mani in pugni e glieli scagliai addosso.

    Il piccolo mostro voleva una reazione?

    Gliene avrei data una che non avrebbe mai dimenticato!

    Mi respinse quasi all'istante, scaraventandomi via da sé e saltandomi addosso. Mi colpì in faccia e mi tirò i capelli. Mi dimenai sotto di lui, coprendomi il viso con un braccio e graffiandogli la gola sudata con la mano libera. Non mi importava che mi facesse male, perché provavo l'impeto di restituirglielo con uguale intensità.

    Era un caos, davvero. Graeme era uno stronzetto debole e aveva appena incontrato pane per i suoi denti. Nessuno dei due aveva la meglio e io ero troppo disorientata per capire cosa stesse succedendo. Non sapevo se stavamo lottando da minuti o addirittura da meri secondi. Il mio cervello si era spento e il mio corpo faceva tutto il lavoro, agendo di sua spontanea volontà, attaccando Graeme con tutta la forza che mi era rimasta. Stavo in silenzio, oltretutto. Nemmeno una parola mi usciva di bocca, tranne qualche grugnito. Ero tutta adrenalina e determinazione. Chi avrebbe mai detto che una ragazzina gracile come me ne avesse la forza? Io no di certo. Aspettavo che la mia codarda interiore lo implorasse di fermarsi, ma mi bastava solo pensare alla fine che aveva fatto il mio povero smalto e al fatto di avere di nuovo delle brutte unghie dei piedi.

    Non volevo avere le unghie brutte. Avevo avuto troppo poco dalla vita per accettare di rinunciare all'unico prodotto di bellezza che avessi mai posseduto. Potevo sopportare l'abuso verbale. Diamine, Graeme avrebbe potuto andarsene dopo avermi dato della puttana; io l'avrei sopportato e lui avrebbe potuto avere la sua piccola vittoria.

    Ma si era spinto troppo in là.

    Sentii dei rumori intorno a noi e poi il peso di Graeme su di me si alleviò del tutto. Non appena mi resi conto che stavo colpendo l'aria, smisi subito. Quando mi scostai il braccio dal viso, vidi un corpo alto piegarsi verso il basso, afferrare Graeme e scagliarlo via da me. Vidi capelli biondi arruffati, una canotta bianca e la pelle abbronzata di un ragazzo su cui avevo sbavato fino a pochi minuti prima. Pensai quasi di essermi immaginata tutto. Carter era davvero accorso in mio aiuto? O desideravo così disperatamente che il mio salvatore fosse lui da avere le allucinazioni?

    Che diavolo fai? Picchi una ragazza? ringhiò una voce.

    Avevo ragione.

    Era Carter.

    Troppo sorpresa, mi mossi a malapena mentre lo vedevo dare un calcio nello stomaco a Graeme. Quest'ultimo cadde sul fianco, gemendo: Mi ha colpito prima lei!

    E perché ti ha colpito per prima, coglione?

    Graeme non rispose. Girò la testa e mi guardò. C'era una tempesta di rabbia in quegli occhietti, mentre mi fissava come se fossi io la causa di tutto. Lo fissai a mia volta, sollevando un angolo della bocca, incitandolo silenziosamente a fare qualcosa. Mi sentivo intoccabile con Carter tra noi, che mi proteggeva come se fossi una damigella in pericolo da salvare.

    Graeme tenne la bocca chiusa, anche quando Carter lo colpì di nuovo. Non appena i ragazzi che si erano radunati intorno a noi cominciarono a ridere di lui, si affrettò ad alzarsi e si mise a correre, ma non senza ricevere un calcio nel sedere da parte di Carter, che lo fece ruzzolare a terra. Dopo aver piantato la faccia al suolo, si asciugò il sangue che gli colava dal naso malconcio e si mise di nuovo a correre, scomparendo nel campo caravan, dove probabilmente avrebbe trascorso qualche giorno nascosto, a riprendersi.

    Sì, corri via, piccola serpe! gli urlò dietro Carter, mentre i suoi amici risero e imitarono i versi di un serpente selvatico.

