Tatsuo Miyajima Es Devlin
Essere tempo/ Being time
A universal flow in which every living being is immersed with a different awareness, time is the focus in the work of two artists with very distant cultures and backgrounds
Circa 22.350 miliardi. È il numero approssimativo di risultati che sono apparsi sullo schermo del mio laptop alle 15:49 del 7 giugno 2021 ricercando su Google la parola time, che in inglese indica il tempo inteso come fluire degli eventi. Più del doppio di love (10.560 miliardi) e oltre tre volte e mezzo di life (7.280 miliardi). Se ci provate adesso, potrebbero uscire risultati diversi, ma le proporzioni saranno pressoché identiche: una dimostrazione empirica di quanto il tempo sia un concetto tanto universale quanto soggettivo. Al netto dell’impossibilità di definirlo univocamente, tanto più che la fisica moderna ci dice che la sua scansione lineare e unidirezionale in passato-presente-futuro è un’illusione, la nostra mortalità è l’unica certezza inconfutabile (per ora). Eppure, persino il grado di consapevolezza di essa rimane estremamente soggettivo. L’artista Damien Hirst ha dichiarato più volte che la morte è qualcosa a cui pensa tutti i giorni da quando era bambino. Una caratteristica condivisa da molti artisti, se non tutti, è proprio questa consapevolezza acuta della nostra finitudine, non di rado un’ossessione che, paradossalmente, si fa slancio vitale e produttivo. Le ragioni le ha brillantemente sintetizzate il sociologo polacco Zigmunt Bauman: Attraverso le arti, la morte viene costantemente ridotta alla sua vera dimensione: quella della fine della vita, certamente, ma non il limite dell’umanità.
Ci si domanda come questa tensione all’eternità dell’arte possa sussistere con la fruizione “mordi
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