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Osservatori
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Osservatori

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Tre importanti personaggi scompaiono dopo il World Summit a Kuala Lumpur. Il giorno seguente, il presidente USA John Remy viene trovato morto d’infarto nella sua stanza d’albergo.


Intanto, due amici in viaggio attraverso il Nord America vanno in soccorso di una misteriosa donna che trovano arenata sulle rive del fiume Colorado. In qualche modo, tutti questi eventi sono collegati.


Scegliere di aiutarla li fa precipitare in una corsa da incubo attraverso il globo, poiché lei ha un segreto che rinnega tutto ciò che sappiamo dell’evoluzione umana. Inseguiti da una squadra letale intenzionata a fermarli, dovranno ritrovare una reliquia talmente antica da essere divenuta leggenda. Una reliquia che non salverà soltanto loro, ma l’umanità intera.

LanguageItaliano
Release dateMar 23, 2022
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    Osservatori - S.T. Boston

    1

    Un formicolio fu la prima cosa percepita da Euri Peterson quando iniziò a tornare alla coscienza dopo il suo sonno indotto dalla droga. Un formicolio alle mani, come quando si svegliava di notte dopo aver dormito col braccio sotto di sé, solo che questa volta era diverso. Da qualche parte, lontano, nel mondo reale, distante dalla vorticante pozza nera nella sua mente semicosciente, riusciva a sentire un dolore acuto, ai polsi e alle caviglie. Mentre i secondi passavano, l’effetto della droga iniziava a svanire, permettendogli di cogliere brevi squarci della realtà: formicolio e dolore, il ronzio del condizionatore, il freddo della fronte sudata. Poi scivolava indietro, vacillando e cadendo nelle profondità della sua mente offuscata. L’incoscienza lo tentava molto più della realtà. Disperatamente, Peterson cercò di aggrapparvisi mentre si sentiva girare di nuovo. Non era ancora pronto a svegliarsi e affrontare ciò che lo aspettava, qualunque cosa fosse, ma era troppo tardi! La pozza vorticante lo lasciò andare, permettendogli di aprire gli occhi. Se non fosse stato per il dolore martellante che ora gli infuriava nella testa, non avrebbe neppure saputo di essere cosciente, dato che la stanza era completamente buia. Sbattendo le palpebre in modo lento e deliberato, tentò di schiarirsi la testa da quel martellante ronzio ovattato. I suoi tentativi di muovere polsi e piedi non ottennero altro che far strisciare sul pavimento la sedia a cui era legato, producendo un suono simile a quello delle unghie su una lavagna. Gradualmente, man mano che i suoi occhi si abituavano all’oscurità, una piccola perla di luce dal lato opposto della stanza si concesse finalmente alla sua vista, seguita dal debole, vago contorno di una porta. Peterson sentì un brivido percorrergli il corpo. Chiunque fosse stato incaricato di occuparsi dell’aria condizionata l’aveva messa al massimo, e l’aria fredda gli colpiva la fronte, congelando la pellicola di sudore che gli incollava alla testa i capelli brizzolati.

    Cosa riesco a ricordare?, si chiese nella mente. Ricordo l‘incontro e di aver tenuto il discorso. Ricordo di aver lasciato il Centro Congressi, il traffico dell’ora di punta di Kuala Lumpur e di essere quasi stato in ritardo per la cena presidenziale al JW Marriott. Dopo la cena e qualche drink sono andato nella mia stanza e mi sono fatto una doccia prima di andare dritto a letto. I ricordi riaffluirono uno dopo l’altro, ognuno incoraggiando il successivo. Allora… ricordo di essere andato a letto, si disse. Ma poi? E fu allora che i ricordi si fermarono, lasciando spazio alla confusione. Poi mi sono svegliato qui, legato a una sedia in una stanza buia. Peterson sentiva il cuore martellargli il petto come un tamburo. Il suono gli scorreva nel corpo e gli riempiva le orecchie di una pulsazione ritmica.

    Si schiarì la gola e respinse la sensazione di secchezza della lingua. «C’è qualcuno? Ehi?» gridò con voce rotta e rantolante. Le parole gli accesero un dolore acuto nella gola. La risposta quasi immediata alla sua implorazione fu il suono di passi pesanti che giungeva dall’altro lato della porta, seguito dal rumore di una serratura e da un lampo di luce che lo costrinse ad abbassare la testa e chiudere gli occhi. Qualcuno azionò un interruttore e altra luce inondò la stanza quando una serie di lampadine fluorescenti ronzarono e presero vita con riluttanza. Altri battiti di ciglia lenti e deliberati gli permisero di far abituare gli occhi alla luce bianca e aggressiva che ora riempiva il locale. Alzando lo sguardo e ignorando il bruciante dolore alla testa, Peterson si concesse un istante per osservare ciò che lo circondava: la stanza era piccola, non più di cinque metri quadri. Aveva pareti bianche brillanti e mattonelle in tinta. Non c’erano finestre, solo una grande porta di metallo dall’aria robusta. I passi appartenevano a un uomo alto e ben piazzato, con capelli castano scuro pettinati all’indietro. Il suo abito nero sembrava appena uscito dalla lavanderia a secco e la camicia al di sotto era abbagliante quanto le pareti attorno. Allungando una mano dietro di sé, lo sconosciuto spinse la porta, che si chiuse con uno scatto metallico.

