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L'ombra dell'imperatore
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L'ombra dell'imperatore

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Un grande romanzo storico

Autore del bestseller Centurio

355 d.C. La stabilità dell’impero romano è minacciata su due fronti: i barbari che spingono sui confini e le lotte interne dei generali che mirano a proclamarsi imperatori. Costanzo ii, sul trono dell’impero d’Oriente, è ossessionato dalla paura di perdere il potere, e così ha creato una rete di spie per smascherare i suoi avversari. Victor è un ragazzo di umili origini che, reclutato tra le spie imperiali, viene incaricato di seguire come un’ombra il giovane Giuliano, destinato a diventare il prossimo Cesare di Gallia. Ufficialmente dovrà addestrarlo alle arti militari, ma il suo vero compito è impedire che arrivi a costituire una minaccia per l’attuale imperatore. Anche qualcun altro però osserva i suoi movimenti. Per proteggere Giuliano e sé stesso, Victor sarà costretto ad abbandonare molte delle sue convinzioni e intraprendere la missione più pericolosa che abbia mai affrontato.

Tra i migliori narratori della storia romana
Una spia inviata dall’imperatore.
Un intrigo in grado di mettere in pericolo le sorti dell’impero.

«Giuliano è il Principe illuminato di cui avremmo bisogno anche ai nostri giorni.»

«Ottimo romanzo storico, potente come tutti quelli scritti da Massimiliano Colombo, uno scrittore da non perdere di vista.»

«La trama è trascinante e la narrazione è scorrevole: se vi piacciono i romanzi di ambientazione storica questo è un libro da non farsi scappare.»

Massimiliano Colombo
Nato a Bergamo nel 1966, vive a Como, dove da anni coltiva, con dedizione ed entusiasmo, la passione per gli eserciti del passato. Nel 2013 la casa editrice spagnola Ediciones B ha acquistato i diritti dei suoi libri per il mercato mondiale di lingua spagnola e il successo di pubblico e critica di La legión de los inmortales lo ha consacrato come una delle voci più interessanti nel panorama europeo del romanzo storico. Con la Newton Compton ha pubblicato Centurio, Stirpe di eroi, L'aquila della decima legione e L'ombra dell'imperatore.
LanguageItaliano
Release dateJan 22, 2020
ISBN9788822741585
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    L'ombra dell'imperatore - Massimiliano Colombo

    I

    Mediolanum

    Agosto del 355 d.C.

    Il vento caldo dell’estate spinse la poiana sopra l’assolata pianura, verso i campi coltivati ai margini della grande città. Sotto lo sguardo del predatore si snodavano lucenti corsi d’acqua, scudo liquido che abbracciava le salde mura erette a difesa dell’abitato.

    La cinta muraria della città era interrotta da torrioni, mute sentinelle lungo le vie che correvano in ogni direzione. Di lì era facile raggiungere Aquileia e poi proseguire per Costantinopoli, oppure andare a occidente e tagliare a settentrione, verso Vienne e le Gallie, fino a Lutezia. Di lì si poteva avere il controllo delle vie per il Reno e l’alto corso del Danubio. Di lì l’imperatore e la sua corte guidavano la lotta per il dominio dell’Impero.

    Chi voleva regnare su Roma, doveva farlo dall’antica capitale degli insubri, una città chiamata Mediolanum.

    Nell’ultimo secolo Mediolanum era prosperata, si era espansa dentro e fuori dalle antiche mura. Ricca e potente, batteva moneta nella propria zecca ed era disseminata di ville signorili, giardini, porticati, statue, terme, teatri. Da solo, l’imponente complesso del palazzo imperiale occupava un intero quartiere nella parte occidentale della città. L’insieme di sontuosi edifici residenziali e di rappresentanza, eretto nel corso degli anni, ospitava la struttura amministrativa dell’Impero. Tra giardini esotici incastonati come gioielli in maestosi colonnati, molti dei palazzi di corte si affacciavano, secondo il modello orientale, direttamente sull’immenso palcoscenico personale del Divino Augusto, il circo equestre, costruito a ridosso delle mura.

    Uno stormo di piccioni si levò in volo da una delle torri della linea di partenza delle corse dei carri. Il movimento non sfuggì alla vista acuta della poiana, ma il predatore rimase immobile ad ali spiegate, a contemplare l’arena che si estendeva al suolo. Attratta da un bagliore nel turbinio di colori che circondava il percorso di gara, la poiana virò e scese in picchiata. In quel momento si levò il boato della folla e il rapace, spaventato, riaprì le ali e volò verso la campagna.

