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Il Grande Gatsby
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Il Grande Gatsby

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Il Grande Gatsby (The Great Gatsby) è un romanzo di Francis Scott Fitzgerald pubblicato per la prima volta a New York il 10 aprile 1925 e definito da T.S. Eliot «il primo passo in avanti fatto dalla narrativa americana dopo Henry James».
Ambientato a New York e a Long Island durante l'estate del 1922, Il Grande Gatsby è il più acuto ritratto dell'anima dell'età del jazz, con le sue contraddizioni, il suo vittimismo e la sua tragicità. La storia, che seguendo la tecnica di Henry James viene raccontata da uno dei personaggi, narra la tragedia del mito americano che aveva retto il paese dai tempi dello sbarco a Plymouth Rock e può essere considerata l'autobiografia spirituale di Fitzgerald che, ad un certo punto della sua vita, chiuso con l'alcolismo e con la vita da playboy, voleva capire quali fossero stati gli ostacoli che avevano fatto inabissare la sua esistenza.
LanguageEnglish
PublisherStargatebook
Release dateDec 15, 2020
ISBN9791220237550
Il Grande Gatsby
Author

Francis Scott Fitzgerald

Francis Scott Fitzgerald (Saint Paul, 1896 - Hollywood, 1940). Considerado uno de los más importantes escritores estadounidenses del siglo xx y portavoz de la «Generación Perdida». Su obra refleja el desencanto de los privilegiados jóvenes de su generación, aquellos norteamericanos nacidos en la última década del siglo xix, a quienes les tocó madurar durante la Primera Guerra Mundial y que arrastraban su lasitud entre el jazz y la ginebra. Sus obras están escritas con un estilo elegante y situadas en fascinantes decorados. Destacan A este lado del paraíso (1920), Suave es la noche (1934) y, por supuesto, El gran Gatsby (1925).

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    Book preview

    Il Grande Gatsby - Francis Scott Fitzgerald

    Indice dei contenuti

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    PROPOSITI GENERALI

    Il grande Gatsby

    di

    F. Scott Fitzgerald

    Traduzione ed edizione 2020 a cura di  ©David De Angelis

    Tutti i diritti sono riservati

    Allora indossa il cappello d’oro, se quello la smuoverà;

    Se puoi saltare in alto, salta anche per lei,

    Finché lei non griderà "Amore, amore dal cappello d’oro, che salti in alto,

    Io devo averti!"

    THOMAS PARKE D’INVILLIERS

    Capitolo 1

    Nei miei anni più giovani e più vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che da allora ho sempre tenuto vivo nella mia mente.

    Ogni volta che ti viene da criticare qualcuno, mi disse, ricordati solo che non tutte le persone del mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu.

    Non disse altro, ma siamo sempre stati insolitamente comunicativi in modo riservato, e compresi che ciò che voleva dire andava ben oltre quelle semplici parole. Di conseguenza sono propenso a tenere da parte tutti i giudizi; un’abitudine che mi ha fatto conoscere molte indoli curiose e mi ha anche reso vittima di non pochi seccatori accaniti. La mente anormale è veloce a individuare questa qualità e ad attaccarcisi quando essa appare in una persona normale, e così accadde che all’università fui ingiustamente accusato di essere un politico, poiché ero al corrente delle afflizioni segrete di uomini sconosciuti e sfrenati. La maggior parte delle confidenze non erano richieste; di frequente ho simulato il sonno, la preoccupazione, o una frivolezza ostile quando mi sono reso conto, a causa di un qualche segno inconfondibile, che una rivelazione intima stava tremando all’orizzonte, poiché le rivelazioni intime dei giovani uomini, o almeno i termini in cui le esprimono, sono di solito plagiarie e guastate da evidenti omissioni. Sospendere il giudizio è una questione di speranza infinita. Ho ancora un po’ di paura di perdere qualcosa se mi dimentico che, come mio padre suggerì snobisticamente, e io snobisticamente ripeto, il senso delle fondamentali regole di decenza viene

    distribuito inegualmente alla nascita.