    «Signor Peterson», attaccò l’uomo, fissandolo con gelidi occhi blu ghiaccio e un sorriso che sarebbe stato bene sul volto di un abile venditore di auto usate. «Per prima cosa, lasci che mi scusi per il modo in cui dobbiamo conoscerci. Ho ritenuto che questo fosse il solo modo possibile perché lei ascoltasse ciò che devo dirle. Ciò che succederà dopo dipenderà esclusivamente da lei». Qualcosa nel suo atteggiamento dava i brividi a Peterson e, mentre lo sconosciuto parlava, il suo falso, folle sorriso non abbandonò le sue labbra neanche per un istante.

    «A giudicare dalla mia posizione», gracchiò Peterson, «trovo difficile credere di avere un qualche controllo su ciò che succederà dopo». Parlare stava diventando più facile a ogni momento, ma era difficile nascondere il panico che stava prendendo piede. Quale che fosse la droga che avevano usato per fargli perdere i sensi, l’effetto stava svanendo, ma non abbastanza in fretta da permettergli di trovare una via d’uscita da quella situazione.

    «Al contrario, il suo destino è interamente nelle sue mani», lo contraddisse lo sconosciuto. «Vede, signor Peterson, sappiamo chi è lei». Peterson lo guardò attraversare la stanza; i tacchi delle scarpe nere ben lucidate che colpivano il pavimento ricordavano il ticchettio di un orologio.

    «Ovviamente sapete chi sono», scattò Peterson. «Sono stato al World Summit per tutta la settimana scorsa! Mi sono rivolto a quasi ogni capo di stato del mondo questo pomeriggio!»

    Lo sconosciuto in giacca e cravatta gli rivolse quel sorriso da venditore di auto usate, mostrandogli una chiostra di denti perfettamente bianchi e dall’aspetto innaturale. «Oh, penso che sottovaluti quello che so», lo derise. «Ho assistito al suo discorso, fra parentesi. Era eccellente!» I suoi tacchi continuavano a ticchettare ritmicamente sul pavimento immacolato. Il suono aveva quasi lo stesso ritmo del suo battito cardiaco, che ancora gli risuonava nelle orecchie. Girandogli attorno per andargli alle spalle, l’uomo si sfilò la giacca. «Fa piuttosto caldo qui dentro, non trova?»

    «Non me ne ero accordo», rispose lui. «Signor… credo di non aver capito il suo nome».

    «Il mio nome non ha importanza», tagliò corto lo sconosciuto, poi sembrò ripensarci, «ma credo fermamente nelle buone maniere». Si avvicinò alla sedia. «Robert Finch», disse, tendendogli una mano. «Oh, mi perdoni, avevo dimenticato, le sue mani sono diversamente utilizzabili al momento». Finch gli rivolse un sorriso di scherno prima di voltarsi. Le sue scarpe ticchettarono fino in fondo alla stanza. Legato e impotente, Peterson lo guardò piegare con cura la giacca e metterla in un angolo. Il fatto che se la fosse tolta lo metteva molto a disagio. In realtà non faceva poi così caldo, a dire il vero era piuttosto freddo. Il ronzio monotono dell’aria condizionata continuava a giungere da sopra la porta, pompando altra aria gelida nella piccola stanza. Peterson sospettava che Finch si fosse tolto la giacca per evitare di sporcarsela col suo sangue, e quel pensiero lo terrorizzava.

    «Basta giocare!» scattò. «Se quello che vuole è un riscatto, sono sicuro che conosce i dettagli di chi contattare. Pagheranno. Di certo saprà che sia io che la mia azienda disponiamo di milioni in qualunque valuta desideri».

