Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il rosso e il nero
Il rosso e il nero
Il rosso e il nero
Ebook665 pages9 hours

Il rosso e il nero

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Julien Sorel è un giovane di modeste origini, intenzionato a scalare la piramide sociale della Francia della Restaurazione con ogni mezzo. Per raggiungere il suo obiettivo diventa precettore nella casa del sindaco Rênal, dove la sua sete di potere lo spinge a sedurre la moglie di questi, Madame Rênal. Quando le voci di infedeltà iniziano a girare nel piccolo paese, però, Julien si vede costretto a ritirarsi dalla società ed entrare in seminario. Ben lungi dal porre fine alla sua carriera, questa occasione gli permette di stringere amicizia con influenti personalità, grazie alle quali ottiene un ruolo come segretario personale di un nobile marchese. È qui che conoscerà Mathilde, figlia del nobiluomo, della quale si innamora e che cambierà per sempre il corso del suo destino.-
LanguageItaliano
PublisherSAGA Egmont
Release dateFeb 1, 2022
ISBN9788726900750

Related to Il rosso e il nero

Related ebooks

Classics For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Il rosso e il nero

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il rosso e il nero - Stendhal

    Il rosso e il nero

    Translated by Giacomo di Belsito

    Original title: Le Rouge et le Noir

    Original language: French

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1831, 2021 Stendhal and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788726900750

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PROPRIETÀ LETTERARIA

    I.

    UNA PICCOLA CITTÀ.

    Mettine insieme a migliaia — e sarà meglio, — ma la gabbia sia gaia.

    Hobbes.

    La piccola città di Verrières può passare per una delle più belle della Franca Contea. Le sue case bianche dai tetti a punta, di tegole rosse, si stendono sul declivio di un colle, del quale folti di vigorosi castagni segnano le minime sinuosità. Il Doubs scorre a poche centinaia di piedi al disopra delle fortificazioni, costruite in passato dagli Spagnuoli e attualmente in rovina.

    Verrières è riparata, a nord, da un alto monte, diramazione della catena del Giura. Le cime frastagliate del Verra si coprono di neve fin dai primi freddi d’ottobre. Un torrente, che si precipita dalla montagna, attraversa Verrières prima di gettarsi nel Doubs e fornisce l’energia a un gran numero di seghe per legname. Si tratta di un’industria molto semplice, che procura un certo benessere alla maggior parte degli abitanti, più contadini che borghesi. Tuttavia, non le sole seghe per legname hanno arricchito la piccola città. L’agiatezza generale, che, dopo la caduta di Napoleone, ha fatto rinnovare le facciate di quasi tutte le case di Verrières, si deve alla fabbrica di tele colorate, dette di Mulhouse.

    Appena entrati in città, si rimane storditi dal frastuono di una macchina rumorosa e apparentemente terribile. Venti pesanti martelli, che ricadono con un rumore che fa tremare il suolo, sono alzati da una ruota, mossa dall’acqua del torrente. Ogni martello fabbrica ogni giorno non so quante migliaia di chiodi. Giovanette fresche e belle offrono ai colpi di quegli ordigni enormi i pezzettini di ferro, che rapidamente vengono trasformati in chiodi. Questo lavoro, così rude in apparenza, è di quelli che più stupiscono il viaggiatore che penetri per la prima volta tra le montagne al confine della Francia con la Svizzera. Se, nell’entrare a Verrières, il viaggiatore domanda a chi appartiene la bella fabbrica di chiodi che assorda tutti coloro che salgono la Grande Rue, si sente rispondere con accento strascicato: «Eh! È del signor sindaco»

    E, per poco che il viaggiatore s’indugi in questa via principale di Verrières — che va salendo dalla riva del Doubs fin verso la cima del colle — c’è da scommettere cento contro uno che vedrà apparire un uomo alto, con atteggiamenti affaccendati e importanti.

    Al suo passaggio tutti i cappelli si levano rapidamente. Egli ha i capelli brizzolati ed è vestito di bigio; è cavaliere di molti ordini; ha fronte alta, naso aquilino e, in complesso, il suo volto non manca di una certa regolarità. A prima vista, anzi, si ha l’impressione che il suo aspetto unisca, alla dignità del sindaco di villaggio, quella specie di grazia che può ancora trovarsi in un uomo di quarantotto o cinquant’ anni. Ma, subito, il viaggiatore parigino è sgradevolmente colpito da una certa aria di compiacimento e di sufficienza, mista ad un non so che di meschino e di poco geniale. Si sente, insomma, che l’ingegno di quell’uomo si limita al saper farsi pagare con grande esattezza ciò che gli è dovuto, ed a pagare, dal canto suo, il più tardi possibile quando è in debito.

    Tale è il sindaco di Verrières, il signor di Rênal. Dopo avere attraversato la via con passo grave, egli entra nel palazzo municipale e scompare agli occhi del viaggiatore. Ma, se questo continua la sua passeggiata, cento passi più in su scorge una casa di apparenza molto bella, e, attraverso il cancello di ferro, che continua la facciata della casa, giardini magnifici. Al di là, chiude l’orizzonte la linea delle colline di Borgogna, che sembra fatta apposta per il piacere degli occhi. Quella vista fa dimenticare al viaggiatore l’atmosfera appestata dai piccoli interessi di denaro, che comincia ad asfissiarlo.

    Gli dicono che la casa appartiene al signor di Rênal. Il sindaco di Verrières deve quella bella abitazione in pietra viva, che in questo momento sta terminando di costruire, ai guadagni ricavati dalla sua grande fabbrica di chiodi. Si dice che la sua famiglia sia spagnola, antica, e, a quanto si ritiene, stabilitasi nel paese molto prima della conquista di Luigi XIV.

    Dal 1815, egli si vergogna di essere industriale: il 1815 l’ha creato sindaco di Verrières. I muri a terrazze che sostengono le varie parti del magnifico giardino, il quale, a scaglioni, discende fino al Doubs, sono anch’essi ricompensa dell’abilità del signor di Rênal nel commercio del ferro.

    Non vi aspettate di trovare in Francia i pittoreschi giardini che circondano le città industriali della Germania: Lipsia, Francoforte, Norimberga ed altre. Nella Franca Contea, più si erigono muri, più si rende il proprio terreno irto di pietre messe le une su le altre e più si acquistano diritti al rispetto dei vicini. I giardini del signor di Rênal, riempiti di muri, sono anche ammirati perchè egli ha acquistato a peso d’oro alcuni piccoli pezzi di terra da essi occupati.

    Per esempio, quella sega per legname, la cui strana posizione su le rive del Doubs vi ha colpiti, mentre entravate a Verrères, e su la quale avete osservato il nome di Sorel tracciato a caratteri giganteschi sopra una tabella che domina il tetto, occupava cinque o sei anni or sono l’area su la quale in questo momento si sta costruendo la quarta terrazza dei giardini del signor di Rênal.

