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Train du rêve. le passioni di una viaggiatrice solitaria
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Train du rêve. le passioni di una viaggiatrice solitaria

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Le passioni di una viaggiatrie solitaria, lo spirito del vagabondaggio, corpi di sconosciuti incrociati per caso o per destino, ogni stazione una soglia, incontri imprevisti capaci di ipnotizzare, sinfonie di ricordi cullati dai vagoni, vite che si intrecciano sui binari: il passato che ti segue da lontano, la musica e lei, la viaggiatrice, che si muove fluida, sensuale, sinuosa, senza limiti o costrizioni, lei che guarda, che incontra, che si incontra, lei che scompare.
Una folle, dolente, appasionata dichiarazione d’amore per il viaggio, per le cicatrici del tempo sui volti, per l’odore delle pensiline dove muoiono gli amori, per le storie da ascoltare e per tutte le desitnazioni che spesso riusciamo solo a smarrire.

"..Decidere di scrivere un romanzo corale è per un autore tra le sfide più rischiose, capita facilmente di allentare le fila, perdere il controllo del ritmo e sacrificare la compattezza della narrazione. Dando vita a un suggestivo involucro di strati narrativi in cui sovrapposizione dei punti di vista e andirvieni dei piani temporali non mancano mai di armonizzare, Francesca Mazzucato stravince, invece, la sfida e regala ai lettori un romanzo bellissimo, forse il suo più bello, certamente il più poetico.. "Costanza Ciminelli, su Mangialibri,

"Credo di poter dire che “Train du rêve, le passioni di una viaggiatrice solitaria” sia la miglior prova letteraria di Francesca Mazzucato, una scrittrice che ha ormai dietro di sé un lungo percorso. Un esperimento con cui esce per la prima volta fuori da un genere, quello erotico, che ha scandito la sua carriera letteraria.
È un libro sul narrare, un romanzo complesso, all’inizio bisogna comprenderne i meccanismi, poi fila via liscio. La protagonista, una viaggiatrice solitaria, trascorre la sua vita sui treni per incontrare persone e carpirne le storie, metafora dello scrittore che attraversa la vita degli altri, spiandola." Laura Guglielmi, direttore di Mentelocale.it, giornalista e critica letteraria.

La versione cartacea di questo romanzo è pubblicata da Giraldi editore ed è apparsa la prima volta nel 2006.
La versione digitale viene pubblicata da Errant Editions, Il romanzo è in corso di traduzione in inglese e francese.
Language中文
Release dateAug 3, 2012
ISBN9788867551101
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    Train du rêve. le passioni di una viaggiatrice solitaria - Francesca Mazzucato

    BENNI

    UN PROLOGO, PER INIZIARE

    L’eco di una sonata per violino, una impercettibile variazione di tono della voce durante un discorso, il sapore di una nespola dalla buccia liscia e invitante, variabile dall’aspro al delicato, dal polposo al rinsecchito, una nespola profumata di campagna abitata dai fantasmi delle passioni, bruna o rosa a seconda dei giorni, quindi una sfumatura, ecco, una sbavatura appena visibile di una memoria antica, vorrei parlarti della mia famiglia d’origine, ma ci sono cose che non so? Cose che non sai? Non si andava a letto con i fidanzati alla mia epoca, lo so ma se si poteva, se si poteva si inventava, si inventava un luogo e un dovere, qualche gioiello prezioso da far valutare, formaggio fresco da portare a casa, e in quei luoghi, in quei luoghi avveniva l’indicibile. L’indicibile? Esatto. Antiche lettere, il segreto di una zia fuggita con un uomo sposato che non aveva più gioielli da comprare ed era diventata allergica al formaggio, ma ora vieni, andiamo a bere una cioccolata, sei sicura? Lo sono, vuoi venire o no? Non dovevo iniziare quel discorso era solo un accenno, una rievocazione casuale, solo un istante di nostalgia di quella che ti mangia le viscere e ti fa piegare di un dolore tanto somigliante al piacere, quella, proprio quella, la conosco e quando potrai raccontarmi, io sarò pronta ad ascoltarti e a non arrossire a nessun dettaglio, ricordati (due anziane amiche che forse in certi anni remoti sono state qualcosa di più per compensare quei fidanzati nascosti, quelle vibranti passioni che scoperchiavano solo ogni tanto, amiche che non si vergognavano di carezze e mani ad annodare i boccoli e portarli vicino alle labbra che fra femmine si poteva fare, amiche che ancora conservano nei gesti una voracità trattenuta dalla buona educazione, una affettività monca, che si ferma a mezz’aria, che tronca dialoghi e produce esitazioni anche nell’incedere, sanno che in una giornata di festa il bar della stazione è aperto di sicuro e si dirigono contente, con le gonne a pieghe e il colletto uguale, anche se una ha allacciato storti i bottoni, due amiche con una storia, dei segreti, degli odori, delle intimità condivise e la voglia di un treno da prendere senza domandarsi cosa potrebbe succedere alle piante, al condominio o in sagrestia).

