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I miei giorni con Bhagavan: Memorie di Annamalai Swam
I miei giorni con Bhagavan: Memorie di Annamalai Swam
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I miei giorni con Bhagavan: Memorie di Annamalai Swam

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Un resoconto vivido e ispirante sulla vita nell'ashram nei primi anni e sulle prove che Annamalai Swami dovette affrontare nel decennio trascorso con Ramana Maharshi, uno dei più importanti maestri spirituali dell'India.Annamalai Swami (1906-1995) incontrò Ramana Maharshi nel 1928, dopo averne avuta una visione in sogno. La prima volta che gli fece visita, Bhagavan lo guardò in silenzio per diversi minuti, infondendogli una profonda sensazione di pace. Una decina di giorni dopo, Annamalai gli chiese come avrebbe potuto raggiungere la realizzazione del Sé. La risposta fu: Se abbandoni l'identificazione con il corpo e mediti sul Sé puoi raggiungere la realizzazione. Quindi Bhagavan sorprese Annamalai aggiungendo: Ti stavo aspettando. Mi stavo chiedendo quando saresti arrivato.
LanguageItaliano
Release dateDec 4, 2014
ISBN9788868201838
I miei giorni con Bhagavan: Memorie di Annamalai Swam

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    I miei giorni con Bhagavan - David Godman

    1994.

    Arrivo da Bhagavan

    Sono nato a TondanKurichi, un piccolo villaggio di circa duecento case, nel 1906. Mio padre, un uomo di molti talenti, era una persona importante nel villaggio. Oltre a essere un contadino, un astrologo, un pittore e un costruttore, sapeva anche come fare statue e gopuram (torri del tempio). Poco dopo la mia nascita mio padre e un altro astrologo si incontrarono per discutere il mio oroscopo. Entrambi giunsero alla conclusione che era probabile che sarei diventato un sannyasi (un monaco indù che ha rinunciato a tutti i vincoli familiari e mondani). Mio padre, che non era affatto compiaciuto da questa predizione, decise di cercare di evitare la possibilità negandomi un’adeguata educazione. Aveva l’idea che se non avessi mai imparato a leggere e a scrivere adeguatamente, non avrei mai letto le scritture e non avrei perciò mai sviluppato interesse per il Divino. A causa dell’opinione di mio padre rispetto a questa predizione, alla locale scuola del villaggio ricevetti soltanto un’educazione molto rudimentale. Non appena ebbi imparato l’alfabeto, non mi fu più permesso di andare a scuola e finii ad assistere mio padre nel suo lavoro nei campi.

    Mio padre, sospettando che io potessi cercare di ritornare a scuola senza che lo venisse a sapere o senza il suo consenso, cercò di assicurarsi che io rimanessi praticamente illetterato dicendo a mia madre: Se ritorna a scuola, non dargli più cibo.

    Poco tempo dopo che fui allontanato da scuola, quando stavo passando attraverso un vicino villaggio chiamato Vepur, udii un erudito che faceva una conferenza.

    Disse agli abitanti del villaggio: È bene studiare. Anche se doveste sostenervi mendicando mentre state studiando, dovreste studiare quanto più potete. Solo attraverso l’educazione potete conoscere i misteri della vita.

    Ritornando a casa andai da mio padre e mi lamentai: Oggi ho ascoltato un erudito a Vepur oggi che parlava del valore dell’educazione. Tu non mi permetti di andare a scuola, perché?.

    Mio padre evitò la mia sfida dicendo: Oh, siamo semplicemente dei contadini. Tutto ciò che abbiamo bisogno di imparare è soltanto la nostra firma o i nostri nomi.

    Poiché non ero soddisfatto dell’attitudine e della risposta di mio padre, decisi di cercare di studiare da solo. Mi procurai due libri, uno che conteneva le storie del re Vikramaditya e l’altro i versi di Pattinatar (un poeta e santo tamil del IX secolo) e cercai di imparare a leggere con questi. Per una curiosa coincidenza, uno dei primi versi di Pattinatar che riuscii a decifrare riassumeva profeticamente il sentiero spirituale che cercai di seguire per la maggior parte della mia vita:

    Colui che rinuncia alla sua casa è decine di milioni di volte più grande di colui che, vivendo come un capofamiglia, acquisisce molti punya e dharma (atti meritori). Colui che rinuncia alla mente è decine di milioni di volte più grande di colui che rinuncia alla casa. Colui che ha trasceso la mente e tutta la dualità, come posso esprimere la grandezza di quella persona?

