NEW YORK
La grande diaspora. Come definire altrimenti il fuggi fuggi verso altre città di marchi che fino alla scorsa stagione rappresentavano per la New York Fashion Week un significativo punto di riferimento? Proenza Schouler, Rodarte, Altuzarra hanno lasciato sulle passerelle newyorchesi un vuoto che neanche uno show-evento come quello di Philipp Plein, con tanto di sfere stroboscopiche, eroine delle favole in versione fetish e performance di Dita von Teese nella coppa e la ricerca di consenso (soprattutto dal pubblico virtuale dei social piuttosto che da quello del mondo ‘reale’), servano in qualche modo ad eludere penuria creativa e, appunto, carenza di nomi importanti. In un articolo del New York Times, la giornalista Vanessa Friedman parlava di una New York del fashion che ha perso la propria identità ma potrebbe anche essere vero il contrario ovvero che, persa un’identità per marchi approdati su altri lidi, la Grande Mela ne stia cercando una nuova, grazie magari a firme iconiche come Calvin Klein che con Raf Simons sembra aver ritrovato verve e ispirazione legate a immaginari altri ma strettamente connessi con lo , come il cinema e l’arte. Non è un caso che la sua sia infatti una delle collezioni più applaudite, una rappresentazione stilistica del sogno americano a tinte fosche, perché bellezza e orrori dell’America sono due lati della stessa medaglia. Elementi tratti da e sono incorporati sui capi sotto forma di e , mentre tessuti tradizionali come lana e denim convivono con , e nylon. Lo spirito americano è vivo e presente anche in due collezioni tanto diverse quanto significative, quelle di Derek Lam e Tom Ford, il primo con un daywear al contempo , in cui la contemporaneità si fonde con e tocchi , il secondo con una moda volitiva e sexy, tutta , e look body-con ma con e che la tengono ancorata alla quotidianità, seppur deluxe. E il sogno americano va di pari passo con quello che, pur tra crisi e presunte perdite d’identità, dovrebbe essere il motore, non solo del Paese ma anche del sistema moda, ovvero l’ottimismo e l’idea che in qualche modo quello stesso sistema rappresenti ancora una sorta di ‘carrozzone dei sogni’ che porta riparo e sollievo. Tante collezioni lo testimoniano: da quella pulita e colorata di Carolina Herrera, composta in prevalenza da , a quella fluida e dai di Victoria Beckham, fino alle tante ricche di , e/o , conferma quest’ultima che gli anni ’70, così di tendenza nelle ultime stagioni, siano ancora una proficua fonte d’ispirazione. Il fatto poi che diversi designer sdoganino il in abbinamento a , gonne eleganti e in generale capi urbani o raffinati, è sintomo di un approccio e che la dice lunga sul desiderio di , quindi di distensione e di, appunto, ottimismo del settore. Forse, allora, la fuga in massa di cui sopra, può essere l’occasione per New York per dare uno spolvero al proprio guardaroba riempiendolo di nuove stimolanti proposte, perché è proprio nelle situazioni di crisi che, dopo i primi momenti di impasse, si ritrovano solitamente ispirazione, coraggio e spinta per guardare avanti.
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