    Potrebbe essere descritta in tanti modi lei che viaggia, lei che sembra non annoiarsi mai, cullata da quadretti di ricordi incorniciati nella sua mente, ricordi mai neutri ma odorosi di cioccolato amaro, di vaniglia, spezie e noci, ricordi capaci ancora di provocare un rimestare del sangue, un brivido nella schiena, lei,cullata da istantanee rapide e accartocciate che porta appresso in un enorme portafoglio da cui escono le monete di rame rotolando per terra e infilandosi nelle crepe del terreno, lei che dispone sempre di un nuovo viaggio, di una nuova tavola su cui servire la sua vita come un piatto prelibato, lei che sembra semplice, normale, quasi rilassante e nasconde le sue complessità ostinate e superbe sotto strati di capelli, sciarpe sovrapposte, monili e stoffe salendo festosa su vagoni semivuoti, che cosa avrà mai da festeggiare questa donna, sempre troppo allegre le donne, sempre troppo frementi, non le sopporto, datemi un pc, lasciatemi nascondere la faccia dentro lo schermo protettivo, lasciatemi fingere che ho dodici anni quando invece ho passato i quaranta, toglietemi da questa melma, da questo pantano puzzolente e spaventoso di facce, questa orgia di fisionomie, questa realtà che mi violenta, queste lacrime di terra bagnata e di occasioni perdute, non sopporto la luce per molto tempo, ecco il treno, finalmente, ho bisogno della penombra, di uno screen saver ipnotico da guardare fisso mangiando un panino con mortadella e quel formaggio sottile che vendono al discount finendo il bottiglione di rosso, poi il messanger, il mio blog, il mio mondo virtuale così tranquillizzante, così nascosto, così buio e perfetto, ho orrore della gente dal vivo e di quella allegra poi ho schifo, il suo movimento è un misto fra immagini del sogno che rimangono annebbiate al mattino, un fruscio, un fascio di luce lampeggiante che sembra arrivare e torcersi sulle cose nel momento ideale per ispirare un’inspiegabile sensazione di gratitudine, un gioco che sembra l’evoluzione del vecchio un due tre stella un po’ più complicato, con scritta la soluzione del salto a piedi uniti e poi larghi sul palmo della mano col pennarello rosso.

    Lei, un movimento fra toilette che di pretenzioso hanno solo il nome, la freccia indicatrice e i cartelli grigi, l’omino e la donnina stilizzati che fanno intuire un ambiente accogliente, pulito e disinfettato ma in realtà sono cessi così disastrati che la carta costa cinquanta centesimi (il pezzo piccolo), la porta non si chiude, il lavandino è ingorgato da capelli di sconosciute passanti, (capelli che un tempo si legavano con nastro viola e si nascondevano nei cassetti, ora ingorgano tubature pubbliche e fanno girare il viso schifato di bambine con le mutande calate, le calze di lana rosa e spessa e la mamma che le solleva sulla tazza), il gorgoglio percepito da chi è fuori in attesa sembra un enorme lavandino che perde minaccioso nella notte rendendo il sonno un sussulto di fantasmi, antenati bizzosi, tazze a sorpresa che debordano e ti inondano d’improvviso mentre passa un merci sul binario uno, cessi con così tante tracce di vite che si sono inginocchiate sul wc per vomitare o assumere grammi di anestesie sintetizzate o eccitazioni chimiche, cessi che quelle vite le hanno cancellate con un colpo di sciacquone, cessi in fila per tre lasciate la mancia nei giorni (e nelle notti) dei treni speciali per Lourdes, cessi mi guarda la borsa e poi puf, sparita la donna anziana con il pettine e le forcine, rimasti quattro stracci da buttare, cessi non andare, non ti appoggiare, spargi carta igienica dappertutto.