    In mezzo al pubblico dello stadio, un uomo indicò un punto nel cielo. «Un falco ha puntato dritto sul carro degli Azzurri».

    «Dove, Victor?»

    «Laggiù, ma è già volato via».

    Le urla intorno a loro riportarono l’attenzione dei due uomini sull’arena. Allo squillo di tromba seguito dal lancio del drappo bianco i carri avevano lasciato i carceres, i cancelli di partenza. Dopo aver percorso a tutta velocità la prima parte dell’anello, seguendo traiettorie obbligate per non scontrarsi, avevano preso il rettilineo che portava alla prima curva, sfrecciando sotto le gradinate e la tribuna dei giudici. L’auriga dei Verdi era subito passato in testa, raggiungendo la curva della prima meta davanti a tutti gli altri, ma nella foga aveva imboccato la curva con una traiettoria troppo stretta. La ruota sinistra del carro urtò il muro che delimitava la spina interna del circuito. Il carro sobbalzò con violenza, poi si ribaltò travolgendo il conducente, che come tutti gli altri aveva le briglie legate alla vita. Il pubblico scattò in piedi con un boato, mentre i quattro cavalli del secondo tiro, quello dei Rossi, appena usciti dalla curva in velocità rovinavano sull’imprevisto ostacolo. Gli altri concorrenti cercarono di districarsi dal pericoloso groviglio allargando la traiettoria, mentre i cavalli dei Verdi ripartivano nella loro folle corsa, trascinando la quadriga rovesciata ormai ridotta a una carcassa.

    I carri sfilarono oltre la meta. Superarono l’obelisco al centro della spina per raggiungere la curva successiva. L’auriga dei Verdi era stato trascinato per un lungo tratto dai cavalli, poi era riuscito a tagliare le briglie con il pugnale. Aveva raggiunto barcollando gli inservienti, che lo avevano fatto uscire dalla pista prima del secondo passaggio dei carri.

    «Lo vedi Vittore, l’auriga dei Bianchi? Ancora due giri e sarà in testa».

    «Filopatròs, i cavalli esterni del tuo Vittore non sono coordinati. Vedrai che bel capitombolo gli faranno fare! Io dico che tra due giri sarà Polidosso degli Azzurri, il primo a passare qui sotto».

    Ancora un urlo della folla, alla seconda meta due carri si erano toccati. Tra Azzurri e Bianchi non correva buon sangue e i due rivali stavano rischiando il tutto per tutto, pur di raggiungere il tiro di testa.

    «Polidosso va in cerca di rogne, Victor».

    «Frustalo, Polidosso!». Victor era scattato in piedi. «Fai correre il sangue!».

    Tirati allo spasimo, gli otto cavalli percorsero fianco a fianco il rettilineo, le ruote dei due carri che si urtavano. Sugli spalti i sostenitori degli Azzurri inveivano contro l’auriga dei Bianchi. Polidosso arrivò alla curva sulla traiettoria interna e sfruttò l’occasione per un colpo di coda al diretto avversario, cercando di spingerlo fuori strada, ma Vittore intuì e all’ultimo momento trattenne i cavalli. L’azzurro si ritrovò ad affrontare la curva a velocità troppo elevata. Il carro sbandò sulla destra. L’auriga tentò di raddrizzarlo, ma un sobbalzo gli fece perdere il controllo. Il veicolo si ribaltò tra le urla di trionfo dei sostenitori di Vittore. Filopatròs alzò i pugni al cielo con un grido di gioia e Victor vide l’auriga degli Azzurri inghiottito da una nube di polvere. Si ravviò i capelli biondi e si asciugò il sudore dalla fronte, poi si sedette sulla gradinata di marmo mentre tutti intorno a lui inneggiavano al nuovo campione. Da quel momento parve perdere interesse per la gara e il suo sguardo si fece assente, come lontano dalla folla eccitata.

    Dopo qualche attimo, Victor concentrò l’attenzione su Filopatròs, che non aveva mai smesso di sgolarsi. Lo conosceva solo da un paio di giorni, ma avevano molte cose in comune, anche se figli di mondi distanti. Filopatròs era di Antiochia, un greco da cima a fondo, anche se i tratti decisi, la carnagione olivastra e i capelli corvini lo rendevano simile a un sasanide. Non era imponente, ma il fisico sinuoso e il fascino orientale gli davano un alone di mistero.

    «Bene, era l’ultima gara della giornata, ora andiamo a incassare», disse allegro il greco.