    Nonostante il suo orgoglio, il signor sindaco ha dovuto fare molti passi presso il vecchio Sorel, contadino duro e testardo. Ha dovuto snocciolargli bei luigi d’oro per ottenere da lui che trasportasse la sua officina altrove. In quanto al ruscello pubblico, che metteva in movimento la sega, il signor di Rênal ha ottenuto — mercè l’influenza che gode a Parigi — di farne deviare il corso. Questa grazia gli venne accordata dopo le elezioni del 1827.

    Ha dato, inoltre, a Sorel quattro iugeri di terreno, in cambio di uno, a cinquecento passi più in giù, su le rive del Doubs. E, quantunque questa posizione fosse molto più vantaggiosa per il suo commercio di tavole d’abete, papà Sorel — come lo chiamano da quando s’è arricchito — ha avuto il segreto di ottenere dall’impazienza e dalla mania di proprietario, che animavano il suo vicino, una somma di seimila franchi.

    È vero che questo accordo è stato criticato dalle persone sensate del luogo. Una domenica, quattro anni or sono, il signor di Rênal, mentre tornava dalla messa in abito da sindaco, vide da lontano il vecchio Sorel che, circondato dai figliuoli, sorrideva, guardandolo. Quel sorriso ha gettato una luce fatale nell’anima del signor sindaco. Da allora, egli pensa che avrebbe potuto ottenere il cambio più a buon mercato.

    Per giungere alla considerazione pubblica, a Verrières, l’essenziale è di non adottare — pur costruendo molti muri — qualche piano importato dall’Italia da quei muratori, che, in primavera, traversano le gole del Giura per recarsi a Parigi. Una tale novità procurerebbe all’imprudente costruttore l’eterna reputazione di testa balzana, ed egli sarebbe per sempre condannato nel giudizio delle persone sagge e moderate che distribuiscono la stima nella Franca Contea.

    Infatti, queste persone sagge vi esercitano il più noioso dispotismo. E, appunto a causa di tale brutta parola, il soggiorno nelle piccole città riesce insopportabile a chi abbia vissuto in quella grande repubblica che si chiama Parigi. La tirannia dell’opinione pubblica — e che genere di opinione! — è, nelle piccole città francesi, stupida quanto negli Stati Uniti d’America.

    II.

    UN SINDACO.

    L’importanza! Vi par nulla, signore? Il rispetto degli sciocchi; lo stupore dei fanciulli; l’invidia dei ricchi; il disprezzo del savio.

    Barnave.

    Fortunatamente per la reputazione del signor di Rênal, come amministratore, un immenso muro di sostegno era necessario alla passeggiata pubblica, che costeggia la collina a un centinaio di piedi più in su del corso del Doubs e che, a questa sua ammirevole posizione, deve una delle più pittoresche vedute di Francia. Ma, ogni primavera, le acque piovane tracciavano solchi su la passeggiata, vi scavavano buche e la rendevano impraticabile. Quell’inconveniente, sentito da tutti, mise il signor di Rênal nella fortunata necessità d’immortalare la sua amministrazione con un muro alto venti piedi e lungo trenta o quaranta.

    Il parapetto di quel muro — per il quale il signor di Rênal dovette compiere tre viaggi a Parigi, perchè il penultimo ministro dell’Interno s’era dichiarato mortale nemico della passeggiata di Verrières — s’eleva, ora, di quattro piedi dal suolo. E, quasi per sfidare tutti i ministri presenti e passati, attualmente lo stanno arricchendo di lastroni di pietra viva.

    Quante volte, pensando ai balli di Parigi abbandonati il giorno avanti e, con il petto appoggiato a quei grandi blocchi di pietra d’un bel grigio tendente al turchino, i miei sguardi non son scesi nella valle del Doubs! Laggiù, oltre la riva sinistra serpeggiano cinque o sei vallate, in fondo alle quali l’occhio scorge benissimo dei ruscelletti, che, dopo aver corso di cascata in cascata, si vedono cadere nel Doubs. Il sole, in quelle montagne, è caldissimo. Quando i suoi raggi cadono perpendicolari, la fantasticheria del viaggiatore è riparata, su quella terrazza, da platani magnifici, i quali devono il loro rapido sviluppo e il rigoglio delle fronde d’un verde azzurrino alla terra che il signor sindaco ha fatto trasportare dietro l’immenso muro di sostegno. Perchè, nonostante l’opposizione del Consiglio municipale, ha allargato la passeggiata di più di sei piedi. (Sebbene egli sia «ultra» ed io liberale, gliene do lode). E per questo, nell’opinione sua e in quella del signor Valenod, il fortunato direttore dell’Ospizio di mendicità di Verrières, la terrazza potrebbe sostenere il paragone con quella di San Germano in Laye.

    Per conto mio, trovo una sola cosa da ridire sul Corso della fedeltà. (Questo nome ufficiale si trova in quindici o venti posti su targhe di marmo, che hanno fruttato un’onorificenza di più al signor di Rênal). Gli rimprovero la maniera barbara con la quale l’autorità fa tosare fino al vivo quei vigorosi platani. Invece di rassomigliare, con le loro teste basse, rotonde e piatte, alla più volgare pianta da orto, essi non chiederebbero di meglio che di avere le forme magnifiche, che assumono i loro simili in Inghilterra. Ma la volontà del signor sindaco è dispotica, e due volte all’anno tutti gli alberi di proprietà del Comune sono inesorabilmente amputati. I liberali del luogo pretendono — ma esagerano — che la mano del giardiniere ufficiale sia divenuta assai più severa da quanto il signor vicario Maslon ha preso l’abitudine d’impadronirsi dei prodotti della potatura.

    Questo giovine ecclesiastico fu mandato da Bensançon alcuni anni or sono per sorvegliare l’abate Chelan e altri curati dei dintorni. Un vecchio ufficiale medico dell’Armata d’Italia, ritiratosi a Verrières, e che, secondo il sindaco, era giacobino e bonapartista insieme, osò un giorno rimproverargli la mutilazione periodica di quei begli alberi.

    — Mi piace l’ombra — rispose il signor di Rênal, con la sfumatura d’alterigia opportuna quando si parla con un chirurgo, membro della Legion d’onore. — Mi piace l’ombra; faccio tagliare i miei alberi perchè diano ombra e non comprendo come un albero possa servire ad altro scopo, quando, come l’utile noce, non produce alcun frutto.

    Ecco la grande frase che decide di tutto a Verrières: Produrre dei frutti. Da sola, essa rappresenta il pensiero abituale di oltre tre quarti degli abitanti.

    Produrre dei frutti è la ragione che decide ogni cosa in questa cittaduzza, che vi sembrava tanto graziosa. Il forestiero che giunge, attirato dalla bellezza delle fresche e profonde vallate che la circondano, imagina su le prime che gli abitanti siano sensibili al bello. Fin troppo essi parlano della bellezza del loro paese e non si può negare che le diano grande importanza. Ma tutto dipende dal fatto che essa attira alcuni forestieri, il denaro dei quali arricchisce gli albergatori, cosa che, mediante il meccanismo del dazio, produce utili alla città.