    «Oh, hai capito male la situazione, Euri», sospirò Finch, scuotendo la testa. L’improvviso passaggio al tu prese Peterson di sorpresa. Chiaramente, il tempo delle formalità era finito. «Euri Peterson, uomo d’affari svedese e direttore della Zeon Developments, l’uomo assurto alla fama due anni fa grazie al brevetto di un motore ad acqua, oltre a una serie di altre idee ingegnose per liberare il mondo dalla sua dipendenza dai carburanti fossili. Quelle stesse idee ti hanno assicurato un Premio Nobel per la scienza l’anno scorso. Immagino che, dopo il discorso di oggi, un mucchio di compagnie petrolifere stiano chiedendo a gran voce la tua testa in cima a un palo». Finch andò dietro di lui e gli serrò le mani sulle spalle come un massaggiatore troppo zelante. Quel contatto fisico gli fece venire voglia di vomitare. Finch abbassò il viso all’altezza del suo orecchio, talmente vicino che poteva sentirne l’alito caldo e odoroso di aglio sulla guancia. «È questo che sei, non è vero?»

    «Sì, certo!» La mente di Peterson stava galoppando. Possibile che quella storia riguardasse davvero i suoi brevetti? Le grandi compagnie petrolifere sarebbero scese così in basso? «So che i miei prodotti saranno un duro colpo per alcune imprese», disse con voce tremante, «ma davvero, un rapimento? La gente come me non può sparire e basta, lo sa».

    Finch ignorò la sua affermazione. «Ma non è questo che sei davvero, non è così, Euri?» proseguì, sussurrando come se fosse stato sul punto di confidargli un segreto che nessun altro doveva udire. Teneva ancora le mani strette sulle sue clavicole e non faceva nulla per ridurre il blocco alla circolazione che gli stava causando. «Vedi, Euri, noi sappiamo chi sei davvero!» Finch lasciò quelle parole sospese nell’aria. Peterson rimase immobile. Finch dovette sentire ogni muscolo del suo corpo irrigidirsi; le sue mani forti, simili a morse, non allentarono la presa per un solo istante. «E il motivo per cui sei qui, Euri, è ciò che sei davvero». Infine, Finch gli lasciò andare le spalle e gettò le mani in aria come un predicatore esaltato che avesse appena guarito un lebbroso. «Non siamo interessati alle tue invenzioni, o al fatto che potresti aver fatto incazzare un po’ di grassi baroni del petrolio, Euri, è molto più di questo! Non solo abbiamo capito la tua vera identità, ma anche l’identità degli altri tre». Ora era in piedi di fronte a lui; il sorriso era tornato e i suoi occhi erano pieni di disprezzo. Sembrava un serpente velenoso pronto a colpire.

    «Impossibile!» sputò Peterson, scuotendo la testa.

    «Del tutto possibile», rispose Finch, ovviamente contento dell’impatto avuto dalla sua rivelazione. «Ci sono voluti quasi nove anni per arrivare dove siamo oggi!» urlò con gioia, le parole che rimbalzavano contro le pareti spoglie. «Nove anni per capire chi foste voi quattro. Tu eri l’ultimo pezzo del puzzle, Euri. Dopo che abbiamo scoperto te, è stata solo questione di tempo. Perciò, giusto in caso tu abbia qualche dubbio, vediamo chi altri c’è nell’elenco. Abbiamo Jaques Guillard, il politico dell’Unione Europea, salvatore dell’Euro, l’uomo che ha aiutato a evitare un imminente crollo dell’economia». Finch prese a contare con le dita. «E con lui siete due. Poi abbiamo l’arcivescovo Francis Tillard, il santo, a capo della Chiesa Cattolica in Francia», Finch rise. «Un sant’uomo, voglio dire, Euri, che presa in giro. Perfino tu dovrai apprezzare l’ironia. Personalmente, la trovo disgustosa». Finch lo guardò per qualche secondo nel modo in cui qualcuno potrebbe guardarsi del fango sotto le scarpe prima di continuare col suo delirio. «Ultimo, ma non certo per importanza, al numero quattro, abbiamo nientemeno che John Remy, Presidente degli Stati Uniti d’America». Finch ghignò, un sorriso grande come quello di un gatto del Cheshire.

    Peterson sentì le viscere che gli diventavano di ghiaccio. Per sapere così tanto, quel Finch poteva essere una cosa sola, venire da un solo posto, e quel pensiero lo terrorizzava molto più di quanto qualunque cosa avesse mai fatto in vita sua. Quel momento e quel luogo erano la sua sola ragione di essere, la cosa stessa che avrebbe dovuto impedire. Aveva fallito, avevano fallito tutti!

    «Bene, sembra che abbia capito tutto, signor Finch». Peterson non riusciva a nascondere la collera che montava nella sua voce. «Ma, come ha detto, sono soltanto uno di quattro. E gli altri? Uccidere solo me non la porterebbe da nessuna parte!»