    «Io non ho niente da incassare», brontolò Victor.

    «Hai voluto puntare tutto su Polidosso, ma si sapeva che il vecchio ormai è andato».

    «Più di duemila gare vinte, e proprio oggi doveva ribaltarsi!».

    «Succede. Il campione invecchia, e arriva uno più giovane che se lo mangia».

    I due andarono a riscuotere i soldi della scommessa e poi si incanalarono tra la folla verso l’uscita, il vomitorium, che riversava il flusso di spettatori all’esterno, negli ampi spazi di fronte al complesso imperiale. Una volta usciti, si videro venire incontro un astrologo, di quelli che predicevano il futuro per poche monete. Victor lo spinse via e fece cenno a Filopatròs di seguirlo. Costeggiarono i quartieri della corte, sorvegliati da un cordone invisibile di guardie armate.

    Victor sapeva come muoversi, a Mediolanum. Anche lui, come Filopatròs, veniva da lontano, ma dal settentrione. Di origine franca, biondo, occhi verdi e alto di statura, era un gentiles, o meglio il figlio di un gentiles, uno di quegli emigrati che Roma aveva saputo trasformare in coloni dediti all’agricoltura, pronti se necessario a diventare soldati. Il nome latino che aveva assunto indicava il desiderio del padre di integrare il figlio in quell’universo chiamato Roma. Molti barbari avevano compiuto la stessa scelta, ma il nome Victor aveva anche un che di religioso: la vittoria del bene sul male, un senso che premeva di certo più al padre che al figlio.

    Facendosi largo, imboccarono una via che portava al Foro, tra i fumi della carne arrostita su tegole bollenti dagli ambulanti e bancarelle che vendevano focacce e pane speziato per tutti i gusti. Rallentarono il passo per godersi l’ombra e curiosare tra le mercanzie dei negozi che si affacciavano sulla strada, fino a quando da una colonna del porticato non apparve una matrona dal volto impiastricciato di trucco, che prese il greco per un braccio. Filopatròs la guardò, sorpreso e insieme compiaciuto, ma Victor scosse il capo.

    «Hai fretta, amico?»

    «Dammi retta, greco. Andiamo alle terme, ci rinfreschiamo per bene e poi a sera andiamo al porto. Le donne sono molto meglio, laggiù».

    Il greco si liberò dalla presa e la donna li maledisse con un vocione che riecheggiò nel porticato.

    Stavano ancora ridendo quando la grande piazza del Foro si aprì davanti agli occhi di Filopatròs. Ne aveva sentito parlare ma non se lo immaginava tanto vasto e si fermò stupito a guardarsi intorno. Era il centro della città dove confluivano tutte le strade principali. L’enorme spiazzo rettangolare era pavimentato in lastre di pietra chiara e sui lati lunghi correvano colonnati adorni di statue onorarie.

    «Cos’è quello?». Il greco indicò il maestoso edificio sull’altro lato della piazza.

    «È la curia», rispose Victor, «dove si riunisce il Senato municipale. Alla sua sinistra nell’angolo c’è il macellum, il mercato, e a destra l’Opulens moneta, la zecca, riaperta due anni fa dal Divino Augusto».

    Filopatròs percorse con lo sguardo i colonnati.

    «Sul lato opposto c’è il Capitolium…».

    Il greco osservò quell’ultimo edificio, che a differenza degli altri era decrepito.

    «…dedicato a Giove, Giunone e Minerva. Pare che vogliano abbatterlo entro breve. Non si può entrare, ma se vuoi vederlo da vicino…».

    «Direi proprio di no», disse Filopatròs.

    Victor sorrise. «Sei cristiano?»

    «Sono ariano, perché?»

    «Lungo la via per le terme ci sono due basiliche. Se vuoi possiamo fermarci».

    «Ariano anche tu?»

    «Certo», rispose Victor.

    Solo due giorni, e già una menzogna.

    Victor non era ariano, e non era nemmeno un trinitario, un adepto del credo niceno. Non gli importavano le dispute teologiche, né ci teneva a sapere se Gesù era fatto della stessa sostanza del Padre o se Dio era unico, eterno e indivisibile, come giuravano i seguaci di Ario. Indifferente al Padre e al Figlio, non intratteneva per questo rapporti con gli antichi dèi, si chiamassero Giove, Giunone o Minerva.

    Victor credeva solo in ciò che vedeva, ma se lo teneva per sé. Negare di aver fede, a quel tempo, era troppo pericoloso, più pericoloso che credere negli antichi dèi. E Victor doveva la sua buona sorte alla capacità di adeguarsi alla situazione.