    E, dopo aver vantato questo mio modo di tollerare, arrivo ad ammettere che esso ha un limite. La condotta può essere fondata sulla dura roccia o su un terreno paludoso, ma oltre un certo punto non m’importa su cosa sia fondata. Quando tornai dall’Est lo scorso autunno sentii di volere che il mondo fosse in uniforme e che stesse per sempre su una specie di attenti morale; non volevo più escursioni tumultuanti con occhiate privilegiate all’interno del cuore umano. Solo Gatsby, l’uomo che dà il nome a questo libro, fu esente dalla mia reazione; Gatsby che rappresentava tutto ciò per cui ho un autentico disprezzo. Se la personalità è una serie ininterrotta di azioni riuscite, allora c’era qualcosa di magnifico in lui, un’amplificata sensibilità alle promesse della vita, come se lui fosse connesso a uno di quei macchinari complessi che registrano i terremoti a quindicimila chilometri di distanza. Questa sensibilità non aveva nulla a che fare con quella fiacca impressionabilità che viene nobilitata con il nome di indole creativa; era una straordinaria dote per la speranza, una prontezza romantica tale come non ne ho mai trovata in nessun’altra persona e che è improbabile che io possa mai trovare ancora. No, Gatsby risultò a posto alla fine; è ciò che lo logorava, quella polvere sporca che galleggiava nella scia dei suoi sogni, che chiuse temporaneamente il mio interesse per le vane afflizioni e le bolse euforie degli uomini.

    Le persone della mia famiglia sono state persone distinte e agiate di questa città del Midwest per tre generazioni. I Carraway sono un po’ come un clan e abbiamo una tradizione secondo cui discendiamo dai duchi di Buccleuch, ma il vero fondatore della mia stirpe fu il fratello di mio nonno, che venne qui nel cinquantuno, mandò un sostituto nella Guerra Civile e cominciò l’attività di ferramenta

    all’ingrosso che mio padre porta avanti ancora oggi.

    Io non ho mai visto questo prozio ma si ritiene che gli assomigli, se si fa riferimento al dipinto piuttosto indurito che sta appeso nell’ufficio di mio padre. Mi sono laureato a New Haven nel 1915, solo un quarto di secolo dopo mio padre, e un poco più tardi ho partecipato a quella migrazione teutonica ritardata conosciuta come Grande Guerra. Mi sono gustato il contrattacco tanto a fondo che sono tornato indietro insonne. Invece di essere il caldo centro del mondo, il Midwest ora sembrava l’orlo frastagliato dell’universo, così decisi di andare nell’Est e di imparare l’attività di compravendita delle obbligazioni. Tutti quelli che conoscevo erano coinvolti in tale attività quindi supposi che potesse dare sostentamento a un uomo in più. Tutte le mie zie e i miei zii ne discussero a fondo come se stessero scegliendo un collegio per me e alla fine dissero Beh, sì con volti molto seri ed esitanti. Mio padre concordò di finanziarmi per un anno e dopo vari ritardi andai nell’Est, in modo permanente (così pensai), nella primavera del ventidue.

    La soluzione pratica stava nel trovare delle stanze in città, ma era una stagione calda e avevo appena lasciato una campagna di ampie distese erbose e alberi amichevoli, così quando un giovane uomo in ufficio suggerì che prendessimo una casa insieme in un posto da pendolari mi sembrò un’ottima idea. Trovò la casa, una villetta a un solo piano segnata dalle intemperie, per ottanta dollari al mese, ma all’ultimo momento l’azienda lo mandò a Washington e io andai in campagna da solo. Avevo un cane, o almeno lo ebbi per qualche giorno finché non scappò via, e una vecchia Dodge e una donna finlandese che mi faceva il letto e preparava la colazione ed emetteva saggezza finlandese mormorando tra sé e sé davanti al fornello elettrico.

    Fui solo per un giorno o quasi finché una mattina un uomo,

    arrivato più di recente rispetto a me, mi fermò per strada. Come si arriva a West Egg? chiese disperatamente. Glielo dissi. E mentre continuavo a camminare non fui più solo. Ora ero una guida, un apripista, un colonizzatore originale. Mi aveva casualmente conferito la libertà del quartiere.

    E così con lo splendore del sole e con le grandi esplosioni di foglie che crescevano sugli alberi, proprio come le cose crescono nei film, ebbi quella convinzione familiare secondo cui la vita, con l’estate, ricomincia da capo.