    «Oh, non mi preoccuperei di loro». Finch sorrise. «Sono già morti. Be’, perlomeno due di loro lo sono». Quell’affermazione investì Peterson come un treno. «Tu sei il prossimo nella mia agenda, Euri! L’altro richiede un approccio, diciamo così, più gentile». Finch fece una pausa, rimuginando sulle sue stesse parole, passandosi una mano sul mento ben rasato. «Abbiamo uomini in luoghi e ruoli che non puoi immaginare, luoghi e ruoli che a tutti voi sono sfuggiti!» Di nuovo lasciò in sospeso le parole, permettendo a Peterson di assorbirle. «Ma sono certo che saprai apprezzare», proseguì, «che neanche noi possiamo semplicemente far sparire il Presidente degli Stati Uniti nel bel mezzo della notte. No! Come ho detto, quello richiede un approccio più delicato. Purtroppo per lui, non avrà la tua stessa opzione, la possibilità di scegliere, la possibilità di vivere». Finch stava di nuovo camminando avanti e indietro per la stanza, godendosi ogni parola, conscio del tormento che stava causando. «Vedi, questo World Summit era proprio quello che ci serviva: tutti e quattro nella stessa città nello stesso momento. Ci ha dato la possibilità di eliminarvi tutti con un colpo solo».

    «Uccidimi», esclamò Peterson con voce acuta e impaurita. «Fallo, perché non accetterò alcuna proposta che tu possa farmi, non sono interessato ad alcuna offerta da te e dai tuoi, non più di quanto lo fossero gli altri due!» Almeno per il momento, Remy era ancora vivo, e questo dava a Peterson un briciolo di speranza in quell’oceano di dubbi che saliva rapidamente.

    Finch ridacchiò e iniziò ad annuire. «Euri, sono colpito, il tuo coraggio è ammirevole, proprio come mi aspettavo, e, anche se ho sempre saputo che nessuno di voi avrebbe scelto di schierarsi al nostro fianco, ti illustrerò l’offerta comunque».

    Peterson strattonò i legacci che gli bloccavano i polsi, facendo oscillare pericolosamente la sedia. «Perché? A che scopo?» ringhiò a denti stretti. «Li hai uccisi, e non voglio far parte di alcun accordo. Facciamola finita».

    Finch smise di camminare e si girò per guardarlo in faccia. «Perché voglio farlo, perché posso, e perché so quanto ti tormenterà nei brevi istanti prima che io abbia il piacere di porre fine alla tua lunga e inutile vita. Non mi capita ogni giorno di avere un Osservatore come pubblico, meno che mai tre. E poi avere il piacere di uccidervi, uno, a, uno, ripagandovi per un po’ della sofferenza e dell’angoscia che avete causato alla mia gente nei lunghi anni. Poi, mentre ti guarderò morire, godrò dell’espressione di sconfitta sul tuo volto, sapendo che hai fallito. E dopo aver finito con te mi occuperò personalmente del Presidente Remy».

    «E come intendi arrivare al Presidente USA?» urlò Peterson. «Neanche io posso presentarmi lì come niente fosse e parlare con lui, nonostante chi siamo dietro le quinte». Si sentiva la lingua come carta vetrata. Aveva disperatamente bisogno di un po’ d’acqua, ma dubitava davvero che l’avrebbe ottenuta.

    «Come ho detto, Euri, abbiamo uomini ovunque, infiltrati in tutti i luoghi chiave per il piano di stanotte, nonché per il quadro generale. Credimi se ti dico che non avrò alcun problema ad arrivare al Presidente Remy. In effetti, andrò dritto alle sue stanze personali. Non alloggia lontano da qui, sai?»

    «Ahhhh!» urlò Peterson in un misto di collera e frustrazione. Stava strattonando le corde con tanta forza che gli sembrava che la pelle gli sarebbe venuta via come la scorza di un’arancia. «Pensi davvero che basti uccidere noi quattro per risolvere tutti i tuoi problemi? Queste morti non passeranno inosservate, e le ripercussioni per te e la tua gente saranno enormi. Hai idea di quello a cui stai dando inizio?»

    Finch sorrise di scherno a quello sfogo. «A cosa stiamo dando inizio?» ghignò. «A cosa stiamo mettendo fine, piuttosto. Sappiamo tutto di te, Euri, di te e degli altri tre. Sappiamo come operate. I miei superiori pensano che, se anche uno solo di voi scegliesse di aiutarci, questo ci farebbe guadagnare tempo per completare il nostro piano senza ostacoli. Ciò detto, non siamo troppo preoccupati. Vedi, a quello che abbiamo in serbo serve solo qualche settimana prima di essere irreversibile. Ovviamente non siamo così ingenui da pensare che passerà inosservato, ma, quando alla fine i tuoi si accorgeranno di quello che è successo, saremo più che pronti». Finch fece una pausa e si concesse un sorriso compiaciuto. «Perciò, Euri, capirai perché sono più che felice di ucciderti in questo momento. È una tua scelta». Finch alzò le mani a imitazione dei piatti di una bilancia. «Vivere?» alzò la sinistra. «O morire?» Puntò la mano destra alla testa di Peterson e mise le dita a formare una pistola.