    Victor era un referendario, una spia bene addestrata e pronta a eseguire le missioni più sordide. Non era un agent in rebus o un notario, che si arricchiva vendendo informazioni più o meno veritiere ai potenti di corte. Il suo compito era infiltrarsi e scoprire segreti là dove gli altri agenti non arrivavano. Poteva essere chiamato a compiere incursioni clandestine nei territori degli alamanni, a sorvegliare un nemico dell’imperatore e in qualche caso a eliminarlo, con una rapida coltellata nel buio.

    Conduceva una vita solitaria e pericolosa, in cui a volte non sapeva nemmeno più chi era. Victor riceveva un ordine e lo eseguiva, senza chiedersi il perché.

    L’ordine che stava eseguendo in quel momento prevedeva l’incontro con Filopatròs a Mediolanum, da cui sarebbero partiti insieme per una destinazione ancora ignota.

    Fecero una sosta alla basilica Vetus, lungo uno dei canali che attraversavano la città. Entrarono dalla grande porta centrale e percorsero la navata principale, seguiti dall’eco dei loro passi. A differenza dei culti antichi, riservati ai sacerdoti officianti, la nuova religione del cristianesimo aveva bisogno di edifici ampi e coperti per la celebrazione dell’eucarestia, cui poteva – o meglio, doveva – partecipare tutto il popolo. Costantino il Grande, padre dell’imperatore in carica Costanzo

    II

    , aveva favorito la costruzione delle nuove basiliche sul modello di quelle civili, che ospitavano i commerci e la politica. In pochi anni, la struttura architettonica con la navata centrale alta e ampia e quelle laterali più basse e strette aveva preso piede in tutto l’Impero. Il diffondersi dei nuovi templi religiosi andava di pari passo con l’abbandono dei vecchi, lasciati all’oblio e all’incuria insieme agli antichi dèi, con grande diletto dei seguaci del nuovo culto.

    Victor e Filopatròs si inginocchiarono nella luce che scendeva dalle alte finestre sopra la navata e presero a sussurrare preghiere. Una litania che Victor snocciolava tra i denti a memoria, pensando agli incontri che lo aspettavano dopo le terme. Velia o Milania? No, meglio Teodora, sempre che non fosse arrivata qualche nuova puledra… Sorrise. Gran cosa, i lussi di una grande città, anche se per pochi giorni all’anno.

    Si accorse che anche Filopatròs fremeva e non si soffermò oltre.

    Usciti dalla chiesa, ripresero il cammino verso i pennacchi di fumo bianco che salivano dalle terme Erculee. Tagliando per una serie di vicoli tra botteghe di vasai, calzolai e fabbricanti di stoffe, raggiunsero l’entrata monumentale dell’edificio, con la cupola del frigidarium che svettava sul timpano del colonnato.

    C’era un gran andirivieni, ma molto più tranquillo rispetto alla ressa del circo. Filopatròs e Victor si misero in coda per pagare l’ingresso, ammiccando a qualche ragazza che usciva dalle terme con i capelli ancora umidi. Una volta entrati, il greco restò a bocca aperta.

    Un rettangolo cinto da un colonnato era una palestra all’aperto, dove si allenavano parecchi uomini. Incitati da una piccola folla, due lottatori si battevano avvinghiati. Un gruppo di ragazzini rincorreva una palla e alcuni uomini dall’aspetto marziale sollevavano pesi per tonificare la muscolatura. Alle donne erano riservati spazi separati, perché la morale delle nuove religioni non consentiva la promiscuità nemmeno tra le acque termali.

    «Vieni», disse Victor, «gli spogliatoi sono di qui».

    I due entrarono in una delle esedre che si affacciavano sul porticato e si svestirono, lasciando i panni agli inservienti. Poi si immersero nell’ampia natatio, la piscina esterna accanto al calidarium. La sala dei bagni caldi di solito era la prima meta del percorso delle terme, ma quel giorno era quasi deserta.

    Il sole cominciava a calare, ma l’aria era ancora greve di caldo. Seguito da Filopatròs, Victor si spostò nella grande sala del frigidarium, riservata ai bagni freddi. Appoggiati al bordo della piscina si godettero il refrigerio e lo spettacolo della grande cupola sopra le loro teste. Il sole del tardo pomeriggio giocava con l’acqua, riflettendosi sui mosaici e sui busti marmorei che rappresentavano le stagioni. Gli occhi verdi di Victor si persero a guardare la statua di Eracle, che riposava appoggiato alla clava. Si sentì osservato e colse l’occhiata di Filopatròs. Il greco studiava le cicatrici del franco, sul petto e soprattutto sulla spalla destra, un’ampia striscia di pelle cauterizzata.