    Sebbene non avessi mai incrociato affermazioni come questa in precedenza, avevo sempre avuto la naturale inclinazione verso la vita spirituale. Nessuno mi aveva mai parlato di questioni spirituali, ma in qualche modo avevo sempre saputo che c’era un potere superiore chiamato Dio e che lo scopo della vita era di conseguirlo. Senza che mi venisse detto, sentivo istintivamente che ogni cosa che vedevo era in qualche modo illusoria e non reale. Questi pensieri, insieme all’idea che non avrei dovuto attaccarmi a nulla in questo mondo, erano parte della mia coscienza anche nella prima fanciullezza.

    Ricordo un episodio che avvenne quando avevo solo sei anni. Stavo camminando con mia madre vicino al villaggio quando un sadhu (asceta indù) in veste ocra si avvicinò a noi.

    Chiesi a mia madre: "Quando diventerò un sannyasi come lui?". Senza attendere risposta, cominciai a camminare dietro al sadhu.

    Mentre camminavo udii mia madre che esprimeva il suo disgusto alle donne del villaggio: "Guardate che ragazzo inutile! Persino a questa età sta cercando di essere un sadhu".

    Mio padre, sfortunatamente, non condivideva le mie predilezioni spirituali. Faceva ogni giorno una puja elaborata (adorazione rituale di una divinità) per circa mezzora, ma le sue motivazioni erano totalmente materialistiche.

    Una volta, mentre ero ancora un ragazzino, gli chiesi: "Perché fai questa puja ogni giorno?".

    Rispose: Voglio ottenere ricchezza, voglio avere terre, voglio avere oro e molto denaro.

    Gli dissi: Queste cose sono tutte periture. Perché preghi per ciò che è transitorio?.

    Mio padre fu stupito della mia comprensione a tale tenera età.

    Come sai che queste cose sono periture?.

    Lo so, questo è il motivo per cui te lo dico, risposi.

    La conoscenza era all’interno di me ma non potevo spiegarla in nessun modo razionale.

    Quando mio padre scoprì che stavo cominciando a interessarmi di questioni spirituali, cercò di scoraggiarmi. Mise molti ostacoli nel mio sentiero e fu soltanto molti anni più tardi che alla fine riconobbe che ero destinato a diventare un sadhu.

    Mentre ero ancora molto giovane gli abitanti del villaggio mi adottarono come una sorta di mascotte portafortuna. Ogniqualvolta qualcuno cominciava a costruire una nuova casa, mi veniva chiesto di mettere la prima pietra. Mi veniva chiesto di strappare la prima erbaccia quando si iniziava il lavoro nei campi e durante i matrimoni mi veniva richiesto di toccare la statua di Ganapathi all’inizio della cerimonia. A ogni modo, l’occupazione più piacevole era mangiare i dolci. Ogniqualvolta le persone del villaggio preparavano dei dolci per un’occasione speciale, venivo invitato a condividerli. Non so quando cominciarono a credere che portavo buona fortuna o come arrivarono a questa conclusione, ma la tradizione persistette fino a che ebbi circa tredici anni.

    Anche Ramana Maharshi aveva il soprannome mano d’oro. In gioventù, quando giocava spesso a pallone con gli amici, fu presto notato che la squadra con cui giocava vinceva sempre. Annamalai Swami deve aver mostrato una simile fortuna per essere stato adottato come mascotte del villaggio.

    Non sono mai stato un bambino di compagnia. Invece di mischiarmi con gli altri, cercavo luoghi disabitati dove potevo sedere e praticare la quiete interiore. Il mio luogo favorito era un tempio di Vinayaka nella foresta vicino al villaggio. Vi andavo spesso e pregavo la Divinità. Ero così ignorante dei riti religiosi in quei giorni che non sapevo nemmeno come prostrarmi adeguatamente di fronte alla divinità. Imparai a farlo soltanto copiando una ragazzina che arrivò al tempio e fece un elaborato ashtanga namaskaram di fronte all’immagine del tempio.

