Le mie convinzioni più arcaiche mi spingono a pensare che, così come esiste una ragionevole continuità anatomica e fisiologica nel genere umano, esista anche un pervicace nucleo di continuità che ci permette di trovare un territorio intellettuale comune con i nostri predecessori e i nostri successori, per quanto valido solo per una manciata di generazioni. È a partire da questa idea (o speranza), che mi arrischio a proporre un codice che stabilisca limiti individualmente onorevoli e socialmente responsabili per l'architettura, e che contribuisca ad ampliarne il territorio all'ambito imprescindibile dell'etica, e magari della vita. Per analogia con i precetti di Ippocrate, lo definisco “codice vitruviano”. Si struttura sulla base delle tre categorie dell'antico Romano – firmitas, utilitas, venustas –, cui si accompagnano un proemio e un colophon.
L'architetto costruisce per altri, mai per