    «Un alamanno?»

    «Sì, o forse due». Il franco sorrise compiaciuto.

    Anche Filopatròs sorrise. «L’ideale, per eliminare un tatuaggio. Sai, quelli con cui si marchiano i soldati».

    Victor si guardò la spalla. «Giusto. Non ci avevo mai pensato».

    Era vero, quello che aveva detto Filopatròs. Ma come faceva a saperlo?

    «E allora, greco? Da dove sei piovuto?»

    «Da Antiochia. Ho passato qualche anno in una guarnigione, poi mi hanno assegnato alla scorta di un vescovo di Alessandria, chiamato Giorgio di Cappadocia. È uno importante, lo co-nosci?»

    «No».

    «A quanto pare ho svolto bene il mio compito, perché dieci giorni fa ho avuto l’ordine di venire qui al più presto. Una missione importante, di cui per ora non so altro».

    Victor scrutò il greco, riflettendo. Stava mentendo. Perché mai chiamare un qualunque soldato dalla Grecia per una missione nei dintorni di Mediolanum? Bugiardo di un Filopatròs, pensò il gallo. Probabile che il suo vero lavoro fosse più o meno simile a quello di Victor. Un esperto agente segreto, forse anche un sicario. Forse era lì per controllare Victor. O per eliminarlo…

    «E tu, franco?»

    «Sono nella scorta personale del magister equitum Ursicino».

    «Sai dove ci mandano?»

    «No. So solo che domani dobbiamo partire».

    Filopatròs si guardò intorno, spruzzandosi addosso un po’ di acqua fredda. «Già domani?», disse. «Be’, almeno abbiamo tutta la notte davanti».

    Freschi e riposati si lasciarono alle spalle le terme, per tornare verso la zona occidentale della città. Seguirono un itinerario diverso, costeggiando la cinta muraria in direzione della porta del meridione, quella che conduceva a Placentia, e poi giù fino a Roma. Lì Mediolanum aveva superato le proprie mura, e la via Decumana Massima si protendeva oltre l’abitato in un viale fiancheggiato da botteghe, intorno alle quali era sorto un nuovo quartiere. Lì il canale che circondava le mura era più largo e sulla riva erano state costruite le banchine per muovere le merci che viaggiavano sul fiume, in entrambe le direzioni, tra Mediolanum e i porti dell’Adriatico. Una delle fortune della città era di essere un nodo centrale per le vie di comunicazione dell’intera regione, sulla terra e sull’acqua. Mediolanum era una città d’acqua.

    Oltre le mura, nel borgo affacciato sul porto, lontano dai fasti del palazzo imperiale, dalle residenze episcopali e dai divieti religiosi, fiorivano attività più o meno lecite che rendevano il quartiere una sentina di vizio e di pericolo. Victor e Filopatròs presero uno dei vicoli laterali della Decumana e furono inghiottiti da un buio solo a tratti squarciato dalle chiazze di luce delle lampade a olio appese alle porte. Era la zona dei bordelli e delle bische, l’ideale per due soldati con le tasche piene.

    Girovagarono per un po’, poi Victor infilò la porta di una taberna. L’oste, un omone pelato dalla barba ispida, li salutò. I due si sedettero e ordinarono da bere, passando in rassegna gli avventori. Intorno a un tavolo dove si giocava a dadi si era radunato un capannello di facce da tagliagole.

    «C’è Velia?», chiese Victor al locandiere. L’uomo depose la caraffa di vino annacquato e sogghignò. «Al momento è indaffarata… Non so per quanto ne avrà».

    Filopatròs notò l’ombra di disappunto sul volto di Victor. «Chi sarebbe, questa Velia?»

    «Una sabina bollente, amico mio».

    Il greco si mise a ridere, poi il suo sguardo cadde su una ragazza giovanissima, pallida e bionda. Victor la presentò come Milania, sorella minore di Velia. Erano le figlie dell’oste, che il padre faceva prostituire con gli avventori.