    Si tratta di una prostrazione di tutto il corpo durante la quale otto sue differenti parti toccano terra.

    Dopo una visita a Vriddhachalam, un centro di pellegrinaggio shivaita vicino al mio villaggio, acquisii familiarità con i rituali religiosi. Osservai alcuni bramini che facevano anushtana e chiesi loro di iniziarmi in queste pratiche. Si rifiutarono dicendo che i sudra (membri della casta inferiore) non avevano il permesso di praticare questi riti.

    Gli anushtana includono una larga varietà di pratiche rituali che generalmente sono eseguite solo dai bramini. Alcune sono religiose ma altre sono semplicemente collegate all’igiene personale.

    Non passò molto tempo che vidi alcuni shaiviti non bramini (seguaci di Shiva) che eseguivano gli stessi rituali. Apparentemente li avevano appresi da un libro che ne conteneva una dettagliata descrizione. Imparai questi anushtana da questo gruppo e li eseguii regolarmente quando ritornai al mio villaggio. In precedenza, a dispetto della sua attitudine piuttosto cinica rispetto alla religione, mio padre mi aveva iniziato al Surya Namaskaram, un rituale molto conosciuto in cui si ripete un certo numero di mantra e ci si prostra al sole nascente. Aggiunsi quei nuovi rituali a questo che mi aveva insegnato mio padre.

    Adottai un’altra pratica: ogni mese, nel giorno di ekadasi (l’undicesimo giorno del ciclo lunare) cercavo di meditare tutta la notte senza addormentarmi. Presto scoprii che se cercavo di meditare in posizione seduta mi addormentavo. Cercai di meditare camminando, ma anche questo non funzionò perché mi addormentavo mentre camminavo. Dopo un po’ di esperimenti scoprii che potevo combattere il sonno facendo dei bagni nel fiume locale e strofinandomi della sabbia sulle cosce per indurre il dolore. Ero anche solito masticare un po’ di tabacco perché mi era stato detto che ciò teneva la mente nel rajo guna (in stato di attività).

    Nella mia gioventù facevo molta attenzione a mantenere una facciata esteriore di religiosità per dimostrare la mia dedizione alla vita spirituale. Indossavo un dhoti bianco, mi coprivo la testa a imitazione di Ramalinga Swami (santo tamil del XIX secolo) e mi mettevo molta vibhuti (cenere consacrata) sulla fronte e sul corpo. A quel tempo ero molto attratto da Ramalinga Swami: avevo visto una sua foto nel villaggio che mi aveva impressionato al punto da visitare Vadalur, il luogo del suo samadhi (tomba santuario).

    Nella mia adolescenza acquistai una copia della dodicesima parte di un’opera chiamata Jiva Brahma Aikya Vedanta Rahasya. Da questo libro imparai le tecniche del pranayama (esercizi respiratori yoga) e cominciai a praticarle nel tempio nella foresta. La lettura di questo libro generò in me il desiderio di fare uno studio più accurato delle scritture. Ordinariamente questo sarebbe stato molto difficile per un ragazzo nella mia posizione, ma un’insolita combinazione di circostanze presto mi permise di realizzare il mio desiderio. Il karnam (contabile governativo) del nostro villaggio possedeva molti libri religiosi che aveva ereditato da suo padre. Non aveva il tempo di leggerli perché era il karnam di tre differenti villaggi. Conduceva una vita così attiva che molti giorni non era nemmeno in grado di tornare a casa alla sera. Sua moglie, una donna molto devota di Tiruvarur, mi permetteva di andare a casa sua a leggere i libri. Ogni giorno preparava del cibo, lo offriva alla statua di Ganapati nella sua casa e quindi me lo offriva. Lei stessa mangiava soltanto dopo che io avevo consumato questa offerta. Alla fine mi trasferii nella casa del karnam e vissi di questa offerta di cibo che sua moglie preparava. Poiché i miei genitori disapprovavano il mio zelo religioso, smisi completamente di andare a casa. Durante questo periodo, che durò tre anni, non feci loro visita nemmeno una volta.

    Mentre studiavo i libri sviluppai l’abitudine di leggere ad alta voce. Ce n’erano molti, ma i miei favoriti erano il Kaivalya Navanitam, libri su Ramakrishna Paramahansa, i Tevaram di Appar e Jnanasambandhar, il Tiruvachakam e il Bhakta Vijayam.