    C’era tantissimo da leggere, tanto per cominciare, e tantissima buona salute da cogliere da quella giovane aria fresca. Comprai una dozzina di volumi sull’attività bancaria, sul credito e sulle obbligazioni, e questi stavano sul mio scaffale rossi e dorati come denaro nuovo arrivato dalla zecca, promettendo di rivelare i segreti splendenti che solo Mida e Morgan e Mecenate conoscevano. E avevo la forte intenzione di leggere molti altri libri. Ero piuttosto interessato alla letteratura all’università (un anno scrissi una serie di editoriali assai solenni ed espliciti per lo Yale News), e ora stavo per riportare tutte queste cose nella mia vita e diventare di nuovo il più limitato di tutti gli specialisti, l’uomo a tutto tondo. Questo non è solo un epigramma; dopo tutto, la vita la si può vedere molto meglio se la si guarda da una sola finestra.

    Fu dovuto al caso il fatto che affittai una casa in una delle comunità più strane del Nord America. Accadde su quell’esile isola tumultuante che si estende a est di New York e dove ci sono, tra altre curiosità naturali, due insolite formazioni di terra. A trenta chilometri dalla città un paio di uova enormi, identiche nei contorni e separate solo da una baia di cortesia, si protendono nel più addomesticato corpo d’acqua salata dell’emisfero occidentale: la grande aia bagnata della laguna di Long Island. Non sono dei perfetti

    ovali: come l’uovo della storia di Colombo sono entrambi schiacciati, piatti, dal lato dove fanno contatto. Ma la loro somiglianza fisica dev’essere fonte di perpetua confusione per i gabbiani che ci volano sopra. Per chi è senz’ali, un aspetto che colpisce parecchio è la loro dissomiglianza in ogni particolare a eccezione della forma e delle dimensioni.

    Io vivevo a West Egg, la... Beh, la meno alla moda delle due, anche se questa è un’etichetta assai superficiale per esprimere il contrasto bizzarro e non poco sinistro esistente tra loro. La mia casa era proprio sulla punta dell’uovo, a soli cinquanta metri dalla laguna, e stava pigiata tra due posti enormi che venivano affittati per dodici o quindicimila a stagione. Quello sulla mia destra era un affare colossale sotto ogni aspetto; era un’effettiva imitazione di qualche Hôtel de Ville della Normandia, con una torre da un lato, nuova di zecca sotto una sottile barba di edera incolta, e una piscina di marmo e più di quaranta acri di prato e giardino. Era la residenza di Gatsby. O meglio, dato che non conoscevo il signor Gatsby, era una residenza abitata da un gentiluomo con quel nome. La mia casa era un pugno in un occhio, ma un pugno in un occhio piccolo, e non era stata considerata, perciò avevo una vista sull’acqua, una vista parziale sul prato del mio vicino, e la consolante vicinanza dei milionari: tutto per ottanta dollari al mese.

    Dall’altra parte della baia di cortesia i bianchi palazzi dell’elegante East Egg luccicavano lungo l’acqua, e la storia di quell’estate comincia per davvero la sera in cui guidai fin là per cenare da Tom Buchanan. Daisy era figlia di un secondo cugino e avevo conosciuto Tom all’università. E appena dopo la guerra trascorsi due giorni con loro a Chicago.

    Suo marito, tra varie imprese fisiche, era stato uno dei più potenti attaccanti che abbiano mai giocato a football a New