    Il mattino dopo, le nuvole ricoprivano Mediolanum. Il tonfo metallico degli zoccoli sul selciato della piazza rimbombò nella testa di Victor, che cercava di ricordare com’era finita la notte. Passò le dita sotto l’elmo, sfiorando il bernoccolo dolente sulla nuca. L’effetto della sbornia stava passando e sentiva dolori ovunque. Allora… Ah già, Milania in braccio a Filopatròs, avevano bevuto e mangiato, poi il greco era salito di sopra con la ragazza e lui era rimasto da solo, a bere, fino a quando non era arrivata lei, Velia. La ragazza gli smuoveva il sangue. Pur con tutto il vino che aveva in corpo, Victor l’aveva presa e alzata di peso, per portarla nella stanzetta dove l’aveva baciata, amata e posseduta… fino all’ultima moneta. Alla fine era crollato di schianto, come un albero sotto l’ascia del boscaiolo.

    Poi… un vago ricordo di braccia poderose che lo trascinavano fuori dal letto e dalla stanza, imprecazioni di disprezzo e l’acqua fredda in faccia. Si era svegliato di soprassalto e aveva sferrato un pugno all’oste, poi…

    Victor si voltò a guardare Filopatròs, che cavalcava al suo fianco. Un livido sotto un occhio e un labbro spaccato. Nonostante il mal di testa, gli sorrise. Si era appena ricordato di come il greco era corso a dargli manforte, con un’anfora piena di olio che aveva spaccato in testa all’oste. E poi si erano fatti sotto i tagliagole che giocavano a dadi. Erano in troppi e li avevano buttati fuori dalla taberna, ma senza aprirgli la pancia a coltellate. Era andata bene, tutto sommato. Ogni tanto ci voleva una bella zuffa.

    Il corteo stava lasciandosi alle spalle Mediolanum, dopo aver varcato la porta occidentale. Lo scalpitio degli zoccoli rimbombava ancora nella testa del franco, ma adesso per lo meno non veniva più amplificato dalle mura delle case. Una volta superati gli altari funerari all’esterno della città, i cavalieri aumentarono l’andatura.

    «Attento a quel che fai, Victor. Io ti tengo d’occhio».

    Il referendario si voltò alla sua sinistra e vide cavalcare al suo fianco Ammiano Marcellino, il protector del generale Ursicino. Tunica bianca adorna di motivi mitologici in oro, corazza squamata e un elmo impreziosito di gemme in vetro colorato che valeva quanto due cavalli.

    «Ai tuoi ordini, signore».

    «Fosse stato per me ti avrei messo in punizione a calci in culo questa mattina, ma per qualche motivo a me ignoto il magister ti protegge e ti ha voluto a tutti i costi nella sua guardia, anche se eri sbronzo».

    «Il magister è un sant’uomo, protector».

    Lo sguardo di Ammiano si fece tagliente. «Fa’ in modo che non se ne debba pentire». Accennò poi con il capo a Filopatròs. «Quanto a te, graeculo, sappi che ti sei scelto un pessimo compagno di strada, quindi vedi di rigare dritto. Non mi interessa chi sei e da dove vieni, sei stato assegnato a me, perciò fai quello che ti dico io, o ti stacco la testa a morsi. Sono stato chiaro?».

    Filopatròs annuì in silenzio. Ammiano risalì la colonna, affiancandosi al generale.

    «Graeculo?»

    «Sì», disse Victor, «vuol dire greco, ma nel senso di bastardo greco, fottuto greco o…».

    «Lo so, cosa vuol dire. Che cos’ha quello contro i greci?»

    «Tutto», rispose il franco, squadrandolo, «è di Antiochia come te».

    La testa della colonna aumentò l’andatura e i cavalieri si accodarono al trotto veloce. Victor osservò Ammiano cavalcare al fianco di Ursicino e si mise l’animo in pace. Poteva dire addio a Velia. Dopo quello che era successo sarebbe stato comunque difficile rivederla, e quanto a tornare a Mediolanum, poi…

    Per ora, aveva davanti solo un lungo viaggio fino alla destinazione finale: Colonia Agrippina. Si chiese quanti, tra il seguito del generale, sapessero che stavano andando a sfidare la morte e anche quanti di loro, l’uno all’insaputa dell’altro, avessero il suo stesso incarico.

    In sella alla testa della sua guardia, seguito da una decina di tribuni, Ursicino appariva protetto come una gemma preziosa, ma in realtà era la pedina sacrificabile del gruppo. Era già un miracolo che fosse ancora vivo. Il generale era stato a un passo dal patibolo, pochi mesi prima, per sospetto tradimento.

