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L'ultimo caduto
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L'ultimo caduto

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La sera del 10 giugno 1940 la notizia che l’Italia è entrata in guerra fa riaffiorare in due anziani coniugi di un paesino friulano il ricordo degli eventi accaduti nel corso del conflitto del 1915-1918.
L’uomo, uscito dalla guerra con la mente devastata, rivive il drammatico episodio che, nel corso della seconda battaglia dell’Isonzo (18 luglio-3 agosto.1915), lo ha profondamente e irrimediabilmente segnato.
La moglie, invece, per spiegare al nipotino il motivo per cui suo nonno è impazzito in guerra, narra gli eventi accaduti in quel periodo e in particolar modo nel 1915, anno in cui il territorio del paesino fu interessato dal passaggio di soldati provenienti da ogni parte d’Italia.
LanguageEnglish
Release dateJun 23, 2017
ISBN9788826459110
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    L'ultimo caduto - Gabriele Falco

    2015

    I

    Dalle case del paese, quella sera del 10 giugno 1940, non si sentiva provenire un alito di vita. L’atmosfera cupa e greve che incombeva minacciosa ovunque era penetrata, serpeggiando insidiosamente tra vie e vicoli, al loro interno, togliendo alle famiglie che le abitavano la tranquillità di quel particolare e atteso momento della giornata consacrato al riposo nell’intimità delle mura domestiche. La consueta parca, ma festosa, cena che ne riuniva i membri attorno alla tavola, con un sentimento di soddisfazione misto a gratitudine, stavolta veniva consumata quasi in silenzio ovunque. 

    Nei volti di ciascuno si poteva scorgere un’espressione mesta e intimidita, che nelle donne assumeva le tinte della preoccupazione e dell’angoscia. Perfino i bambini, la cui vivacità tendeva ad aumentare in tale occasione, tanto che sovente i genitori dovevano riprenderli, se ne stavano mogi e spauriti. I più piccoli cercavano rifugio tra le braccia delle madri, stringendosi al loro seno con viso e voce piagnucolosi. E in risposta ricevevano una stretta convulsa accompagnata da qualche singhiozzo o lacrima disperatamente repressi e interminabili carezze che, per la loro ruvidità ed enfasi, assomigliavano a una scarica di piccoli schiaffi. 

    In quelle madri che si premevano contro il petto i figioletti pareva di rivedere uno di quei dipinti raffiguranti la strage degli innocenti, tanta era l’ansia feroce che le pervadeva. Era come se davanti a sé avessero le rapaci mani dei soldati di Erode protese a ghermire le loro creature. 

    Di tanto in tanto, tra un vagito e un piagnisteo, si sentiva una voce di donna che intonava una nenia o una cantilena, ma in esse non si avvertiva il solito tono calmo e rassicurante che aveva il potere di conciliare il sonno ai piccoli.

    Un altro particolare, quella sera, colpiva all’interno delle case: l’assenza di uomini; fatta eccezione di quelli più vecchi, i quali sedevano come sempre a capotavola o, se la cena era terminata, vicino al focolare alla cui catena pendeva il calderone con l’acqua calda per lavare le stoviglie, fumando pensosamente la pipa o attendendo a qualche piccola    incombenza. Nel tardo pomeriggio squadre di camicie nere -certe facce di Giuda mai viste prima da quelle parti-  avevano battuto in lungo e in largo centri abitati e campagne, costringendo a salire sui loro camion tutti gli uomini che incontravano. Di lì a poco, avevano detto, il Duce avrebbe rivolto agli Italiani un importantissimo discorso. Nessuno poteva esimersi dall’ascoltarlo. Per questo erano stati individuati dei punti di raccolta nei quali si sarebbe potuta ascoltare la sua voce via radio. Gli uomini del paese e dei suoi dintorni furono trasportati presso un’osteria munita di radio. Lì, alle diciotto in punto, essi avrebbero udito, contemporaneamente a milioni di persone, la voce di Benito Mussolini.

