Mordipiedi il Tenebroso
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Book preview
Mordipiedi il Tenebroso - Paola Alcioni
Paola Alcioni
Mordipiedi
il Tenebroso
illustrazioni di Massimo Congiu
ISBN 978-88-7356-861-2
Condaghes
Indice
Che fine ha fatto Lozana Landi?
Accio
Il numero telefonico inesistente
Nessuno cerca più Lozana Landi
A gambe levate
La Valle delle Miniere Abbandonate
In casa della Venditrice di Mirto
Anni prima, Genesius Landi...
Genesius Landi, prima di scomparire…
Un manipolo di disperati
Su Cràchili
Euforbia
Sa domu de s’Orcu
Is Grutas Scuriosas
Oltre le montagne
L’Antro di Gairo
Flúmini de Aira
Chi ha paura di Lozana Landi?
Il designato
Epilogo
Avvertenze dell'Autrice
L’Autrice e l’Illustratore
La collana Il Trenino verde
Colophon
Che fine ha fatto Lozana Landi?
Scomparve alle prime luci dell’alba di un sabato piovoso, dalla sua casa di Gimisterru.
Addosso aveva soltanto – come poi si chiarì – la sua camicia da notte verdina e la pantofola sinistra.
La sera prima Lozana era andata a letto tardi.
Quando il bruciore agli occhi le fece capire che era il momento di riposare, il marito Vincenzo e il loro figlio Pietro dormivano già da un’ora.
Così, a malincuore, si rassegnò a sospendere il lavoro di traduzione della pergamena, lasciando a metà la terribile storia che vi era narrata.
Spense la luce della scrivania e si sdraiò sul divano, tirandosi addosso un plaid.
Il giaciglio era piacevolmente tiepido. Dei rumori, però, la tennero sveglia ancora per qualche tempo: il verso insistente di un corvo; il vento che agitava con violenza le fronde del pioppo sferzando le imposte; la catena dell’altalena che cigolava, cigolava, cigolava...
Nel dormiveglia, a Lozana tornò in mente l’ultima telefonata del padre – il botanico Genesius Landi – giunta proprio da Gimisterru quando lei abitava ancora in città.
Vi si era recato per condurre una ricerca su quel toponimo, così particolare, e aveva trovato che era il nome locale di una fumariacea, la pallidiflora, erba che deve il suo nome all’odore acre che libera quando è toccata e rimossa – e che fa lacrimare gli occhi come il fumo – e al suo portamento che la rende simile al fumo sul suolo.
Questo aveva comunicato alla figlia, appena prima di sparire senza lasciare traccia.
– Ah, Lozana – aveva poi aggiunto, – qui c’è pane per i tuoi denti. Hai ancora intenzione di scrivere quel libro sugli spauracchi?
Lozana, infatti, era un’esperta di tradizioni popolari della Sardegna. Aveva firmato alcune tra le più famose pubblicazioni sui racconti che riguardano gli esseri fantastici e quelli tenebrosi – janas, panas, súrbiles ed erchitus – e ultimamente aveva cominciato a studiare gli spauracchi, protagonisti di racconti che si usavano per inculcare nei bambini la paura del pericolo: Mommoti, l’Uomo Nero con ampio mantello e sacco, che porta via i bambini disubbidienti e fastidiosi; Sa mama ‘e su soli, strega sempre vestita di bianco, che s’incontra quando ci si attarda al sole nei pomeriggi caldi d’estate; Mama Funtana, strega che s’incontra nelle vicinanze dei pozzi; Maria Puntaoru, che di notte apre la pancia ai bambini golosi, usando uno spiedo…
Qualche tempo dopo la scomparsa di Genesius – appena era nato Pietro – cogliendo l’occasione di un’offerta di lavoro per Vincenzo, Lozana si era trasferita a Gimisterru con la famiglia, con l’idea di continuare i suoi studi sulle tradizioni popolari e di cercare, nel frattempo, tracce del padre.
E là aveva davvero trovato – come Genesius le aveva ben detto – pane per i suoi denti.
In quel luogo, infatti, esisteva uno spauracchio che non era nominato da nessun’altra parte, per quante ricerche e interviste facesse.
Le madri – quando il loro bambino si comportava male tutta la giornata – ammonivano cupamente: – Bada a non tirar fuori i piedi dalle coperte stanotte, ché Mordipiedi il Tenebroso potrebbe venire ad assaggiarteli: gli piacciono i bambini collerici e riottosi…
Lozana aveva catturato molti interessanti particolari con il suo registratore portatile, approfittando di un’abitudine rimasta intatta a Gimisterru: spesso, tutte le famiglie di un vicinato, si riunivano la sera intorno al focolare, per raccontare storie.