    L’anno prima, Ursicino aveva prestato servizio presso il vice imperatore per l’Impero d’Oriente, Flavio Claudio Giulio Gallo, cugino e insieme cognato dell’imperatore che le aveva dato in moglie la sorella Costantina. Il regno di Gallo era stato segnato dalla crudeltà e da persecuzioni che avevano mandato a morte numerosi innocenti, accusati di cospirazione e pratiche magiche: si diceva che il sovrano girasse per Antiochia di notte, in incognito e con la scorta, per chiedere ai passanti un giudizio sul suo modo di governare, e se la risposta non gli piaceva li ammazzava poi a bastonate. In seguito, nel timore che Gallo potesse insidiare la sua autorità, l’imperatore lo aveva allontanato dalle truppe e fatto arrestare. E Ursicino era stato accusato di fomentare una rivolta contro Gallo, al fine di mettere al suo posto il figlio, una volta che il vice imperatore fosse stato destituito. Richiamato a Mediolanum, Ursicino era stato condannato a morte dall’imperatore, ma l’esecuzione della sentenza era stata rinviata. Nel frattempo, il 9 dicembre del 354 la testa di Gallo era caduta.

    E mentre Costanzo

    II

    , il Divino Augusto, decideva del destino di Ursicino a Mediolanum, il vento del tradimento aveva preso a soffiare in Germania. Claudio Silvano, valente generale al comando dell’esercito in Gallia, era stato accusato di voler addirittura usurpare il trono. Alcune lettere compromettenti con la sua firma erano giunte al più alto funzionario di corte: l’eunuco Eusebio, il praepositus sacri cubiculi, il responsabile della sacra camera da letto dell’imperatore. Eusebio decideva chi saliva e chi scendeva nei favori dell’imperatore, accordando o ricusando le udienze. Facendosi intermediario tra l’imperatore e il mondo, possedeva un potere enorme.

    Processato in contumacia a Mediolanum, Claudio Silvano era stato assolto perché le accuse si erano rivelate false. Ma in Germania il generale, per evitare una morte che credeva certa, si era già proclamato imperatore. Era l’11 agosto dell’anno 355.

    La sconvolgente notizia era stata subito secretata. Il Divino Augusto Costanzo aveva deciso con i suoi funzionari di attirare Silvano a Mediolanum, con il pretesto di una pacificazione. A tal fine aveva scritto una lettera amichevole di convocazione e per renderla plausibile aveva scelto come latore un uomo in grado di ispirare a Silvano la massima fiducia. Dalle segrete era stato così estratto Ursicino, generale in aperto contrasto con gli alti funzionari del Divino Augusto e testimone vivente della clemenza dell’imperatore.

    Se il piano fosse andato a buon fine, Ursicino si sarebbe guadagnato il posto di Silvano. Ma era possibile che il miraggio di un nuovo incarico non bastasse e che Ursicino riconoscesse l’autorità di Silvano, diventando un pericoloso avversario per Costanzo.

    Era qui che entrava in scena Victor. Il vero ruolo del franco, in mezzo a quel gruppo di cavalieri pronti a difendere il magister equitum Ursicino, era tagliargli la gola al primo accenno di tradimento.

    Victor si sistemò il corpetto di cuoio e strinse il sottogola dell’elmo.

    Uccidere un uomo per ordini superiori, anche un alto funzionario, non era poi così complicato; il difficile era uscirne vivi a missione compiuta.

    Di nuovo Victor si voltò verso Filopatròs. Chi era? Perché era stato reclutato senza dirgli niente? Il greco era l’unico della scorta che Victor non conosceva. Non aveva potuto studiarlo abbastanza. Di tutti gli altri aveva imparato rapidamente a riconoscere la voce, il modo di camminare e di cavalcare. Se li era fatti tutti amici, pronto all’occorrenza a eliminarli uno a uno, protector compreso. Ammiano Marcellino andava tenuto d’occhio: era un abile combattente e aveva fiuto. Victor aveva recitato la parte del lavativo senza gran voglia di fare, proprio per non suscitare i sospetti del protector, ma la tattica non aveva ancora avuto successo. Ammiano gli stava addosso come un segugio.

    Al calar del sole, dopo una lunghissima giornata e solamente due brevi soste, il gruppo si fermò in una mansio con alloggi e scuderie. Finalmente si sarebbero sgranchiti le gambe, rifocillati e riposati. Ammiano assegnò a Victor e Filopatròs il compito di occuparsi del suo cavallo e di quello del generale. Li voleva più stanchi degli altri, e li voleva lontani da Ursicino.

    II

    Claudio Silvano

    Fine agosto del 355 d.C.

    Al sorgere del sole, il generale Ursicino radunò i suoi soldati.

