Il gioco delle sette pietre
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Il gioco delle sette pietre - Alberto Minnella
1
Quando aveva lasciato l’ufficio, intorno alle due del pomeriggio, un centinaio di persone brulicavano lungo il Porto Grande di Siracusa.
Mai un siracusano avrebbe rinunciato a una lunga passeggiata, ritmata da innumerevoli saluti ai commari di paese, durante i fine settimana o nei periodi festivi. Era un modo per sfoggiare i buoni vestiti della domenica.
I bambini si divertivano a gettare dei piccoli pezzi di pane in un angusto specchio d’acqua, abitato da enormi papere bianche starnazzanti, e da lunghi, grigi e omertosi cefali.
Quello specchio d’acqua era la Fonte Aretusa
. In quell’ovale d’acqua la mitologia greca cucì una delle favole più belle al mondo. E i bambini, ogni qual volta peregrinavano fin lì a giocare, chiedevano insistentemente ai padri o ai nonni che gli si raccontasse quella storia; quella in cui la dea Artemide trasformò Aretusa in fonte per sfuggire dalle grinfie di Alfeo, figlio di Oceano. Fu allora che Zeus, per una sorta di commozione al dolore provato da Alfeo, trasformò il figlio di Oceano in fiume, permettendogli così di attraversare tutto il Mar Ionio, dal Peloponneso fino a unirsi all’amata Aretusa, a Ortigia. Le due acque, dolce della fonte (Aretusa) e salata del golfo (Alfeo), pur sfiorandosi, non si miscelarono mai. Così erano i siracusani; c’erano quelli d’acqua dolce, briosi, empatici e in perenne fuga e quelli d’acqua salata, scontrosi, imbronciati, malati. E proprio come nel mito greco le due razze siracusane, anche se entrambe fatte d’acqua, e vicine geograficamente, non si miscelarono mai fra loro, pur condividendo lo stesso luogo, gli stessi pesci, la stessa aria.
A ponente dell’isola, opposto al Porto Piccolo, il Porto Grande era ricavato dall’estesa baia formata dal prolungamento roccioso di Punta Castelluccio e dall’isola di Ortigia. A sud est, da dove l’odore maschio degli scogli si diffondeva per tutta l’isola, il Castello Maniace, voluto dall’omonimo comandante bizantino nel 1038 e trasformato in castello da Federico II, dominava l’imboccatura del porto.
Una decina di barche, attraccate al molo, danzavano grossolane seguendo il ritmo del mare.
Lungo il bastione San Giovinello, una delle poche testimonianze delle alte mura che proteggevano la città durante il dominio spagnolo di Carlo V, che sembrava uscito dal set di Ben-Hur, il commissario Paolo Portanova scandiva lentamente i passi.
Procedeva, con tutta calma, con il capo chino di qualche grado verso il marciapiede di cemento grigio, nascosto sotto le secche e ovali foglie dei ficus giganti che facevano da cortina lungo tutto il percorso.
I sìconi eduli, violacei con piccole chiazze gialle e verdi (sembravano più brufoli che altro), grandi quanto una nocciolina, cadevano con scrupolosa regolarità dagli alberi. Portanova, senza mai cambiare il passo, lì pestò uno dopo l’altro. Adorava sentire la minuscola polpa deformarsi e rompersi sotto i piedi. Schiacciava e sminuzzava. Di tanto in tanto arrestava il passo. Respirava il profumo di mirtilli che i sìconi calpestati emanavano con grande potenza. E la voce impercettibile della caduta dei frutti dei ficus si sommava al brusio dei siracusani al passeggio. Ora un bambino piangeva alla sua destra, battendo forte i piedi in terra, come un dinosauro affamato; ora i commenti dei veterani della grande guerra, lamentavano storture in ogni cosa creata. Sentì netto l’odore di naftalina delle loro giacche, le urla delle madri iperprotettive che rincorrevano i figli; il rotolare dell’enormi ruote di un carretto in legno, trascinato da un malconcio mulo che in silenzio, come se avesse la forza di cento cavalli, sopportando il peso del mondo, eseguiva gli ordini impartiti dal suo villano cocchiere.
Il trilby, nero come il cuore di un tiranno, lo confortava dagli schiaffi violenti del freddo. Il fumo bluastro del suo stortignaccolo gli si poggiò, quasi come in una toccata e fuga, lungo tutta l’arancione e riccia barba e, di tanto in tanto, saltellava dagli zigomi alle pupille, accecandolo per qualche secondo.