    In una bella giornata d’autunno, il signor di Rênal passeggiava sul Corso della Fedeltà, dando il braccio alla moglie. Pure ascoltando il marito, che parlava con aria grave, la signora di Rênal seguiva con occhio inquieto le mosse di tre fanciulli. Il maggiore, che poteva avere undici anni, s’avvicinava troppo spesso al parapetto e faceva l’atto di salirvi. Una dolce voce pronunziava, allora, il nome di Adolfo e il ragazzo rinunziava al proposito ambizioso. La signora di Rênal mostrava trent’anni; ma appariva ancora molto bella.

    — Potrebbe pentirsene, quel bel signore di Parigi — diceva il signor di Rênal con aria offesa e il volto più pallido del solito. — Non mi mancano amici al Castello...

    Ma, quantunque io voglia parlarvi della vita provinciale per duecento pagine, non avrò la barbarie di farvi subire la lunghezza e i sapienti accorgimenti di un dialogo di provincia.

    Il bel signore di Parigi, tanto odioso al sindaco di Verrières, non era altri che il signor Appert, il quale, due giorni prima, aveva trovato la maniera d’introdursi non solo nella prigione e nel ricovero di mendicità di Verrières; ma anche nell’ospedale amministrato gratuitamente dal sindaco e dai maggiori proprietarî del luogo.

    La signora di Rênal diceva timidamente:

    — Ma quale torto può farvi quel signore di Parigi, dal momento che voi amministrate i beni dei poveri con la più scrupolosa probità?

    — Egli viene soltanto per diffondere il biasimo. Poi farà pubblicare articoli nei giornali liberali.

    — Voi non li leggete mai.

    — Ma ce ne parlano, di quegli articoli giacobini. Tutto ciò ci distrae e c’impedisce, di fare il bene ( ¹ ). Per conto mio, non la perdonerò mai al curato.

    III.

    I BENI DEI POVERI.

    Un curato virtuoso e alieno dagli intrighi

    è una Provvidenza per il villaggio.

    Fleury.

    Bisogna sapere che il curato di Verrières, vecchio di ottant’anni, ma che doveva all’aria pura di quelle montagne una salute ed un carattere di ferro, aveva il diritto di visitare in tutte le ore la prigione, l’ospedale e anche il ricovero di mendicità. Il signor Appert, che veniva da Parigi con una lettera di presentazione per il curato, aveva avuto la saggia idea di arrivare alle sei del mattino nella piccola città curiosa. E subito s’era recato al presbiterio.

    Letta la lettera che gli scriveva il marchese di La Mole, pari di Francia e il più ricco proprietario della provincia, il curato Chelan rimase pensieroso.

    «Son vecchio e ben voluto, qui — mormorò tra sè, alla fine. — Non oserebbero!» E, all’improvviso, rivolgendo sul signore parigino gli occhi nei quali, nonostante la tarda età, brillava il fuoco sacro che annunzia il piacere di compiere una bella azione un po’ pericolosa, disse:

    — Venite con me, signore, e in presenza del carceriere e soprattutto dei sorveglianti del ricovero di mendicità, non esprimete alcuna opinione su le cose che vedremo.

    Il signor Appert comprese di aver da fare con un uomo di cuore; seguì il venerando curato, visitò la prigione, l’ospedale, il ricovero, fece molte domande e, nonostante le strane risposte, non si permise la più lieve manifestazione di biasimo.

    La visita durò molte ore. Il curato invitò a pranzo il signor Appert che rifiutò adducendo il pretesto di dover scrivere alcune lettere. Non voleva compromettere maggiormente il suo generoso compagno. Verso le tre completarono l’ispezione del ricovero di mendicità e poi tornarono alla prigione. Su la porta trovarono il carceriere, una specie di gigante alto sei piedi, con le gambe arcuate. Il suo volto ignobile era diventato mostruoso per effetto del terrore.

    — Ah, signor curato, — disse appena vide il sacerdote — questo signore è, forse, il signor Appert?

    — Che importa? — rispose il prete.

    — Gli è che, da ieri, ho l’ordine tassativo, inviato dal signor prefetto per mezzo di un gendarme, il quale ha dovuto galoppare tutta la notte, di non fare entrare il signor Appert nella prigione.

    — Vi dichiaro, signor Noiroud, — disse il curato — che questo viaggiatore che è con me è il signor Appert. Riconoscete che io ho il diritto di entrare nella prigione a qualunque ora del giorno e della notte, facendomi accompagnare da chi voglio?

    — Sì, signor curato, — disse il carceriere, sottovoce ed abbassando la testa come un cane che obbedisca a malincuore per tema del bastone. — Soltanto, signor curato, io ho moglie e figliuoli: se mi denunzieranno, sarò destituito e, per vivere, non ho altro che il mio posto.

    — Dispiacerebbe molto anche a me di perdere il mio — rispose il curato con voce sempre più commossa.

    — Che differenza! — ribattè vivacemente il carceriere. — Si sa che voi, signor curato, avete ottocento lire di rendita, della buona terra al sole...

    Questi sono i fatti che, commentati, esagerati in mille diverse maniere, agitavano da due giorni tutte le passioni astiose della cittaduzza di Verrières.

    In quel momento, essi servivano da argomento alla piccola discussione che il signor di Rênal aveva con sua moglie. La mattina, seguìto dal signor Valenod, direttore del ricovero di mendicità, egli era andato dal curato per esprimergli il suo più vivo malcontento. Il prete non era protetto da alcuno e sentì tutta la portata di quelle parole.

    — Ebbene, signore, io sarò il terzo curato ottantenne destituito in questi paraggi. Son qui da cinquantasei anni: ho battezzato quasi tutti gli abitanti della città che, quando arrivai, era soltanto una borgata. Celebro ogni giorno sposalizî di giovani dei quali ho unito in matrimonio i nonni. Verrières è la mia famiglia. Ma, vedendo il forestiero, ho detto tra me: «Quest’uomo venuto da Parigi può essere, in verità, un liberale. Ve ne sono fin troppi. Ma che male potrebbe arrecare ai nostri poveri ed ai nostri prigionieri?»

    E siccome i rimproveri del signor di Rênal e specialmente quelli del signor Valenod, direttore del ricovero di mendicità, diventavano sempre più aspri:

    — Ebbene, signori, fatemi destituire! — aveva esclamato il vecchio prete con voce tremante. — Abiterò lo stesso nel paese. Si sa che, quarant’otto anni or sono, ho ereditato un poderetto, che rende ottocento lire. Vivrò con quella rendita. Non metto da parte denari con il mio posto, e, forse, appunto per questo non mi spavento quando mi si parla di farmelo perdere.