    Haven; una figura nazionale per certi aspetti, uno di quegli uomini che raggiungono una tale eccellenza acuta e limitata a ventun anni che tutto quello che viene dopo sa di anticlimax. La sua famiglia era enormemente ricca (anche all’università la sua disinvoltura con il denaro era motivo di rimprovero) ma ora aveva lasciato Chicago ed era venuto a est in una maniera che ti toglieva proprio il fiato: per esempio, aveva portato una scuderia di cavalli da polo da Lake Forest. Era difficile rendersi conto che un uomo della mia stessa generazione fosse abbastanza ricco da fare ciò. Perché vennero a est non lo so. Avevano passato un anno in Francia, senza un motivo particolare, e poi avevano vagato di qua e di là irrequietamente ovunque la gente giocasse a polo e fosse anche ricca. Ora si trattava di uno spostamento permanente, disse Daisy per telefono, ma io non ci credetti; non potevo vedere nel cuore di Daisy ma sentivo che Tom avrebbe continuato a vagare per sempre cercando un po’ nostalgicamente la forte turbolenza di una qualche irrecuperabile partita di football. E così accadde che una calda sera ventosa guidai fino a East Egg per vedere due vecchi amici che quasi non conoscevo affatto. La loro casa era ancor più elaborata di quanto mi sarei aspettato: una vivace villa coloniale georgiana rossa e bianca che dava sulla baia. Il prato cominciava dalla spiaggia e correva verso la porta frontale per mezzo chilometro, saltando su meridiane e vialetti di mattoni e giardini ardenti, e infine raggiungeva la casa risalendo un lato con luminose piante rampicanti come se lo facesse per l’impeto della sua corsa. Il davanti era spezzato da una serie di portefinestre che ora luccicavano di oro riflesso, e che erano spalancate verso il caldo pomeriggio ventoso, e Tom Buchanan, con indosso abiti da equitazione, stava con le gambe divaricate nella veranda frontale.

    Era cambiato rispetto ai suoi anni a New Haven. Ora era un

    uomo robusto di trent’anni, dai capelli paglierini, con una bocca piuttosto sgraziata e un contegno altezzoso. Due fulgidi occhi arroganti avevano stabilito il proprio dominio sul suo volto e gli davano l’apparenza di sporgersi sempre aggressivamente in avanti. Neanche l’effeminata ostentazione dei suoi vestiti da equitazione poteva nascondere l’enorme potenza di quel corpo; sembrava riempire quegli stivali luccicanti, e quando si mise a tendere il laccio superiore si potè vedere un grosso fagotto muscoloso spostarsi non appena la sua spalla si mosse sotto la sua giacca sottile. Era un corpo capace di un leveraggio enorme: un corpo crudele.

    Il suo tono di voce da tenore, aspro e roco, accresceva l’impressione di irritabilità che trasmetteva. C’era un tocco di sprezzo paterno in esso, anche verso le persone che gli piacevano, e c’erano uomini a New Haven che non lo avevano potuto soffrire.

    Ora non pensare che la mia opinione su queste faccende sia quella definitiva, sembrava che dicesse, solo perché sono più forte e più uomo di te. Eravamo nella stessa società studentesca, e anche se non fummo mai intimi ebbi sempre l’impressione che lui mi approvasse e che volesse piacermi con un suo senso di nostalgia aspro e provocatorio.

    Parlammo per qualche minuto nella veranda soleggiata.

    Mi sono preso un bel posto qui, disse, con gli occhi che guizzavano intorno agitati.

    Facendomi girare con un braccio mosse un’ampia mano piatta lungo la vista frontale, includendo nel suo movimento un giardino incassato italiano, mezzo acre di alte rose pungenti e un motoscafo col muso schiacciato e all’insù che sobbalzava contro la marea al largo.

    Apparteneva a Demaine, il petroliere. Mi fece di nuovo girare, improvvisamente e garbatamente. Andiamo dentro.

    Camminammo attraverso un alto atrio per arrivare in uno spazio luminoso di color roseo, fragilmente vincolato alla casa da delle portefinestre a entrambe le estremità. Le finestre erano socchiuse e luccicavano bianche contro l’erba fresca dell’esterno, che sembrava farsi un po’ strada dentro la casa. Una brezza soffiò attraverso la stanza, soffiò le tende in dentro da un lato e in fuori dall’altro, come pallidi vessilli, facendole attorcigliare verso la torta nuziale glassata del soffitto, e poi increspare sul tappeto color vino, creando un’ombra su di esso come fa il vento sul mare.

    L’unico oggetto completamente stazionario in quella stanza era un enorme divano su cui due giovani donne erano tenute a galla come su una mongolfiera ancorata. Erano entrambe in bianco e i loro vestiti si increspavano e ondeggiavano come se fossero appena state spinte lì indietro dal vento dopo un breve volo intorno alla casa. Devo essere stato per qualche momento ad ascoltare lo sferzare e lo schioccare delle tende e il gemito di un quadro appeso al muro. Poi ci fu un rimbombo come Tom Buchanan chiuse le finestre sul retro, e il vento catturato si estinse nella stanza, e le tende

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