Attraversò l’intero lungomare, fino a fermarsi in bilico sul bordo del molo; riuscì a malapena a distinguere la punta malconcia delle sue scarpe, marroni come il suo sigaro, con l’inizio del mare. Lo stesso mare che il 9 e il 10 luglio del 1943 fece da altare all’invasione dei milleseicento soldati britannici, comandati da P.H. Hicks, atterrati a Siracusa per conquistare il Porto Grande e mettere in sicurezza la città. Il tentativo, però, si trasformò in tragedia e a causa delle pessime condizioni meteorologiche, duecento cinquantadue uomini morirono annegati.
È così che Portanova si sentì in quel momento; annegato nelle melmose acque della noia e tradito dall’estrema assenza di un vero e proprio caso che lo impegnasse davvero.
Finì il sigaro, o forse lo finì per lui il vento. Pensò al 1963. Un anno piatto. Pessimo. L’unica cosa che quell’anno sembrò stupirlo fu il mangiare. Divorare ingenti e prelibati piatti che sua moglie preparava con minuzia e trasporto, era diventato l’unico obiettivo delle sue giornate.
Il rumore sordo dello sventolio di una piccola bandiera maltese, posta sull’albero maestro di un minuscolo veliero ormeggiato, fece paio con il brontolare del suo stomaco. Nonostante l’insorgere di un leggero gonfiore addominale, l’alta statura lo faceva sembrare un impeccabile borghese del sud. Schiena dritta e polso fermo. Della pancia gonfia, per altro, sembrava non curarsi più di tanto.
Sospirò. Stette una cucchiaiata di minuti a farsi corteggiare dal profumo dello iodio; l’odore che Ortigia aveva durante i periodi più freddi.
Fece qualche passo indietro. Abbassò gli occhi sgonfiando il petto, svuotando quasi tutta l’aria che aveva nei polmoni. Era malinconico, triste. Siracusa gli faceva quest’effetto.
La mano destra iniziò a tremargli.
Chiuse gli occhi. Il leggero moto delle pupille, sotto le sottili palpebre, sembrò più evidente.
Quella città, estate o inverno che fosse, lo rendeva infelice.
Perché? Se lo era chiesto migliaia di volte. Forse era per colpa della gente del posto? Per quel grottesco muro invisibile che li divideva in due acque? Qui tutti hanno il cervello incartapecorito dal sole, pensò. O forse, no – continuò a domandarsi – forse è questa continua cappa di muddura, d’umido che distrugge le ossa e che m’annega i pensieri?
Ecco, a quel punto, proprio in quel momento, quando sentì dietro di lui una matassa di suoni, senza riuscire a distinguere se fosse composta dal vociferare in dialetto dei passanti o dall’agitarsi delle fronde dei ficus che ricamavano una I
sulla parte ovest del lungo mare, di una cosa fu certo: la mancanza di una risposta esaustiva a quel perché
era dovuto all’eccesso di umido che filtrava dalle tempie alle cervella, fin dietro gli occhi, squassando i fragili meccanismi del suo organo risolutore. Quello dell’intelletto. Il più prezioso.
Aprì gli occhi e si guardò intorno, come se quel pensiero l’avesse fatto ad alta voce. Portò una mano al viso, coprendosi il volto. In cuor suo aveva sperato che scostando la mano dal volto e riaprendo nuovamente gli occhi, lo scenario sarebbe cambiato. E invece no. Era sempre lì. Lui era rigido, disturbato. In perfetta armonia con il clima.
Accese un altro sigaro.
L’odore acido dei primi quattro centimetri del suo involtino di tabacco lo risvegliò. Spostò la gamba sinistra indietro e facendo perno sulla stessa, cercò di girarsi. Nell’invertire la rotta, inciampò sul piede destro; gli si slacciò una scarpa. Quando si chinò sulle ginocchia per ricomporre il nodo, il tanfo di terra umida gli passò da sotto le froge. Alzò la testa in direzione del Castello Maniace e vide minacciose nuvole di pioggia farsi sempre più vicine.
Spense il toscano torturandolo sotto la suola delle scarpe. Controllò che ognuno dei tre bottoni del lungo cappotto nero di lana fosse dentro la propria asola e riprese a cadenzare i passi fino alla macchina, distante non più di una ventina di metri da lui, circa.
Distese nervi e muscoli.
Era arrivata l’ora di tornare a casa e quello del pranzo era il suo momento preferito.
2
Superato il ponte Umbertino, che collegava l’isola di Ortigia alla terraferma, la strada diventava angusta, e come ogni via del quartiere della Borgata, anche il manto stradale di via Arsenale era sconnesso e malconcio. I marciapiedi erano molto stretti, tanto da dover discendere ogni volta che s’incrociava un passante. Sulla parte sinistra le