    Il signor di Rênal andava molto d’accordo con la moglie; ma, non sapendo che cosa rispondere al pensiero che ella esprimeva, ripetendolo timidamente: «Che male può fare quel signore di Parigi ai prigionieri?» era sul punto di andare in collera, quando la signora gettò un grido. Il minore dei suoi figliuoli era salito sul parapetto del muro della terrazza e vi correva, quantunque quel muro fosse alto più di venti piedi al di sopra della vigna che è dall’altra parte. Il timore di spaventare il figlio e di fargli perdere l’equilibrio impediva alla signora di rivolgergli la parola. Alla fine il bimbo, che rideva della sua prodezza, guardando la madre, si accorse del di lei pallore, e saltato su la strada, le corse accanto. Fu molto rimproverato.

    Questo piccolo incidente mutò il corso della conversazione.

    — Voglio assolutamente prendermi in casa Sorel, il figlio del segatore di legname — disse il signor di Rênal. — Sorveglierà i ragazzi, che cominciano a diventare troppo irrequieti per noi. È un giovane prete o qualche cosa di simile, buon latinista, che farà certo far progressi ai fanciulli; perchè — a quanto assicura il curato — ha un carattere fermo. Gli darò trecento franchi e il vitto. Avevo dei dubbi circa la sua moralità, perchè egli era il beniamino di quel vecchio chirurgo, membro della Legion d’onore, che con il pretesto di essere uncugino di Sorel era venuto a mettersi in pensione in casa loro. Quell’uomo, in fondo, poteva essere benissimo un agente segreto dei liberali. Diceva che l’aria dei nostri monti gli giova per l’asma; ma la cosa non è provata. Aveva fatto tutte le campagne di Buonaparte in Italia e si dice pure che, a suo tempo, avesse votato contro l’Impero. Quel liberale insegnava il latino al figlio di Sorel ed a lui ha lasciato tutti i libri che aveva portati seco. Per queste ragioni non avrei mai pensato di mettere il figlio del legnaiuolo a contatto con i nostri ragazzi; ma il curato, proprio il giorno prima della scena che ci ha inimicati per sempre, m’ha detto che quel Sorel studia teologia da tre anni, con il proposito di entrare in seminario. Dunque non è liberale ed è latinista.

    E, rivolgendo alla moglie uno sguardo da diplomatico, il signor di Rênal continuò:

    — Quest’accomodamento conviene per diverse ragioni. Il Valenod è orgoglioso dei due bei cavalli normanni che ha acquistati per il suo calesse. Ma non ha precettore per i figliuoli.

    — Potrebbe benissimo portarci via questo.

    — Approvi, dunque, il mio disegno? — disse il signor di Rênal, ringraziando, con un sorriso, la moglie per l’eccellente osservazione. — Allora è deciso.

    — Ah, Dio buono; come fai presto a prendere una risoluzione, mio caro!

    — Perchè ho un carattere, io... E il curato se n’è accorto. Non nascondiamoci nulla: qui siamo circondati da liberali. Tutti questi mercanti di tela m’invidiano; ne son sicuro. Due o tre si arricchiscono; ebbene, sono molto contento che vedano passare i figliuoli del signor di Rênal, quando vanno a passeggio, accompagnati dal loro precettore. Farà impressione. Mio nonno ci raccontava spesso che, da fanciullo, aveva avuto un precettore. Potrà costarmi cento scudi; ma questa va considerata come una spesa necessaria per sostenere il decoro della nostra posizione.

    La decisione repentina lasciò la signora di Rênal molto pensierosa. Era una donna alta, ben fatta, che era stata la «bellezza del paese», come dicono su quelle montagne. Aveva una cert’aria semplice e giovanile nel portamento. Agli occhi d’un Parigino quella grazia ingenua, piena di innocenza e di vivacità avrebbe potuto anche richiamare pensieri dolcemente voluttuosi. Ma se avesse intuito di destare questa specie d’impressione, ella ne sarebbe stata vergognosa. Nè la civetteria nè l’ostentazione avevano mai avuto presa sul suo cuore. Il signor Valenod, il ricco direttore del ricovero, le aveva — secondo la voce pubblica — fatto la corte; ma senza risultati, il che aveva dato un singolare splendore alla sua virtù; perchè quel Valenod, giovane alto e robusto, con un volto colorito e grossi favoriti neri, era di quei tipi grossolani, sfrontati e rumorosi, che in provincia si chiamano begli uomini.

    La signora di Rênal, molto timida e di temperamento in apparenza assai mutevole, si sentiva soprattutto urtata dal continuo agitarsi e dagli scatti di voce del signor Valenod. L’indifferenza che provava per ciò che a Verrières si chiama gioia, le aveva fruttato la reputazione di essere molto orgogliosa della propria nascita. Ella non vi pensava; ma era contentissima di vedere gli abitanti della città frequentare più di rado la sua casa. Non nasconderemo che era considerata sciocca dalle signore perchè, senza nessuna politica nei riguardi del marito, si lasciava sfuggire le migliori occasioni di farsi comprare bei cappelli di Parigi o di Besançon. Purchè la lasciassero libera di passeggiare sola nel suo bel giardino, non si lamentava mai.

    Era un’anima ingenua, che non s’era mai elevata neppure fino a giudicare suo marito e a confessarsi che egli l’annoiava. Supponeva, senza dirselo, che tra marito e moglie non potessero esservi relazioni più dolci. Amava soprattutto il signor di Rênal, quand’egli le esponeva i suoi propositi per l’avvenire dei figliuoli. Il maggiore lo destinava alla carriera militare, il secondo alla magistratura e il terzo alla Chiesa. Insomma, ella riteneva il signor di Rênal assai meno noioso di tutti gli uomini di sua conoscenza.

    Questo giudizio coniugale era ragionevole. Il sindaco di Verrières doveva una reputazione di persona di spirito e specialmente di buon gusto ad una mezza dozzina di facezie ereditate da un suo zio. Il vecchio capitano di Rênal prestava servizio prima della rivoluzione nel reggimento di fanteria del Duca d’Orléans e, quando andava a Parigi, era ricevuto nei saloni del principe. Là aveva incontrato la signora di Montesson, la famosa signora di Genlis, Ducret, l’ideatore del Palais-Royal. Quelle persone figuravano fin troppo spesso negli aneddoti del signor di Rênal. Ma, a poco a poco, il ricordo di quelle cose tanto delicate a raccontarsi era diventato un lavoro per lui e, da qualche tempo, ripeteva soltanto nelle grandi occasioni gli aneddoti relativi alla casa d’Orléans. E, poichè, del resto, era molto gentile, tranne quando si parlava di denaro, era ritenuto, con ragione, l’uomo più aristocratico di Verrières.

    IV.

    UN PADRE E UN FIGLIO.

    E sarà mia colpa se così è?

    Machiavelli.