    «Cosa potete mai sperare di ottenere in poche settimane?» La paura di Peterson si era trasformata in collera e gli ribolliva nelle viscere come un calderone.

    «Più di quanto potresti mai immaginare. È piuttosto bello, Euri, il modo in cui progettiamo di porre fine a questa sciarada e reclamare ciò che è nostro di diritto. Dovresti davvero unirti a noi e vedere coi tuoi occhi».

    «E in cambio del mio tradimento cosa otterrei?»

    «Un posto nel consiglio, un posto elevato nel nuovo ordine che sorgerà. Manterresti il tuo status di Anziano, ma all’interno della nostra società. È più di quanto ti avrei offerto personalmente, ma non sono io a decidere».

    «Sei davvero un illuso». Peterson rise. «Perché perdere tempo a proporre una cosa simile a uno qualunque di noi? Perché correre il rischio di esporvi rapendoci? Sapete che nessuno di noi accetterebbe mai, sapete che moriremmo piuttosto che aiutarvi a realizzare quello che abbiamo prevenuto per centinaia di anni».

    Finch si chinò e iniziò a cercare nella tasca della sua giacca. Peterson intravide qualcosa di metallico ora stretto nella sua mano. Una pistola!

    «C’è un altro dettaglio con cui speravano che uno di voi potesse aiutarci, qualcosa che intendiamo localizzare: il Tabut». Finch lo osservò, soppesando la pistola su e giù nella mano.

    «Neanche io lo so, nessuno di noi lo sa», mentì Peterson, riuscendo a fare una risatina. «E se anche fossi al corrente di una simile informazione, perché dovrei condividerla con te? Sono morto comunque!»

    Finch inarcò un sopracciglio con aria sospettosa. «Davvero, nessuno dei quattro Osservatori sa dove è tenuto il Tabut? Lo trovo molto difficile da credere».

    «Anche se lo sapessi, non ti servirebbe a nulla. La Tavoletta Chiave non è più lì da oltre tremila anni».

    «Oh, non intendiamo usarlo», scattò Finch. «Intendiamo distruggerlo!» Agitò la pistola verso di lui, enfatizzando ogni parola, pugnalando l’aria con la punta verso Peterson. «Potrei torturarti. Potrebbe farti sciogliere un po’».

    «Fa’ quel che devi», sospirò Peterson. «Sappiamo entrambi che la tortura è inutile per estrarre informazioni accurate. Un uomo ti dirà qualunque cosa se gli infliggi dolore a sufficienza». Vedeva la frustrazione sul volto di Finch. Peterson poteva anche essere un uomo morto, ma aveva il coltello dalla parte del manico su quel punto.

    «Molto bene, abbiamo delle altre piste da seguire che potrebbero rivelarsi fruttuose. È una faccenda in sospeso che i miei superiori vorrebbero risolvere». Finch agitò con noncuranza la pistola in aria, nascondendo la frustrazione causatagli dall’accurata analisi della situazione fatta da Peterson. Anche se avesse ottenuto una posizione da lui, si sarebbe indubbiamente rivelata una bugia. E poi, i suoi ordini erano di assicurarsi che nessuno di loro restasse in vita per la fine della giornata. Peterson sarebbe morto prima di poter verificare se li avesse mandati a caccia di farfalle. Con il Tabut dormiente da migliaia di anni e nessuna Tavoletta Chiave per attivarlo, non c’era alcun rischio, per come la vedeva lui. Provare a cercarlo era uno spreco di risorse.

    «Bene, Euri, speravamo che fossi ragionevole, che avresti potuto voler vivere e aiutarci a dare forma al nostro nuovo futuro, quello di cui tu e i tuoi ci avete derubato. Ma, come pensavo, è stata una perdita di tempo». Finch alzò la pistola e la puntò dritta alla testa di Peterson. «Un buon colpo alla testa per una morte istantanea», chiese, come valutando le sue opzioni, «o distruggerti il cuore e guardarti morire per la prossima ora?» Spostò la pistola avanti e indietro dalla testa al cuore di Peterson con aria di provocazione. «Neppure io sono privo di pietà, nonostante quello che la tua razza ha fatto passare alla mia gente». Tornò a puntargli la pistola alla testa. Peterson chiuse gli occhi. Non li riaprì mai più. Finch esplose un unico colpo e il proiettile attraversò il cranio di Peterson, andandosi a conficcare nell’intonaco del muro alle sue spalle, facendo schizzare sangue e tessuto sulle piastrelle. Il colpo in sé fece ribaltare la sedia, facendo ricadere all’indietro il suo corpo inerte. La testa di Peterson colpì le piastrelle con un tonfo umido. Il sangue scorse dalla ferita lungo le fughe come piccoli fiumi rossi geometrici.