    Il Kaivalya Navanitam è un’opera tamil sulla filosofia advaita; Ramakrishna Paramahansa fu un santo bengali del XIX secolo; Appar e Jnanasambandhar erano santi tamil del VI secolo i cui inni in lode di Shiva sono chiamati Tevaram; il Bhakta Vijayam è una raccolta di storie su famosi santi marathi.

    La mia lettura presto attrasse alcune delle persone più inclini spiritualmente del villaggio. Nel giro di poche settimane circa dieci persone cominciarono a visitare la casa regolarmente al fine di ascoltare le mie letture. Ogni sera dalle sei alle dieci leggevo estratti di questi libri. Dopo ogni lettura discutevamo il significato dei testi.

    Alcuni degli abitanti del villaggio andarono a raccontare a mio padre che stavo studiando le scritture e che le spiegavo agli altri. Mio padre fu sorpreso di udire questo perché pensava che fossi rimasto completamente analfabeta. Decidendo di investigare personalmente la questione, venne ad ascoltare segretamente una delle nostre sessioni serali.

    In seguito, dicono che abbia commentato: Non riesco più a farmi obbedire da lui. Così, semplicemente lo affiderò a Dio.

    La moglie del karnam partecipava alla maggior parte dei nostri incontri. Sviluppò un forte interesse nelle opere che leggevamo, divenne vegetariana e perse ogni interesse per le questioni mondane. Sfortunatamente perse interesse anche per suo marito. Una sera egli mi prese da parte e piuttosto irosamente mi disse: A causa della tua associazione con mia moglie è diventata come uno swami. Non ha più desideri. Non voglio più tenerti nella mia casa. Devi trovare qualche altro luogo in cui risiedere.

    Gli altri devoti udirono ciò che il karnam aveva detto. Uno di loro mi disse: Non abbiamo bisogno di fare qui le nostre letture. Possiamo facilmente trovare qualche altro luogo.

    Dapprincipio pensammo che avremmo dovuto costruire una semplice capanna per i nostri incontri, ma alla fine della sera avevamo deciso di costruire un math.

    I math sono organizzazioni indù fondate per uno scopo specifico come onorare la memoria di un santo, cantare canti devozionali, fare meditazione ecc. I più grandi, che normalmente hanno un gruppo di sadhu che vi risiede, sono come monasteri o ashram.

    Ognuno di noi investì dei fondi nell’impresa e nel giro di poco tempo sorse lo Shivaram Bhajan Math. Non appena fu ultimato mi trasferii nel math e continuai la mia sadhana (pratica spirituale) conducendo bhajan (canti devozionali) e leggendo ad alta voce gli insegnamenti degli altri santi.

    Quando il math fu finito costruii un tannir pandal (un luogo che serve cibo gratuito ai viaggiatori e ai poveri) sulla strada principale che attraversava il nostro villaggio. Con l’aiuto di alcuni devoti raccolsi sufficienti fondi da servire kanji (porridge di riso) ogni giorno ai sadhu e ai viaggiatori che attraversavano il villaggio.

    Poco dopo essermi stabilito nel math i miei genitori decisero di fare l’ultimo tentativo per deviarmi dalla vita spirituale.

    Poiché a quel tempo avevo diciassette anni pensarono: "Se non agiamo immediatamente diverrà sicuramente un sannyasi. Se possiamo trovare una ragazza a cui sposarlo, diventerà un normale capofamiglia e abbandonerà tutte queste attività spirituali. Forse allora diventerà come tutti noi".

    Senza nemmeno curarsi di consultarmi sulla questione, trovarono una ragazza, fecero tutti i preparativi con la sua famiglia e quindi andarono a comprare ogni provvista necessaria per celebrare il matrimonio. Udii di tutte queste attività attraverso una delle devote che erano solite venire al math. Non appena scoprii ciò che stava accadendo informai i miei genitori che avrebbero dovuto porre fine a tutti questi preparativi perché non avevo alcuna intenzione di sposarmi.