    Quando si girò verso di me, con un sorrisino all'angolo della bocca, mi irrigidii e lo fissai con stupore. Il cuore mi batteva forte nel petto, ma non era più a causa della rissa. Per la prima volta da... beh, da sempre, Carter Matheson mi stava fissando. E non stava guardando oltre. I suoi occhi erano concentrati sul mio viso prima di scorrere giù sul mio corpo. Le sue sopracciglia si sollevarono un tantino nel vedere quello che indossavo: pantaloncini corti e un top con spalline sottili che mi arrivava all'ombelico. Non era del tutto colpa della mia mancanza di pudore, dato che lo zio Russell la incoraggiava senza dire nulla. Inoltre, le ragazze della mia età si vestivano come me in massa da quelle parti. All'epoca, non ci davo peso.

    Con il fiato sospeso, guardai Carter fare qualche passo verso di me. Coprì il sole con la sua statura e mi fissò. Per qualche secondo, vidi solo lui e nient'altro. Mi cadde il mondo addosso quando mi tese la mano. I miei occhi guizzarono sul suo palmo aperto e l'avrei preso, se non fossi rimasta bloccata a terra per lo shock.

    Dai, Leah, lascia che ti aiuti mi disse con la voce più dolce che si potesse immaginare.

    Leah.

    Sapeva il mio nome. Non so dirvi cosa questo suscitò in me. Per tutto quel tempo, avevo creduto di essere un oggetto dimenticato sullo sfondo della vita di Carter. Ma no.

    Lui... sapeva il mio nome.

    Deglutii e allungai la mano verso la sua. Mi aspettavo che scoccasse la scintilla di elettricità tra di noi... Sapete, quella deliziosa connessione che si sente quando si incontra qualcuno che ci ha colpiti con la sua bellezza? Non l'avevo mai provata prima e l'aspettavo con ansia. Invece, sentii calore quando lui mi tirò in piedi. La sua pelle era ruvida e la strinsi ancora per un attimo, sentendomi attraversare da un piacevole fremito prima di lasciarla.

    Posso ancora rammentare ogni minimo dettaglio di quel momento. Ho passato notti intere a riviverlo. Posso dirvi che ero rapita dai suoi occhi blu artico; che il sorriso sul suo volto si era attenuato mentre mi fissava con pari intensità; che il suo petto si muoveva pochissimo, come se anche lui fosse senza fiato. Posso dire che, sebbene non avessimo sentito quell'elettricità toccandoci, riuscivo a percepire qualcosa di simile scorrere tra noi. Forse era la mia immaginazione, ma non credo. Almeno, mi piace pensare che fosse reciproco.

    Doveva essere così.

    Pensi di raccontarmi com'è andata? mi chiese all'improvviso.

    Graeme è solo un bullo gli risposi con voce tremante.

    Lui abbassò improvvisamente lo sguardo, con le sopracciglia aggrottate. Seguii la sua linea visiva. Spostò il piede da sopra qualcosa e imprecò quando si guardò sotto la scarpa e vide le striature rosse. In quel momento notai lo smalto e rimasi inorridita dal colore che aveva rovinato la suola della sua scarpa. Mi chinai per raccoglierlo proprio mentre lui faceva altrettanto e le nostre teste si scontrarono. Barcollai all'indietro e, proprio allora, lui mi afferrò il braccio e mi sorresse. Guardandomi con un sorriso da infarto, mormorò: Scusa, piccola. Lascia che lo prenda io.

    Piccola.

    Scusa, piccola.

    Oh, mio Dio! Sarei stata felice di sbattere la testa contro la sua per tutto il giorno pur di sentirmi chiamare così.

    Lui raccolse il mio smalto e si raddrizzò. Ormai i ragazzi intorno a noi si erano per la maggior parte dispersi, compresi i suoi amici, che erano tornati a giocare sul campo. Lo guardai esaminare la boccetta, prima che abbassasse lo sguardo sui miei piedi nudi. Rabbrividendo, mi resi conto che le mie unghie erano un

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