    Chinandosi, Finch recuperò la giacca e ne spazzò via della polvere invisibile, nascondendovi la pistola al tempo stesso. Dopo essere uscito dalla stanza, estrasse una piccola radio dalla tasca dei pantaloni. «Qui Finch. Puoi mandare una squadra di pulizie alla stanza quattro? Inutile dire che non ha accettato l’offerta!» Rimise in tasca la radio senza attendere una risposta. C’era poco tempo, e aveva un appuntamento con il Presidente.

    2

    Come sabbia che cade in una clessidra, il Presidente John Remy iniziò a sentire lo stress della giornata abbandonare lentamente il suo corpo stanco e dolorante. Svitando il tappo della bottiglietta di bourbon in formato mini bar, ne versò il contenuto in un bicchiere di cristallo dagli eleganti decori. Mentre ne scuoteva fuori le ultime gocce, il ghiaccio nel bicchiere iniziò a scricchiolare in protesta per il liquido più caldo che gli scorreva attorno. Mettendo da parte la bottiglia vuota, Remy aggiunse una parte di acqua tonica e fece delicatamente girare il liquido prima di berne un sorso. La miscela calda e aspra lo aiutò immediatamente a liberarsi di un altro po’ di stress dai suoi muscoli tesi. Bicchiere in mano, attraversò la suite presidenziale del JW Marriott e si accomodò sul sofà imbottito prima di bere un’altra sorsata. Assaporando il freddo bruciore di ogni sorso, accese la televisione e poggiò i piedi sul tavolino. Setacciando il grande numero di canali disponibili, scelse BBC News 24 e vi trovò un reportage preconfezionato degli ultimi giorni del World Summit di Kuala Lumpur. Una giornalista di mezza età, con un volto più adatto a lavorare in radio, era nel mezzo di una trasmissione in diretta che copriva gli eventi della giornata. Un breve montaggio del discorso di Euri Peterson si alternava al suo servizio mentre ne sottolineava le parti più importanti.

    «Euri Peterson afferma che, usando le tecnologie sviluppate dalla sua azienda, possiamo aspettarci di veder cessare la produzione di motori a combustione alimentati a petrolio nei prossimi dieci anni», iniziò. «Ha proseguito con l’audace affermazione che possiamo aspettarci di vedere il mondo libero dalla dipendenza dai carburanti fossili entro il 2080. Le sue dichiarazioni sono state accolte da un applauso, ma sono certa che nelle industrie petrolifere vi sia chi non sarà molto lieto di questi sviluppi, nonostante il fatto che le forniture di petrolio scarseggino sempre più. Come sapete, se mai ci fossero futuri problemi tra la Russia e l’occidente, questo potrebbe letteralmente strangolare il mondo. Una situazione che tutti intendono evitare». La reporter fece una pausa mentre la linea passava al giornalista in studio.

    Il Presidente Remy era certo che vi fosse più che un po’ di astio in arrivo verso lui ed Euri da parte delle compagnie petrolifere, per non menzionare la perdita in introiti delle tasse in tutto il mondo. I giacimenti petroliferi americani erano praticamente esauriti e, nonostante le ripetute esplorazioni nel Mare del Nord, lo stesso poteva dirsi per quelli europei. I giacimenti siberiani, ora sotto il controllo della Russia, erano i principali rimasti, e stava a loro sostenere il mondo fino al momento in cui l’alimentazione idraulica avrebbe preso il sopravvento. Non puoi fare una frittata senza rompere le uova, pensò, ricordandosi il vecchio adagio. I governi avrebbero dovuto adattarsi. Ciò che contava era il quadro generale, non i profitti, e il prezzo al barile del petrolio continuava ad aumentare.

    «E il discorso del Presidente Remy?» chiese il giornalista in studio col suo accento britannico.

    «Altri momenti memorabili, Mike. Il Presidente Remy afferma che tutte le attività per il mantenimento della pace e la presenza militare nel Medio Oriente cesseranno nei prossimi sei mesi. Abbiamo assistito a un periodo di pace senza precedenti nella regione, con sette mesi ormai trascorsi dall’ultimo attentato suicida che ha reclamato le vite di quindici civili nella provincia di Helmand in Afganistan. Sono certa che gli americani si domanderanno chi sarà in grado di sostituirlo quando il suo secondo mandato terminerà il prossimo anno».