    Aspettiamo la prima classe, il nostro vagone, sì hai fatto bene, per una volta dovevamo trattarci da signore, già sarà una lotta d’inganni questo incontro per l’eredità, almeno il viaggio doveva essere comodo, doveva essere adeguato a quelle donne di classe che siamo sempre state anche adeguandoci a un tenore di vita ingiusto e inadatto, eppure, lei è lì, negli anfratti della stazione, incrocia i pellegrini che hanno un cartoccio fra le mani, una croce appuntata sulla giacca e l’aria mesta, incrocia sedie a rotelle e portantini, incrocia viaggiatori ansiosi di cose diverse, di posti dall’aspetto esotico, di emozioni strane e scoperte da rimanere a bocca aperta, di tuffi in un mare qualsiasi sotto una luna pingue come la tetta di una mucca, incrocia, sorride, e poi è sui treni e poi di nuovo giù, figura ritmica, funambola che appare e che gioca a nascondino, esperta di coincidenze più di un ferroviere, capace di incastrare i cambi all’ultimo secondo come un matematico signorina io devo andare a Salerno, so che devo cambiare a Bologna e poi ancora cambiare ma non so.. non mi hanno detto niente quello là PROPRIO QUELLO maleducato con la giacca verde che è sicuramente un ferroviere, lei cosa dice, e dovrebbe essere al mio servizio, QUELLO ha detto che il mio biglietto non va bene, mi può aiutare lei? Lei che è alta e che vede bene il quadro partenze, la prego, per Salerno, e poi dia un’occhiata anche al mio biglietto, e lei lo fa, e poi ricomincia tutto, fra braccialetti di perline che sono rotolate ovunque e non paiono terminare la loro corsa incerta come piccoli animali impauriti, incarti unti di pizza lasciati sui sedili, lattine rotolanti, pozze d’acqua, cenere ovunque ed echi di lamenti sempre uguali, litanie del disagio recitate da beghine del trasporto, fra corifei del lamento italiano nostro quotidiano, basta questi treni, il degrado in cui li lasciano è indecente, chi ci rimette siamo noi pendolari, ai miei tempi era diverso, ai miei tempi, lei che muove l’aria attorno trasportando bagagli leggeri, inquieta alla partenza, poi finalmente serena, strana, con i capelli raccolti in una coda bassa, sempre a suo agio anche stretta da pacchi di cartone in seconda classe, signo’ le dispiace se lo metto qui mica le da fastidio che intanto soffio il naso al bambino e cerco la torta di mia cognata, Carmela però non sbriciolare che ti sporchi tutta e non pestare i piedi chiedi scusa, che per caso le va un bicchiere di caffè, me lo ha fatto mia moglie stamattina è ancora caldo nel thermos, ora lo trovo, non si preoccupi, c’è anche una formaggetta che devo portare ai miei parenti, l’ho incartata bene ma puzza lo stesso,ah ah, senta un po’ mi fa sedere dal suo lato, mi da fastidio il treno se sto al contrario, lei, dai lineamenti all’orientale con la faccia da bambola e le gambe che fanno sognare, dicono, almeno quei pochi che non la vedono solo seduta o solo ondeggiante fra una carrozza e l’altra a oltrepassare porte a soffietto, lei ora ferma per caso, lei che sale e scende, che si lascia accompagnare dal movimento ondulatorio e preciso dei vagoni che entrano fischiando nei binari, dal movimento delle porte che si aprono, dei gradini che si offrono ai piedi distratti dei viaggiatori ansimanti, una sciarpa sull’altra, di seta d’estate e di lana d’inverno a formare arcobaleni da collo, riconoscibili segnali della sua presenza, ma che bello, ma dove l’ha comprato, amo queste cose etniche, anni fa sono stata in India, c’è mai stata?