    — Mia moglie ha realmente un cervello fine! — diceva il giorno dopo, alle sei del mattino, il sindaco di Verrières, discendendo all’officina di papà Sorel. — Sebbene glielo abbia detto per mantenere la superiorità che mi spetta, non avevo pensato affatto che se non assumessi l’abatino Sorel, che si dice sappia il latino come un angelo, quell’anima inquieta del direttore del ricovero, potrebbe avere la mia stessa idea e portarmelo via. E con qual tono di superiorità parlerebbe, poi, del precettore dei suoi figli!... Questo precettore, una volta al mio servizio, porterà la sottana?

    Il signor di’ Rênal era assorto in questo dubbio, quando vide da lontano un contadino alto sei piedi, il quale, dall’alba, sembrava occupatissimo a misurare certi tronchi di legno messi lungo la riva del Doubs, su la strada comunale. Il contadino non parve molto contento di veder avvicinare il sindaco; quei pezzi di legno, infatti, ostruivano la strada ed egli era in contravvenzione.

    Papà Sorel, poichè era lui, fu molto sorpreso e ancor più lieto della strana proposta che il signor di Rênal gli faceva per suo figlio Giuliano. Tuttavia lo stette ad ascoltare con quell’aria di tristezza scontenta e di disinteressamento che l’astuzia degli abitanti di quelle montagne sa tanto bene assumere. Schiavi al tempo della dominazione spagnuola, essi conservano ancora questo tratto della fisonomia del fellah egiziano.

    La risposta di Sorel fu, dapprima, una lunga recitazione di tutte le formule di rispetto che egli sapeva a memoria. Mentre ripeteva quelle vane parole con un sorriso impacciato che accentuava l’espressione di falsità e quasi di mariuoleria propria del suo viso, lo spirito sagace del vecchio contadino cercava di scoprire quale ragione potesse indurre un uomo così considerevole ad accogliere in casa quel buono a nulla di suo figlio. Egli era molto scontento di Giuliano e proprio per lui il signor di Rênal gli offriva lo stipendio insperato di 300 franchi all’anno, oltre al vitto e ai vestiti. Quest’ultima pretesa, che papà Sorel aveva avuto l’abilità di avanzare improvvisamente, era stata accettata anch’essa dal sindaco.

    Egli era rimasto colpito dall’ultima richiesta.

    «Se Sorel non è lieto ed entusiasta della mia offerta, come naturalmente dovrebbe essere — pensò — è chiaro che gli sono state fatte proposte da un’altra parte. E da chi possono venire se non dal Valenod?»

    Invano, egli insistette perchè Sorel concludesse subito: l’astuzia del vecchio contadino vi si rifiutò ostinatamente. Diceva di voler interrogare il figliuolo, come se, in provincia, un padre ricco consultasse il figliuolo che non possiede nulla, altro che per la forma.

    Una sega idraulica è costituita da una tettoia in riva ad un ruscello. Il tetto è sostenuto da un’architrave che si appoggia su quattro grossi pilastri di legno. A otto o dieci piedi d’altezza, nel mezzo della tettoia, si vede una sega che va su e giù, mentre un meccanismo semplicissimo spinge verso di questa un pezzo di legno. Una ruota messa in movimento dal ruscello fa agire il duplice meccanismo: quello della sega che sale e scende e quello che spinge lievemente il pezzo di legno verso la sega che lo riduce in tavole.

    Papà Sorel, mentre si avvicinava alla propria officina, chiamò Giuliano con la sua voce stentorea. Nessuno rispose. Egli vide solo i suoi figli maggiori, specie di giganti, i quali, armati di pesanti asce, squadravano i tronchi di abete da portare alla sega. Erano intenti a seguire con precisione il segno nero tracciato sul legno e, ad ogni colpo delle loro asce, ne staccavano pezzi enormi. Non udirono la voce del padre. Questo si diresse verso la tettoia e, nell’entrarvi, cercò inutilmente Giuliano al posto che avrebbe dovuto occupare, presso la sega. Lo scorse, cinque o sei piedi più in alto, a cavalcioni su una delle travi del tetto. Invece di sorvegliare attentamente l’azione di tutto il meccanismo, leggeva. Nulla riusciva più antipatico al vecchio Sorel, che avrebbe, forse, potuto perdonare a Giuliano la costituzione mingherlina, poco adatta ai lavori di forza, e così diversa da quelle dei suoi fratelli maggiori. Ma quella mania di lettura era odiosa a lui che non sapeva neppur leggere.

    Chiamò ancora Giuliano due o tre volte inutilmente. L’attenzione che il giovane prestava al suo libro, assai più del rumore della macchina, gl’impedì di udire la terribile voce paterna. Alla fine, nonostante la sua età, Sorel saltò rapidamente su l’albero che stava sotto la sega e di là su l’asse trasversale che sosteneva il tetto. Un colpo violento fece volare nel ruscello il libro che il giovane aveva in mano; un secondo colpo altrettanto violento, tiratogli su la testa in forma di scapaccione, gli fece perdere l’equilibrio. Giuliano fu sul punto di cadere, da dieci o quindici piedi d’altezza, fra le leve della macchina in azione, che lo avrebbero stritolato. Ma il padre lo trattenne con la mano sinistra, mentre precipitava.

    — Ebbene, fannullone; leggerai sempre i tuoi maledetti libri, invece di sorvegliare la sega? Leggili di sera, quando vai a perder tempo dal curato!

    Giuliano, sebbene stordito e insanguinato dalla forza del colpo, si accostò al suo posto ufficiale accanto alla sega. Aveva le lacrime agli occhi, non tanto per il dolore fisico, quanto per la perdita del suo libro adorato.

    — Vieni giù, animale! Devo parlarti.

    Il rumore della macchina impedì ancora a Giuliano di udire quell’ordine. Il padre, che era disceso, non volendo darsi la pena di risalire sul meccanismo, andò a prendere una lunga pertica per abbattere le noci e con essa lo colpì su la spalla. Appena Giuliano fu a terra, il vecchio Sorel, cacciandoselo rudemente davanti, lo spinse verso la casa.

    «Sa Dio che cosa mi farà!» pensava il giovane. E, passando, guardò con tristezza il ruscello nel quale era caduto il suo libro. Era quello che gli stava più a cuore di tutti: Il Memoriale di Sant’Elena.