    Ripresero a trasmettere scene dell’incontro e il Presidente Remy guardò un montaggio di sé stesso, relativo alle parti salienti del suo discorso. Anche dopo tutti quegli anni al centro dell’attenzione del pubblico, si sentiva ancora a disagio a vedersi in televisione. Prese il telecomando, spense l’apparecchio e scolò quel che restava del suo bourbon prima di poggiare il bicchiere sul tavolino di vetro perfettamente pulito. Alzandosi e sentendosi un po’ più rilassato grazie all’alcool, si diresse al bagno per prepararsi ad andare a letto. L’indomani sarebbe stata un’altra lunga giornata, con una partenza di prima mattina dell’Air Force One, seguita da altri incontri e teleconferenze lungo il volo di ritorno a Washington.

    Remy si lavò i denti prima di sciacquarsi la bocca e tornare nella stanza per rimettere a posto un paio di cose. Aveva davvero bisogno di dormire, ma, con tutto quello che aveva da fare il giorno dopo, dubitava che sarebbe stato facile. Mentre chiudeva la valigetta, qualcuno bussò alla porta.

    «Entrate», disse, poggiando la valigetta su una sedia orientale dall’aria costosa. Il capo dei suoi Servizi Segreti entrò nella stanza con in mano una bottiglia di acqua minerale ghiacciata. «Ah, Agente Finch», esclamò Remy, facendo scattare le serrature della valigia.

    «Signor Presidente», rispose l’Agente Speciale Robert Finch, facendo un cenno col capo. «Come richiesto, signore, una bottiglietta di acqua minerale. Mi assicurerò che venga fatto presente al servizio in camera che il mini bar non era rifornito».

    «Non me ne preoccuperei troppo», disse Remy. «La poggi sul tavolo».

    Finch attraversò la stanza e poggiò la bottiglia su un tavolino di metallo decorato. «Bel discorso oggi, signore», commentò. «Penso che il suo duro lavoro abbia finalmente dato i suoi frutti».

    «Be’, non sono mai stato uno che si vanta, lo sa», rispose lui, «ma penso che finalmente potremo vedere la fine degli anni di guerra e scontento nella regione». Il Presidente Remy andò a prendere la bottiglia di liquido freddo. «Ha l’ultimo turno, stanotte?» chiese, svitando il tappo e versando l’acqua in un bicchiere pulito. Finch lo osservò mentre ne beveva metà in un unico lungo sorso prima di asciugarsi la bocca con una manica.

    «Sì, signore. Sarò fuori della sua porta». Finch indietreggiò di un passo o due, attendendo di essere congedato.

    «Eccellente. Allora dormirò tranquillo», commentò Remy, tenendosi il bicchiere mezzo pieno di fianco.

    L’Agente Robert Finch aveva preso servizio nella sicurezza la stessa settimana in cui il Presidente Remy era salito al potere, nove anni prima ormai. Era stato uno dei più giovani agenti dei Servizi Segreti ad aver mai avuto l’incarico di proteggere il Presidente, assumendo quel ruolo all’età di ventidue anni, dopo essersi diplomato a West Point come primo della classe, con una laurea in scienze militari. Negli ultimi nove anni era risalito nei ranghi. Ora, quando il secondo e ultimo mandato di Remy stava per terminare, Finch si era ritrovato a capo della sicurezza presidenziale alla tenera età di trentun anni. Il Presidente Remy sperava che avrebbe scelto di restare per i dieci anni di protezione che i Servizi Segreti garantivano agli ex presidenti, ma sospettava che sarebbe stato assegnato a Washington per salire ulteriormente nei ranghi.

    «Ho preparato il piano della sicurezza per domani mattina, signor Presidente», disse Finch. «L’auto la preleverà alle otto in punto. La polizia locale e i nostri agenti terranno al sicuro il percorso, e dovremmo essere in volo e diretti a casa entro le nove e trenta».

    «Ti ringrazio, Robert», rispose Remy, scegliendo di dare del tu all’agente, come faceva spesso quando erano soli. Dopo tutto, conosceva quell’uomo da nove anni, e in quel periodo aveva imparato ad apprezzarlo. Rispettava la sua motivazione e ambizione. «Bene, dovrebbe essere tutto per ora. Farò meglio a cercare di dormire un po’», concluse, girandosi e portandosi il bicchiere in camera da letto.

    «Molto bene, signor Presidente, dorma bene», rispose Finch prima di lasciare la stanza e chiudersi silenziosamente la porta alle spalle. Fece scattare la serratura e prese posto proprio al di fuori. Aveva una chiara linea visiva con l’agente all’estremità del corridoio. L’intero piano era messo in sicurezza in quel modo, ogni agente in vista del successivo, cosicché nessuno potesse essere colto di sorpresa. Finch guardò il suo Omega Seamaster: l’una e trentacinque. Non manca molto, pensò. Non manca molto.