    Tuttavia, nonostante l’aura di mistero che avvolgeva quell’importante discorso, ognuno nel suo cuore ne indovinava, con crescente sgomento, il contenuto. Nessuno, infatti, in quelle contrade, ignorava quanto stava avvenendo da qualche tempo a quella parte. Ciò che si era cercato di tenere segreto alla maggior parte degli Italiani, in quella zona di confine era trapelata e da giorni era oggetto di furtivi e frettolosi discorsi. Pertanto, quando la gracchiante voce alla radio gridò che era venuta l’ora delle decisioni irrevocabili, non fu la sorpresa a colpire quella gente, ma un moto di rabbia e allo stesso tempo di angoscia. Ecco, dunque, la straordinaria notizia che ciascuno avrebbe recato ai propri cari, quella sera. Proprio una bella notizia, non c’era che dire. Il mesto ritorno si compì a piedi, perché le camicie nere, euforiche e avvinazzate, erano risalite sugli automezzi e se ne erano andate cantando a squarciagola i loro bellicosi inni.

    II

    La casa di Giovanni Bernardis, classe 1905, si trovava fuori dall’abitato, immersa nella ridente campagna distesa tra il paese e Palmanova. Egli ci viveva insieme alla moglie, ai tre figli e agli anziani genitori. Si era sposato con Rosina, di due anni più giovane, nel 1926. Andrea, il loro figlio maggiore, era un fanciulletto magro e allampanato di circa otto anni che assomigliava moltissimo alla madre. Di lei aveva il viso lungo e ovale, il naso sottile e lievemente pronunciato e due stupendi occhi di un azzurro chiaro e luminoso come quello del cielo mattutino dopo una nottata ventosa. La corporatura, i capelli lisci e castani tendenti al fulvo e la pelle rossiccia, invece, li aveva ereditati dal nonno paterno. Angela, una vispa bambina di sei anni e mezzo, nei lineamenti del viso tondeggiante e massiccio, in mezzo al quale spiccavano due occhi scuri e penetranti sovrastati da ciglia folte e nere come i capelli, un naso diritto e una bocca carnosa e ben modellata, era il ritratto del padre. Tuttavia della madre aveva il fisico snello e la statura non molto alta. Michele o piçul Micjêl,¹ come veniva affettuosamente chiamato, era l’ultimo arrivato: un paffuto e roseo bambolotto di sedici mesi con due occhioni azzurri e i capelli biondi come quelli del nonno di Cormòns, padre di Rosina.

    I genitori di Giovanni, entrambi appartenenti a famiglie residenti in paese da molte generazioni, si chiamavano Antonio e Lucia. Il primo, nato nel 1877, aveva alta statura e corporatura longilinea, viso asciutto e scavato, occhi di un colore bigio annacquato, naso diritto, bocca dagli angoli lievemente curvati verso il basso, a formare una smorfia come di dispiacere, capelli lenti e candidi leggermente ingialliti sulle tempie. Essi, a quanto a volte si mormorava in famiglia con circospezione, per non farsi sentire da lui -puarin!²-, non avevano assunto quella colorazione in seguito all’età, ma a causa della stessa tragedia che lo aveva ridotto nello stato in cui versava ormai da venticinque anni. Per i bambini, che naturalmente non lo potevano ricordare come era stato prima, la sua figura che si dondolava continuamente avanti e indietro sulla sedia, dalla quale si alzava solo quando veniva condotto a dormire; per i bambini la figura di quel vecchio seduto con le mani penzoloni tra le ginocchia, lo sguardo assente, l’espressione inebetita, la bocca di tanto in tanto aperta da cui fuoriuscivano un ronzìo inarticolato e fili di bava, non era motivo di turbamento, tanto ci si erano abituati. Ma per sua moglie e il figlio, che ne avevano ben altro ricordo -e anche per la nuora-, costituiva un grande e continuo dispiacere. Giovanni, quando suo padre si ridusse in quel pietoso stato, aveva da poco compiuto dieci anni, ma ricordava perfettamente l’uomo che era stato prima di allora. 

    A dire il vero, suo figlio Andrea da qualche tempo aveva iniziato a chiedere in maniera sempre più insistente

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