    Aveva le guance rosse e gli occhi bassi. Era un giovanottino di diciotto o diciannove anni, debole in apparenza, dai lineamenti irregolari, ma delicati, e dal naso aquilino. I grandi occhi neri che, nei momenti di tranquillità, dimostravano riflessione ed ardore, erano animati in quel momento dall’espressione dell’odio più feroce. I capelli castano scuri, piantati molto bassi, gli facevan piccola la fronte e nei momenti di collera gli davano un aspetto cattivo. Tra le innumerevoli varietà delle fisionomie umane non ve n’è, forse, alcuna che si sia distinta per una caratteristica più impressionante. La figura snella, elegante e ben fatta, annunziava più elasticità che vigore. Fin dalla prima giovinezza, la sua aria estremamente pensosa e il suo grande pallore avevano dato al padre l’impressione che egli non dovesse vivere a lungo, o che, vivendo, sarebbe stato a carico della famiglia. Oggetto di disprezzo per tutti, in casa, egli odiava il padre e i fratelli. Nei giuochi domenicali, su la piazza pubblica, era sempre battuto. Da meno di un anno soltanto, la sua bella faccia cominciava a procurargli qualche attenzione amichevole tra le ragazze. Disprezzato da tutti come un essere debole, Giuliano aveva molto amato quel vecchio ufficiale medico, che un giorno osò parlare al sindaco a proposito dei platani.

    Quel chirurgo pagava talvolta a papà Sorel la giornata del figliuolo ed insegnava a questi il latino e la storia, cioè quello che egli sapeva di storia: la campagna del 1796 in Italia. Alla sua morte gli aveva lasciato la croce della Legion d’onore, gli arretrati della sua mezza paga e trenta o quaranta volumi, il più prezioso dei quali era andato a finire, quel giorno, nel ruscello pubblico, deviato in virtù dell’influenza del signor sindaco.

    Appena entrato in casa, Giuliano si sentì la spalla afferrata dalla possente mano paterna. Tremava, in attesa di botte.

    — Rispondimi senza mentire — gli gridò negli orecchi l’aspra voce del vecchio contadino, mentre la sua mano lo faceva rigirare come un bimbo volta un soldatino di piombo. I grand’occhi neri di Giuliano, pieni di lacrime, si trovarono di fronte agli occhietti del vecchio legnaiuolo, che pareva volesse leggergli fino in fondo all’anima.

    V.

    UN NEGOZIATO.

    Cunctaudo restituit rem.

    Ennio.

    — Rispondimi senza mentire, se puoi, cane di un leggiucchiatore; come fai a conoscere la signora di Rênal? Quando le hai parlato?

    — Non le ho mai parlato — rispose Giuliano. — Non ho visto mai quella signora altro che in chiesa.

    — Ma l’avrai guardata, brutto sfrontato?

    — Mai! Sapete bene che in chiesa vedo soltanto Dio — soggiunse Giuliano, con un’aria lievemente ipocrita, opportuna, secondo lui, a scongiurare una ripresa di scapaccioni.

    — Eppure, qui sotto c’è qualche cosa! — replicò lo scaltro contadino; e tacque un istante. — Ma non saprò nulla da questo maledetto ipocrita. In conclusione, sto per essere liberato da te e la sega ci guadagnerà. Hai abbindolato il curato o non so chi altro, che t’ha procurato un buon posto. Va a fare il tuo fagotto: ti accompagnerò in casa del signor di Rênal, dove sarai precettore dei ragazzi.

    — Quanto mi daranno?

    — Il vitto, i vestiti e trecento franchi di paga.

    — Non voglio fare il domestico.

    — Chi ti parla di fare il domestico, animale? Potrei volere che mio figlio fosse un domestico?

    — Ma con chi mangerò?

    La domanda turbò il vecchio Sorel, il quale sentì che, parlando, avrebbe potuto commettere qualche imprudenza. S’arrabbiò contro Giuliano, lo colmò d’ingiurie, accusandolo di ghiottoneria, e lo lasciò per consultare gli altri figli.

    Giuliano, poco dopo, li vide raccolti a consiglio, ciascuno appoggiato alla propria scure. Dopo averli guardati a lungo, visto che non poteva afferrare nulla di ciò che dicevano, andò a mettersi dall’altro lato della sega, per evitare di esser sorpreso. Voleva riflettere su quella notizia imprevista che mutava la sua sorte; ma si sentiva incapace di prudenza. La sua fantasia si sbrigliava soltanto a imaginare ciò che avrebbe visto nella bella casa del signor di Rênal.

    «Bisogna rinunziare a tutto questo, — pensò — piuttosto che lasciarsi ridurre a mangiare. insieme con i domestici. Mio padre, forse, vorrà obbligarmi; ma meglio morire. Ho quindici franchi e otto soldi di economia. Questa notte fuggirò. Per vie traverse, dove non posso temere di incontrare gendarmi, sarò in due giorni a Besançon e là mi arruolerò come soldato e, se sarà necessario, passerò in Isvizzera. Ma, allora, niente progressi per il mio avvenire; non più la bella carriera ecclesiastica che conduce a tutto.»

    Quella ripugnanza a mangiare insieme con i domestici non era naturale in Giuliano, che, per giungere alla fortuna, avrebbe fatto cose assai più penose. Gli derivava dalla lettura delle Confessioni di Rousseau, il solo libro con l’aiuto del quale la sua imaginazione si raffigurasse il mondo. La raccolta dei bollettini della Grande Armata e il Memoriale di Sant’Elena completavano il suo Corano. Per quelle tre opere si sarebbe fatto uccidere. Mai ebbe fede in alcun’altra. Secondo un’opinione del vecchio ufficiale medico, considerava tutti gli altri libri come menzogneri e scritti da persone senza scrupoli, allo scopo di far carriera.

    Giuliano, insieme con un’anima ardente, aveva una di quelle memorie stupefacenti e così spesso unite alla stupidità. Per entrare nelle grazie del vecchio abate Chelan, dal quale capiva bene che dipendeva la sua sorte, aveva imparato a memoria il Nuovo Testamento in latino. Sapeva anche il libro del Papa di De Maistre e credeva poco tanto all’uno che all’altro.

    Come per un mutuo accordo, Sorel e il figliuolo evitarono di parlarsi quel giorno. Verso sera, Giuliano andò a prendere la solita lezione di teologia dal curato; ma non ritenne prudente accennargli alla strana proposta che era stata fatta al padre. «Può darsi che sia un tranello — pensava. — Bisogna fingere di averla dimenticata.»

    Il giorno seguente, di buon mattino, il signor di Rênal mandò a chiamare il vecchio Sorel che, dopo essersi fatto attendere un’ora o due, finì con l’arrivare, profondendosi in mille scuse, miste a riverenze, fin dalla porta. A furia di mettere avanti obiezioni di ogni specie, Sorel comprese che il figliuolo sarebbe stato ammesso alla tavola del padrone e della padrona di casa e, i giorni in cui vi fossero invitati, sarebbe stato servito in una stanza a parte, con i ragazzi. Sempre meglio disposto a creare ostacoli, quanto più scorgeva una vera premura nel sindaco e, d’altra parte, pieno di diffidenza e di stupore, egli chiese di vedere la camera assegnata al figliuolo. Era una grande camera ammobiliata molto decorosamente; ma nella quale già stavano trasportando i letti dei tre ragazzi. Quella circostanza fu come un guizzo di luce per il vecchio contadino, il quale domandò subito, con sicurezza, di vedere il vestito che avrebbero dato al figliuolo. Il signor di Rênal aprì il cassetto della scrivania e prese cento franchi.