    Remy si mise il pigiama. La vista dello Stemma Presidenziale sulla giacca lo faceva sempre sorridere. Quasi tutto era personalizzato e gli dava un promemoria costante della sua posizione, come se avrebbe mai potuto dimenticarsela. La biancheria appena lavata era fresca e asciutta, in netto contrasto col clima umido della città all’esterno; anche in piena notte il caldo non dava tregua. Bevendo quel che restava della sua acqua, toccò la base della lampada sul comodino, gettando la stanza nell’oscurità. Le spesse tende oscuranti fatte su misura garantivano che nessuna delle brillanti luci cittadine inquinasse la lussuosa suite.

    Disteso nel buio, Remy chiuse gli occhi e si sforzò di non pensare alla teleconferenza che avrebbe dovuto fare dall’Air Force One il mattino dopo, ma, più cercava di non pensarci, più si intrufolava nella sua mente. Sonno o meno, sarebbe stato bello tornare all’aria più fresca e pungente di Washington. L’umidità e il calore di quella città lo stancavano. Anche se passava gran parte del tempo in edifici forniti di aria condizionata, ogni volta che ne usciva era come aprire il portello di un forno. Il calore pungente aiutava a trattenere i fumi degli innumerevoli veicoli che sembravano intasare le strade ventiquattr’ore al giorno. Lo smog aleggiava costante nell’aria, rovinando ogni respiro. Si chiese quanto tempo ci sarebbe voluto perché la qualità dell’aria migliorasse in quelle città asiatiche dopo che la dipendenza del mondo dai carburanti fossili avesse avuto fine una volta per tutte. Per fortuna, quel giorno sarebbe divenuto presto realtà.

    Mentre quei pensieri casuali gli riempivano la mente, sentì la prima ondata di sonno scivolargli addosso. Non era qualcosa a cui fosse abituato; non aveva mai preso sonno con facilità, neppure prima di avere il lavoro più potente del pianeta. La sonnolenza crebbe, ma con essa iniziò a sentire un bruciore al petto. Qualcosa non va, pensò, mentre una lieve venatura di panico si impossessava del suo corpo. Sollevandosi nel letto, tentò di ricacciare indietro il sonno che all’improvviso sembrava volersi disperatamente appropriare di lui. Il bruciore al petto si intensificò, espandendosi alla gola e alla bocca. Sentiva che le mani gli tremavano. C’era decisamente qualcosa che non andava, che non andava affatto! Allungò una mano sudata verso la lampada. Il solo sfiorarne la fresca base metallica le diede vita. L’oscurità si ritrasse quando la piccola lampadina la ricacciò fino alle estremità della grande stanza da letto. Il Presidente Remy si sforzò di mettersi a sedere, gettando le gambe giù dal letto. Ora faceva fatica a riempirsi i polmoni. Dolori acuti gli attraversavano il petto come pugnali. La sua mente galoppava, cercando di capire cosa stesse accadendo. Gradualmente, la stanza iniziò a moltiplicarsi. Prima vide due porte, poi tre, poi iniziarono a girare. Chiuse gli occhi e scosse la testa, sperando di schiarirsela. Per pochi istanti lo aiutò a schiarirsi la vista e gli permise di esaminare l’unità sul comodino e localizzare il Pulsante di Panico Presidenziale. Allungò una mano per premerlo e si bloccò. Qualcuno era arrivato fino a lui; ormai non aveva dubbi che un veleno letale stesse scorrendo nelle sue vene, ma come? Di certo nessun normale veleno poteva toccarlo, di certo sarebbero passati nel suo corpo senza causargli neanche un mal di testa. La gravità della cosa era maggiore di quanto potesse comprendere nella sua situazione in aggravamento. Doveva raggiungere la sua valigetta, e di corsa. Sforzandosi di alzarsi e far sostenere il suo peso alle gambe, mise una mano sul comodino per sorreggersi. Scivolò istantaneamente, facendo cadere in terra il bicchiere vuoto. Le gambe gli cedettero e cadde pesantemente al suolo. A faccia in giù sul tappeto, vide il bicchiere rotolare via lento. L’acqua, pensò. Finch mi ha portato l’acqua, è l’ultima cosa che ho bevuto. Il suo cervello si rifiutava di accettare l’idea che Finch fosse parte della cosa, ma la ragione gli diceva diversamente. Quello stesso giorno Finch aveva fatto un commento sul fatto che non sembrasse esservi acqua minerale nel frigo. Era andato personalmente a prenderne una bottiglia, sapendo che il suo Comandante in Capo ne portava sempre un bicchiere con sé quando andava a letto, senza eccezioni.

    Altro dolore gli devastò il petto, svegliandolo dal suo delirio. La valigetta! pensò di nuovo, mi serve la valigetta. Raccogliendo tutte le sue forze, strisciò

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