    Questo deciso rifiuto di ubbidire ai miei genitori su una questione così importante provocò una grande crisi nel villaggio. Molte persone giunsero alla conclusione che fossi pazzo, in parte perché mi rifiutavo di sposarmi e in parte perché insistevo a trascorrere tutto il tempo a pensare a Dio e a cantare bhajan. Molte di queste persone (i miei genitori non erano tra loro) organizzarono un incontro e decisero di curare la mia follia con mezzi violenti. Mi vennero a prendere al math, mi portarono in un lago vicino, mi fecero un grosso taglio sulla cima del capo e cominciarono a strofinarvi del succo di limone. Questa, evidentemente, era una cura per la follia. Poi decisero di versarmi dei secchi di acqua fredda sulla testa. Penso che abbiano versato su di me circa cinquanta secchi.

    Mentre mi facevano questo rimasi quieto e praticai il pranayama per tenere la mente lontana dal freddo. Sapevo che era inutile resistere. Quando videro che non reagivo in alcun modo al trattamento, si convinsero ancor più che fossi pazzo. Alla fine, quando il trattamento fu finito, mi portarono in una delle case del villaggio. Là prepararono un sambar (salsa piccante) assieme a una zucca amara e me la fecero mangiare perché ritenevano che la zucca amara fosse un’altra cura per la follia. Circa cento persone si erano riunite a osservare tutto ciò.

    Mentre mangiavo uno di loro mi disse: Sei un bravo ragazzo, nato in una buona famiglia, ma sei impazzito.

    A questo punto la mia pazienza si esaurì.

    Non sono impazzito, risposi in modo piuttosto irritato. Per favore lasciatemi solo. Dì a tutte queste persone di smetterla di affollarsi attorno a me oppure datemi una stanza separata dove possa rimanere solo.

    Non mi aspettavo alcun tipo di risposta, eccetto probabilmente un ulteriore corso di trattamenti, ma con mia grande sorpresa acconsentirono alla richiesta e mi permisero di ritirarmi in una delle stanze della casa. Prima che potessero cambiare idea, chiusi la porta dall’interno e mi sdraiai sul pavimento per riposare e riavermi dalla prova.

    Un po’ più tardi mi alzai e cercai di meditare. Mentre ero seduto sentii il capo del villaggio che discuteva il mio caso dall’altra parte della porta.

    Se me lo permettete, mi farò promettere da quel ragazzo che si sposerà e condurrà una vita normale. Grazie a questi trattamenti la sua follia ora potrebbe essere scomparsa.

    Bussò alla porta e lo lasciai entrare.

    Stando di fronte a me disse molto fermamente: Per favore fammi la promessa, poiché non sei più pazzo, che ti sposerai come tutti noi e condurrai una normale vita da capofamiglia.

    Io risposi: "Invece ti prometto che diventerò un sannyasi".

    Battei le mani mentre facevo la promessa per mostrargli quanto ero serio e per sigillare la promessa stessa. L’uomo se ne andò senza aggiungere altro.

    Lo udii esclamare all’esterno, Ayò! Ayò! (esclamazione del sud dell’India che indica sorpresa o shock). Quando gli ho chiesto di promettere una cosa, ha promesso l’opposto.

    La mia famiglia non prestò alcuna attenzione alla mia promessa. Udii da una donna che mi faceva visita che mio padre stava ancora segretamente progettando di procedere con il matrimonio, allora decisi che era il momento di fare alcuni piani segreti io stesso. Innanzitutto scrissi un biglietto alla ragazza che avrebbe dovuto sposarmi.

    "La mia intenzione è di diventare un sannyasi. Non intendo essere coinvolto nella vita famigliare. Così, non pensare che mi sposerai. Questo ti causerà soltanto dei problemi".

    Feci portare questo biglietto da qualcuno nella sua casa. Poi, lo stesso giorno, scappai di casa e mi recai a Chidambaram (famoso centro spirituale del sud dell’India). Intendevo prendere il sannyasa laggiù (prendere i voti monacali), ma non lo feci in alcun modo formale. Non volendo andare da nessuno a cercare l’iniziazione, feci tutto da solo (naturalmente questo genere di sannyasa non viene riconosciuto da nessun ordine monastico costituito).