Durante una di queste riunioni qualcuno aveva riferito – bisbigliando – che in passato erano scomparsi molti bambini a causa di quest’essere che, con il favore delle tenebre e in compagnia di una strega di nome Orgia Rabiosa, veniva a masticare i piedi dei bambini riottosi.
Si accostava mentre quelli erano immersi nel sonno e – soprattutto se in quel momento lasciavano penzolare i piedi fuori delle lenzuola – li mordicchiava proprio all’attaccatura delle dita, contagiando con quel morso un morbo che li trasformava lentamente in animali.
Ma che non fosse tutto lì, Lozana lo scoprì quando trovò – rovistando nell’archivio storico – una vecchia pergamena che parlava di Mordipiedi.
Quando avesse terminato di tradurla, il libro sugli spauracchi sarebbe potuto andare in stampa.
Nel dormiveglia di Lozana tornò poi un altro ricordo: lo sgomento provato quando – arrivando per la prima volta in paese – avevano fermato l’auto davanti al cartello. Qualche buontempone dallo spirito un poco macabro aveva aggiunto al nome Gimisterru, usando vernice nera, le parole tóriu e di, trasformando così il nome in un binomio per niente beneaugurante: Gimitóriu disterru¹.
E tutto intorno: fumo. Fumo e nebbia, a vista d’occhio, da cui emergevano tetti di un rosso sbiadito e muri scuri.
Un luogo da mettere i brividi.
E l’altalena cigolava, cigolava, cigolava…
Riuscita finalmente ad assopirsi, Lozana sognò di discendere – al buio – una stretta scalinata. Discendeva e discendeva gradini, sfiorando con la mano le pareti di pietra umida e arricciando il naso al tanfo di muffa.
Finalmente si trovò in un ambiente più vasto: un sotterraneo a malapena illuminato da una torcia. Sotto quella torcia, a un tavolo, stava un uomo con una lunga barba grigia, vestito con abiti d’altri tempi.
Lo sconosciuto aveva gli occhi stravolti da un’espressione di terrore. Chino su una pergamena, scriveva in fretta, come se avesse paura di non avere più molto tempo a disposizione.
Lozana, invisibile nel suo sogno, si accostò.
Con stupore, si rese conto che l’uomo compilava una pergamena simile a quella che lei conservava nello studio, stesa sotto una lastra di vetro antiriflesso.
Strano: pareva proprio quella.
L’ignoto compilatore, la cui mano tremava considerevolmente, era giunto quasi alla fine. Scriveva d’essersi nascosto nei sotterranei della torre per tentare di sfuggire a un terribile persecutore che chiamava, nella sua lingua, Mussiapeis su Scuriosu, Il Tenebroso Mordipiedi!
Lozana si chinò con curiosità sulle parole che le erano diventate così familiari in quegli anni di ricerche e durante il lavoro di traduzione.
La mano del compilatore, dopo aver intinto la penna nel calamaio, si accingeva a tracciare l’ultima riga. Tremava talmente però, che per riuscire a scrivere doveva schiacciare il pennino con forza. Così, a un tremito più accentuato, dal pennino sprizzò una miriade di goccioline d’inchiostro, che andarono a imbrattare parte dello scritto.
L’uomo si lasciò sfuggire dalle labbra un lungo gemito, fissando la scalinata con gli occhi pieni d’orrore. La luce della torcia pareva diminuire d’intensità, riducendosi a un fioco baluginio.
Lozana aprì di colpo gli occhi.
– Ehi! – esclamò balzando a sedere sul divano. – Vuoi vedere che sotto quelle macchioline d’inchiostro, sono nascosti dei numeri e non delle parole?
Infilò le pantofole e si alzò. Benché sentisse la necessità di lavarsi il viso e bere un caffè, non entrò nel bagno, né in cucina.
Come ogni notte, Pietro aveva lasciato socchiusa la porta della sua cameretta. Quella sera, per cena, avevano ordinato le pizze e Pietro, nonostante sapesse bene da passate esperienze che era indigesta e gli procurava gli incubi, aveva preso quella al tonno e cipolle. Lozana indugiò ad ascoltare il respiro di suo figlio: le sembrò regolare, dunque proseguì verso lo studio.
La serranda della finestra era rimasta sollevata. Di là dai vetri, il giardino era ancora avvolto nell’oscurità violacea delle albe ventose.
Che strano, avrebbe giurato d’aver visto, su quel ramo basso, i