    — Con questo denaro vostro figlio andrà da Durand, il negoziante di stoffe, e ordinerà un abito completo nero.

    — E se io lo togliessi dalla vostra casa — disse il contadino, che aveva ad un tratto dimenticato le forme ossequiose — questo abito nero gli resterebbe?

    — Certamente.

    — Oh, bene! — disse Sorel, con un tono di voce strascicato. — Resta soltanto da metterci d’accordo sopra una cosa: il denaro che gli darete.

    — Come? — esclamò il signor di Rênal, indignato. — Ma se siamo d’accordo fin da ieri! Do trecento franchi: credo che sia molto e forse anche troppo.

    — È la vostra offerta, non lo nego — disse il vecchio Sorel, parlando ancora più lentamente e, per un impulso geniale, che stupirà solo quelli che non conoscono i contadini della Franca Contea, soggiunse guardando fisso il signor di Rênal: — Troveremo di meglio altrove.

    A quelle parole, il viso del sindaco si sconvolse. Tuttavia, egli riprese il dominio di se stesso e, dopo una sapiente conversazione di due ore, nella quale neppure una parola fu detta a caso, l’astuzia del contadino la vinse su quella del ricco, che non ne ha bisogno per vivere. Tutti i numerosi articoli dell’accordo che doveva regolare la nuova esistenza di Giuliano furono fissati. Non solo lo stipendio fu aumentato a quattrocento franchi; ma si stabilì il pagamento anticipato, il primo d’ogni mese.

    — Bene: gli darò trentacinque franchi — disse il signor di Rênal.

    — Per fare cifra tonda, — insinuò con voce carezzevole il contadino — un uomo ricco e generoso come il nostro signor sindaco arriverà certo fino a trentasei franchi.

    — Sia pure; — disse il signor di Rênal — ma facciamola finita.

    La collera gli dava un tono reciso. Il contadino si accorse che bisognava fermarsi. E allora, a sua volta, il signor di Rênal fece progressi. Non volle assolutamente consegnare il primo mensile di trentasei franchi al vecchio Sorel, al quale premeva molto di riscuoterlo per conto del figlio. Pensava che gli sarebbe toccato di raccontare alla moglie la parte che aveva avuto in tutte quelle trattative.

    — Ridatemi i cento franchi che vi ho consegnati — disse, brusco. — Il Durand mi deve qualche cosa. Andrò con vostro figlio per l’acquisto della stoffa nera.

    Dopo quell’atto energico, Sorel tornò prudentemente alle formule rispettose, che occuparono un buon quarto d’ora. Alla fine, visto che non v’era proprio più niente da guadagnare, si congedò. La sua ultima riverenza terminò con queste parole:

    — Mando subito mio figlio al castello.

    Così gli amministrati del signor sindaco qualificavano la sua casa, quando volevano fargli piacere.

    Tornato all’officina, Sorel cercò inutilmente il figliuolo. Inquieto su ciò che poteva accadere, Giuliano era uscito nel corso della notte. Aveva voluto mettere al sicuro i libri e la croce della Legion d’onore, ed aveva trasportato tutto in casa di un giovane negoziante di legna, suo amico, un certo Fouqué, il quale abitava su l’alta montagna che domina Verrières.

    Quando riapparve, il padre gli disse:

    — Dio sa, maledetto sfaccendato, se avrai tanto senso d’onore da restituirmi un giorno il prezzo del tuo mantenimento, che avanzo da tanti anni! Su, prendi i tuoi cenci e vattene in casa del signor sindaco.

    Giuliano, stupefatto di non essere picchiato, si affrettò ad andar via. Ma appena fuori dalla vista del suo terribile padre, rallentò il passo, giudicando che sarebbe stato utile alla sua ipocrisia fare una capatina in chiesa.

    Vi sorprende questa orribile parola? Prima di giungere ad essa l’anima del giovane contadino aveva dovuto percorrere molta strada.

    Fin dalla prima fanciullezza, la vista di alcuni dragoni del 6° reggimento ( ² ) con i lunghi mantelli bianchi e la testa coperta dagli elmi adorni di crini neri spioventi, che tornavano dall’Italia e che avevano legato i cavalli alle inferriate delle finestre della casa di suo padre, lo aveva reso entusiasta della vita militare. Più tardi, egli ascoltava con interesse vivissimo i racconti delle battaglie del ponte di Lodi, di Arcole, di Rivoli che gli faceva il vecchio ufficiale medico. Lo colpirono gli ardenti sguardi che il vecchio gettava su la sua croce.

    Ma, quando Giuliano aveva quattordici anni, si cominciò a Verrières la costruzione di una chiesa, che potè esser considerata magnifica per una città tanto piccola. Vi erano soprattutto quattro colonne di marmo, la vista delle quali colpì il giovanetto. Quelle colonne diventarono celebri nel paese per l’odio mortale che suscitarono tra il giudice e il giovane vicario inviato da Besançon, il quale aveva fama di essere una spia della Congregazione. Il giudice fu in pericolo di perdere il posto; tale, per lo meno, era l’opinione pubblica. Non aveva, infatti, avuto l’ardire di mettersi in dissidio con un prete che, quasi ogni quindici giorni, si recava a Besançon, dove — dicevano — era ricevuto da monsignore il vescovo?

    Stando così le cose, il giudice, capo di una numerosa famiglia, pronunziò diverse sentenze che sembrarono ingiuste: tutte erano contrarie a cittadini che leggevano il Costituzionale. Il buon partito trionfò. Si trattava, è vero, solo di somme di tre o cinque franchi; ma una di quelle ammende dovette esser pagata da un negoziante di chiodi, padrino di Giuliano. Quell’uomo, nell’impeto della collera, gridava: «Che cambiamento! E dire che da più di vent’anni, il giudice era ritenuto una persona così onesta!» L’ufficiale medico, amico di Giuliano, era morto.

    Ad un tratto il giovane cessò di parlare di Napoleone: annunziò il proposito di farsi prete e fu visto costantemente nell’officina del padre, occupato ad imparare a memoria una bibbia in latino prestatagli dal curato. Il buon vecchio, meravigliato dei suoi progressi, passava intere serate ad insegnargli la teologia. Giuliano, di fronte a lui, dimostrava soltanto sentimenti religiosi. Chi avrebbe potuto imaginare che con quel suo volto da giovanetta, così pallido e soave, egli nascondesse la risoluzione irrevocabile di esporsi a mille morti piuttosto che non fare fortuna?

    Per Giuliano, far fortuna significava, prima di tutto, uscire da Verrières. Egli odiava il suo paese: tutto ciò che si vedeva intorno pareva gli raggelasse la fantasia.