    Feci il bagno nel fiume, mi rasai la testa, indossai una collana di semi di rudraksha intorno al collo e mi vestii con un corto dhoti e un asciugamano a mo’ di scialle. Ritornai al mio villaggio e annunciai a tutti che ora ero un sannyasi. Il mio nuovo aspetto finalmente convinse la mia famiglia che ero determinato e che non avevo alcuna intenzione di sposarmi. Con grande riluttanza abbandonarono ogni progetto matrimoniale poiché sapevano che coloro che diventano sannyasi rimangono celibi per il resto della loro vita.

    Ritornai alla mia vecchia routine e comincia a fare progetti per il kumbhabhishekam (cerimonia consacrativa del math). Invitai parecchi gruppi di cantanti di bhajan (canti devozionali) dai villaggi circostanti e persuasi persino i miei genitori a donare tutte le provviste che avevano comprato per il mio matrimonio. Il cibo donato da loro mi mise in grado di nutrire circa quattrocento persone. Gli altri devoti che avevano contribuito alla costruzione del Bhajan Math fornirono siero di latte, ragi (tipo di miglio) e farinata di riso per tutti coloro che arrivarono. Il giorno stabilito i cantanti dei bhajan fecero una parata attraverso il nostro villaggio suonando in ogni strada. Mentre i rituali del kumbhabhishekam finalmente venivano eseguiti io feci una cerimonia privata. Feci pada puja ai miei genitori e chiesi formalmente il loro permesso di diventare un sadhu.

    La Pada puja è una cerimonia in cui si adorano ritualmente i piedi di una persona. Normalmente lo si fa per il guru in gesto di grande rispetto. Può essere fatto anche verso i genitori o i membri anziani della propria famiglia, anche se meno comune.

    Chiesi anche ai miei genitori di benedirmi in modo che la mia carriera spirituale potesse avere successo. Entrambi mi diedero il permesso e mi benedissero. Nessuno di loro cercò mai più di dissuadermi dal seguire il sentiero spirituale.

    Alcune settimane dopo, udii che lo Shankaracharya di Kanchipuram stava pianificando di attraversare il nostro villaggio in uno dei suoi tour. È lo stesso Shankaracharya che inviò Paul Brunton da Bhagavan.

    Ramana Maharshi divenne famoso al di fuori dell’India negli anni ’30 dopo che Paul Brunton, un giornalista inglese, scrisse un best seller dal titolo India segreta (Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza). Brunton andò da Ramana Maharshi dopo che gli fu consigliato dallo Shankaracharya di Kanchipuram nel 1930. Questo Shankaracharya morì nel gennaio del 1994 all’età di novantanove anni. Shankaracharya, il grande saggio del IX secolo, stabilì cinque diversi ordini monastici per diffondere i suoi insegnamenti dell’advaita e per sostenere l’ortodossia indù. Uno di essi è situato nel sud dell’India nella città di Kanchipuram. Ognuno di questi monasteri ha avuto un continuo lignaggio di insegnanti che si collegano all’originale Shankaracharya.

    Quando udii questa notizia decisi che avrei cercato di far fermare brevemente nel villaggio lo Shankaracharya in modo da avere il suo darshan.

    Darshan significa visione. In un contesto religioso significa vedere la divinità di un tempio o un santo.

    Sapendo che ci sarebbero state molte persone e animali nella sua processione, pensai che il piano migliore sarebbe stato di fornirli tutti di cibo e acqua. Se fossi riuscito a fare ciò, avrebbero dovuto fermarsi per breve tempo a consumare le offerte.

    Nel giorno designato preparai una grande quantità di siero di latte e farinata di riso per i bramini che lo avrebbero accompagnato. Ammucchiai anche molte foglie in modo da poter nutrire i cavalli e gli elefanti. Mentre la processione si avvicinava al villaggio corsi su e giù offrendo le foglie verdi. Lo Shankaracharya veniva trasportato in una portantina, ma non potevo vederlo perché le tende erano tirate. Quando offrii la farinata alle persone che lo stavano trasportando, decisero di fermarsi e mangiare le mie offerte. Questo fece sì che lo Shankaracharya aprisse le tende per vedere a che cosa era dovuto il ritardo. Immediatamente mi prostrai davanti a lui.

    Mi guardò in silenzio per alcuni secondi quindi disse: "Tra un miglio mi riposerò

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