    Lei che sa sempre trovare il posto che vuole e che attraversa scompartimenti come si attraversano i tempi perfetti della giovinezza porta ritardo ‘sto treno che a lei risulti? Ho fermato un ferroviere ma non mi ha risposto eppure siamo noi che paghiamo, no perché mi aspetta il cognato, è successa una disgrazia in famiglia e hanno bisogno di me, vuole passare? Prego, sollevo le gambe, non ho trovato posto altrove e pensi che non sono più giovane, con la grazia e la cautela di chi si esibisce al circo fra i leoni, potrebbe essere descritta come una donna-sfumatura, una donna-nuance, una trama di colore indaco nello sguardo. Un involucro femminile nel quale dimora con piacere, dal quale non esplode, dal quale non vuole fuggire. Magnolia per la pelle, terra di siena per qualche ciocca di capelli. Non succede spesso. Di incontrare persone fatte di dettagli che stentano a comporre un tutto immediatamente percettibile, che si sistema nella mente al suo posto, nella categoria precisa, suscettibile di variazioni e divisibile in sottogruppi ma precisa. Non capita di solito, sorprende. Ci si dimentica della complessità nascosta nelle persone semplici e aeree come echi che nascondono piccole matrioske all’interno e sono molto più complesse e difficili ma imprendibili, inarrivabili. Si presta poca attenzione alle cose semplici, quelle complesse vengono trascurate come antichi giardini vittoriani. Lei non somiglia a un giardino vittoriano. E’ rimasta più simile agli echi. Stordisce, trasforma. Questo treno mi stordisce, questa scandalosa situazione delle carrozze di prima classe meriterebbe una denuncia. Le pare? Ho fatto i biglietti su internet, sul loro sito di trenitalia, ho pagato un euro di prenotazione perché per gli intercity plus è obbligatoria e sa cosa mi è capitato? La carrozza non c’era, era il compartimento undici, si erano sbagliati, ho dovuto correre dalla sette fino alla undici, con le valigie non è uno scherzo, non si prende in giro la gente.

    Potrebbe essere descritta usando metafore, un topo curioso, una soffitta antica piena di storie dentro vecchi bauli, un misterioso allucinato burattino che rappresenta il viaggio. Se non fosse così bella, una continua prima volta lo specchiarsi nello stagno dei suoi occhi, eppure facile da scordare nel momento in cui si resta imbambolati sulla pensilina, se non fosse così bella sarebbe un incontro come tanti, sarebbe il solito genuflettersi di fronte alla catastrofe di essere donne. Ma. Non lo è. Sarebbe un incrocio di sguardi e magari poche precise parole, fino alla fermata. Parole di convenienza, fluviali o contenute, tanto per fare. Tanto per muovere le mani concitatamente. Tanto per dire e concludere, e stop. Scendere, finito, sparita. Sarebbe un volere a tutti i costi, incidere l’asfalto, attraversare la nebbia. Lei frena queste passioni. Lei rallenta il tempo, lo frena, lo devia. Si scende o si sale, è il tutto che le interessa.

    Ci si guarda indietro. Ma. Non ricordo bene. Strizzo gli occhi. Rammarico, pensieri di possibili agganci per portarla nella pensione che attende, nella camera della vecchia, nel prezioso monolocale, o anche sulla panchina con un gelato. Rammarico. E’ già altrove. Un grumo di desideri che vagano. Così, forse, la sua definizione potrebbe essere quasi completa, quasi accettabile. Lei. Così inconsueta che pare impossibile trovarla in luoghi lontani dalle stazioni.

    Tu sali e sei logoro per i fatti tuoi. Tu sali, appoggi la testa che sbatte sul vetro e il sonno è un sonno dannatamente disturbato, sussulti che provocano nausea e la testa che rimbalza e la bocca che rimane aperta, magari con un filino di bava che scende e che sporca la giacca. Tu sali e vuoi chiudere gli occhi e sperare di riaprirli senza vedere subito la solita merda. Le solite pastiglie, la solita stanza con le panche scomode, i soliti camici. La palpebra sembra incollata, ti aiuti con le mani, sollevi e ricade, la luce di colpisce come una spada e insieme alla luce le panche, il bianco, la pillola, gli urli del vicino di letto. Merda e basta. Richiudi gli occhi e ti abbandoni per un istante ancora all’ondeggiamento. Galleria, case a precipizio, galleria. Tu sali su quel treno per poco e nella testa ti rimbombano parole. Era vuota, prima. Adesso solo parole che si stringono e si urtano. Un ripopolamento coatto e non indolore. Umiliazione. Inferno. Rifiuto. Hai appiccicata addosso la consueta aria letargica da psicofarmaco appena ingoiato. In più hai fatto il pieno di quelli per bambini, di quelli di cui imbottiscono gli adolescenti americani per farli stare tranquilli (Zoloft, Celexa, Paxil) ad accettare le mostruosità e le follie di una società in rapida e immediata decomposizione. Facili da procurare attraverso una richiesta via mail. Ti senti come quella società, decomposto. Sei letargico e fatto e vorresti non pensare alla solita merda redentrice di chi ti accoglierà e cercherà di convincerti a comportarti diversamente. Viaggi fremente e seccato, non riesci a restare fermo, hai pensieri di cose proibite.