    Fin dalla prima adolescenza aveva avuto momenti di esaltazione. Allora pensava, con gioia, che sarebbe stato presentato alle belle donne parigine, che avrebbe saputo attrarre la loro attenzione con qualche atto clamoroso. E — chi sa? — poteva anche riuscire a farsi amare da una di esse, come Bonaparte, povero ancora, era stato amato dalla brillante signora di Beauharnais. Da molti anni Giuliano non passava, si può dire, un’ora della propria vita, senza ricordare a se stesso che Bonaparte, oscuro tenente, privo di beni di fortuna, si era creato padrone del mondo con la propria spada. Questo pensiero lo consolava delle sue disgrazie, che egli credeva grandi, e raddoppiava la sua gioia, quando ne provava.

    La costruzione della chiesa e le sentenze del giudice lo illuminarono repentinamente. Un’idea sortagli lo tenne in uno stato di esaltazione per alcune settimane e, alla fine, s’impadronì di lui con tutta la potenza della prima idea che un’anima ardente crede di aver inventata.

    «Quando Bonaparte fece parlare di sè, la Francia aveva paura di un’invasione. Il merito militare era necessario alla moda. Oggi si vedono preti di quarant’anni con centomila franchi di stipendio, ossia tre volte di più dei famosi generali di divisione napoleonici. Ecco qui un giudice, così intelligente, così onesto fino ad oggi, così vecchio, che si disonora per tema di dispiacere ad un giovane vicario di trent’anni. Bisogna esser prete.»

    Una volta, nel colmo della sua recente tendenza religiosa — già da due anni studiava teologia — egli fu tradito da un’improvvisa irruzione del fuoco che gli divorava l’anima. Fu in casa dell’abate Chelan. Durante un pranzo di preti, ai quali il buon curato lo aveva presentato come un prodigio di dottrina, gli venne fatto di tessere un appassionato elogio di Napoleone. Si legò il braccio destro al petto, inventò di esserselo slogato nel sollevare un tronco di abete e lo tenne per due mesi in quella scomoda posizione. Dopo essersi inflitta una simile penitenza, si concesse il perdono.

    Di tale natura era il giovane di diciotto anni, cui, per il suo aspetto debole, se ne sarebbero dati al massimo diciassette, che entrava nella magnifica chiesa di Verrières, recando un piccolo involto sotto il braccio.

    Il tempio gli parve scuro e solitario. In occasione di una festa, tutte le finestre erano state coperte di stoffa cremisi. Ai raggi del sole ne risultava un effetto di luce magnifico, del più imponente carattere religioso. Giuliano trasalì. Solo nella chiesa, prese posto sul banco che aveva l’apparenza più bella. Era fregiato dello stemma del signor di Rênal. Su l’inginocchiatoio, il giovane scorse un pezzo di carta stampata, messo lì come per esser letto. Vi posò gli sguardi e lesse:

    Particolari dell’esecuzione e degli ultimi momenti di Luigi Jenrel, giustiziato a Besançon il giorno...

    A questo punto, la carta era strappata. Sul tergo si leggevano tre sole parole d’un rigo: Il primo passo...

    — Chi ha potuto metter qui questa carta? — mormorò Giuliano. — Povero disgraziato! — soggiunse con un sospiro. — Il suo cognome termina come il mio. — E gualcì il foglietto.

    Nell’uscire dalla chiesa, credette di veder del sangue presso l’acquasantiera: era l’acqua benedetta che era stata sparsa. I riflessi delle tendine rosse che coprivano le finestre la facevano sembrare sangue.

    Ma, alla fine, ebbe vergogna del suo segreto terrore:

    «Sarei forse un vile? — pensò. — All’ armi!».

    Questo grido così spesso ripetuto nei racconti del vecchio ufficiale medico era eroico per Giuliano. Si alzò e camminò rapidamente verso la casa del signor di Rênal.

    Ad onta delle sue belle risoluzioni, appena la vide a venti passi da lui, fu preso da una timidezza invincibile. Il cancello di ferro era aperto: gli sembrava magnifico. Bisognava entrare là dentro.

    Giuliano non era il solo che si sentisse il cuore turbato dal suo arrivo in quella casa. L’estrema timidezza della signora di Rênal era sconcertata dal pensiero di quell’estraneo, che, a causa delle sue mansioni, si sarebbe trovato costantemente tra lei e i figliuoli. Ella era assuefatta a vedere i bimbi dormire nella sua camera. Quella mattina, aveva pianto molto, vedendo trasportare i loro lettini nell’appartamento destinato al precettore ed aveva pregato, ma inutilmente, il marito, che il letto del più piccolo, Stanislao Saverio, fosse riportato nella sua camera.

    Nella signora di Rênal l’impressionabilità femminile era spinta all’eccesso. Ella si raffigurava il precettore con la più sgradevole imagine d’una persona rozza e mal pettinata, incaricata di sgridare i suoi figli, unicamente perchè sapeva il latino, linguaggio barbaro, per il quale i suoi bimbi sarebbero stati frustati.

    VI.

    LA NOIA.

    Non so più cosa son, Cosa faccio...

    Mozart (Figaro).

    Con la vivacità e la grazia che le erano naturali quando era lontana dagli sguardi degli uomini, la signora di Rênal usciva dalla porta a vetri del salone che dava sul giardino, quando scorse, presso la porta d’ingresso, la figura di un giovane contadino, quasi ancora un fanciullo, estremamente pallido, con tracce recenti di lacrime sul volto. Indossava una camicia bianchissima e sotto il braccio aveva una giacca decente di rattina violetta.

    Il colorito di quel giovane contadino era così bianco, i suoi occhi così dolci, che lo spirito un po’ tendente al romanzesco della signora di Rênal, le suggerì dapprima il sospetto che potesse trattarsi di una giovanetta travestita che venisse a chiedere una grazia al signor sindaco. Ebbe pietà di quella povera creatura ferma su la porta d’ingresso, che, evidentemente, non osava alzare la mano fino al campanello. La signora di Rênal si avvicinò, distratta per un momento dall’amara preoccupazione che le dava l’arrivo del precettore. Giuliano, rivolto verso la porta, non la vedeva avanzare e trasalì quando una voce dolce gli disse quasi all’orecchio:

    — Che volete qui, figliuolo mio?

    Il giovane si volse bruscamente e, colpito dallo sguardo della signora di Rênal, così pieno di grazia, dimenticò una parte della sua timidezza. Subito dopo, stupefatto dalla bellezza di lei, dimenticò tutto, anche ciò che andava a fare in quel luogo. La signora di Rênal aveva ripetuto la domanda.

    — Vengo per fare il precettore, signora, — le rispose, alla fine, vergognoso delle lacrime, che si asciugava come meglio poteva.

    La signora di Rênal restò confusa. Erano vicinissimi l’uno all’altra, a guardarsi. Mai a Giuliano era accaduto che un essere così ben vestito e specialmente una donna con un colorito così splendido gli parlasse con tanta dolcezza di tono. La signora di Rênal guardava le grosse

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1