    E accanto c’è lei. Guarda, ma non con il solito sguardo invadente al quale rispondi con uno sputo, o urlando qualcosa, qualunque cosa soprattutto se blasfema soprattutto se si tratta di una lady-raffinata o di una vecchia impicciona e godendo a vederla scappare impaurita. Lei. Guarda in silenzio, non sorride e non si muove, ogni tanto le sue pupille vagano sul panorama e dice parole su quel mare, parole che tu non riesci neanche a capire. Parole da tipa che ha studiato. Parole che non si attaccano, non si incollano a niente, è strano, di solito, le parole si impigliano alle maniglie, si avvolgono ai vestiti, si annodano alle caviglie, non se ne vanno, restano a fare zavorra, prendono polvere, calci, prendono insulti e se ne fregano, le sue no, sono parole che subito dopo, se non sei stato attento, potresti non ricordare perché non hanno odore, il solito odore di unto e di colonia di barbiere, di spaghetti aglio olio e peperoncino che hanno le parole a vanvera, le parole senza più finestre che si aprono, senza più magie, quelle dei treni soprattutto. La guardi di nuovo. Non è male anche se non è certo quelle bellezze da favola, quelle che ricordi per sempre, quelle con un culo da raccontare agli amici. (e lo sappiamo solo noi quante notti al solito posto, birra in una mano e canna fra tre dita di quell’altra, a raccontare di culi, di fattezze toniche, di rotondità, di sesso forse solo immaginato, a tirare calci alle macchine dei ricchi rintanati nei loro ristoranti accoglienti con famigliola al seguito, prima di tirare fuori pastiglie e merda, prima delle scopate intontite, del vomito e delle macchine fracassate sull’autostrada contromano).

    Lei è diversa, impossibile dormire e impossibile anche un sonno che cancelli quella poltiglia che ti porti dietro e dentro i pori. Ed è impossibile perché ogni volta che si gira tintinna come un albero di natale urtato da un passante,tintinna perché indossa un braccialetto. Mentre lei guarda il panorama e dice parole sul panorama di quelle colte, di quelle che si potrebbero leggere su un libro io lo noto il braccialetto, sembra d’oro antico, è una maglia d’oro scuro dalla quale invece delle solite medagliette pendono dei vagoni, cazzo proprio dei vagoni di treno, e ogni volta che si sposta i capelli, che si risistema il ciuffo, senti questi vagoni che rumoreggiano e pensi che quel coso potresti anche rubarglielo, ma non ti va. Più la guardi più non ti va. Vorresti dire avvicinati, è impossibile dormire, adesso ti tocco le tette. Adesso incollo la mia erezione alle tue gambe. Eppure dalla gola non escono parole.

    Lei. Lei conosce le persone come te, in fuga da quelle stanze con quel tipo di panchine di un colore grigio-verde freddo e repellente. Lei sa.

    Per questo non le rubi il braccialetto, per questo non crolli e la osservi così attentamente sapendo che forse è l’unica cosa bella che guarderai prima di vedere solo pareti chiare e corridoi dall’odore di disinfettante. Un occhio ti lacrima. L’altro non perde un dettaglio. Din din, si è di nuovo sistemata i capelli e ha sorriso a un cargo merci che sta passando. Così inconsueta, potrebbe essere descritta in qualche modo di quelli giusti, perfetti, ma l’impresa si rivela sempre più complicata.

    La mia mente è sconnessa, il viaggio affatica e fa sudare. Le conosco quelle come lei. Sono persone che vivono in luoghi capaci di mimetizzarle. Amano ascoltare la Suite Francese numero 5 di Johann S. Bach, lo so perché ho una zia con fattezze simili e questi gusti (ed è vero, lei ascolta sempre la Suite Francese), usano lozioni che sanno di latte e fanno sembrare la loro pelle ancora la pelle d’infante che rimane la perdita più dolorosa causata dal tempo, quel segno inciso nell’odore che vuol dire invecchiare, lento, non visibile, ma sicuro invecchiare, e come tutte le persone consapevoli, dello spazio, del tempo, di quelle solite cose tristi, lei potrebbe essere descritta con un silenzio assorto mentre in sottofondo parte il Claire de Lune di Debussy, scontato ma sempre efficace, che la lascia con un sorriso stampato sul volto felice per il viaggio e finalmente rilassato.

    Forse. Come lei, tante. Forse. Le incontri, le guardi, scambi qualche parola, cose senza importanza, bevi un caffè che ti lasci offrire, magari dici meglio una birra, loro annuiscono, ascolti il din del braccialetto e poi le lasci perché è così che deve essere, perché hai un appuntamento, perché sei ubriaco o eccitato o stanco, per una quantità di ragioni la lasci andare, la guardi andare traendo

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