    «Il nostro viaggio a tappe forzate sta per finire», disse Ursicino. «Ancora un paio di giorni e arriveremo a Colonia Agrippina, dove consegneremo un messaggio del Divino Augusto al magister militum Claudio Silvano».

    Magister militum. Ursicino aveva nominato Silvano con lo stesso grado assegnatogli da Costanzo, riconoscendo in lui, quindi, il comandante in capo dell’esercito in Gallia.

    «So cosa state pensando. Perché così tanti uomini per un messaggio? Non bastava un normale messaggero?». Li osservò, come sfidandoli a chiedere ragguagli. Nessuno aprì bocca. «Il Divino Augusto ordina a Claudio Silvano di tornare subito a Mediolanum, per questioni della massima importanza e per la sicurezza dell’Impero. Durante la sua assenza, sarò io a sostituirlo al comando dell’esercito, fino a nuovo ordine». Il generale si schiarì la voce prima di continuare. «Il motivo per cui abbiamo dovuto cavalcare giorno e notte per arrivare il prima possibile a Colonia Agrippina è che il generale Claudio Silvano, la settimana scorsa, si è autoproclamato imperatore».

    Gli uomini della scorta si resero conto, in quel momento, di avere intrapreso un viaggio in cui forse non era previsto il ritorno. Ammiano Marcellino, immobile come un busto di granito, aveva gli occhi puntati su Victor e Filopatròs per spiare ogni loro minima reazione.

    «Dovevamo raggiungere la Germania prima che la notizia venisse divulgata. L’imperatore vuole indurre il magister militum Silvano a fare un passo indietro e presentarsi davanti a lui, per evitare spargimenti di sangue. E il motivo per cui sono stato scelto quale messaggero è che il comandante dell’esercito della Gallia sa di potersi fidare di me». Il generale fece una pausa. «Ma farei torto alla vostra esperienza di soldati, se negassi che siamo sull’orlo di una guerra civile. Un incendio di cui potremmo essere noi la prima scintilla».

    Lo sguardo di Ammiano scivolò sugli uomini della scorta. «Confido in voi. Ora che siete consapevoli dell’importanza di questa missione, vi ricordo che avete giurato fedeltà a Flavio Giulio Costanzo, il nostro vero e unico imperatore, e vi chiedo di ripetere con me quelle parole!».

    Il protector fece recitare agli uomini la formula del giuramento, ma dover ricordare ai soldati per chi stavano combattendo non era un buon segno. Quanti erano pronti a passare al nemico, se la situazione avesse preso una brutta piega?

    Sotto il cielo plumbeo di un’umida mattina di fine agosto, la colonna riprese la marcia. Silenziosi e scuri in volto gli uomini proseguirono, costeggiando il Reno. Cercarono di tenersi a distanza dalle fortificazioni e dalle torri di avvistamento disseminate lungo il fiume, ma il giorno successivo Victor notò le nubi di fumo che si alzavano, in lontananza, da un burgus che si erano lasciati alle spalle. Non disse nulla e continuò a cavalcare, ma era chiaro che li avevano individuati.

    Il giorno dopo ancora, verso mezzogiorno, scorsero la polvere di molti cavalli al galoppo. Poco dopo, apparvero i bagliori metallici delle corazze. Un nutrito distaccamento di cavalleria stava puntando dritto su di loro.

    A occhio, era un’intera turma di batavi. A riprova che non erano lì per caso, i cavalieri si schierarono a ventaglio sulla cresta di una collina, mentre un piccolo drappello proseguiva verso gli uomini di Ursicino. Uno di loro reggeva su un’asta l’insegna della vessillazione. Una testa di drago che emetteva un sibilo inquietante, per via dell’aria inghiottita dalle fauci spalancate. Al fianco del draconarius, un ufficiale dal mantello nero, nero come lo stallone che montava.

    L’ufficiale si fermò a pochi passi dalla colonna e rivolse al generale il saluto militare. Era un uomo massiccio, con le maniche della tunica arrotolate sugli avambracci possenti. Una cicatrice gli solcava la parte destra del volto, coperta a metà da una folta barba bionda. Sotto l’elmo, gli occhi chiari erano saette di ghiaccio. Un ufficiale di cavalleria del confine germanico, che solo le insegne romane distinguevano da un capo tribù dell’altra sponda del Reno.

    «Sono il magister equitum Ursicino, al servizio del Divino Augusto Flavio Giulio Costanzo. Sono latore di un messaggio per il magister militum Claudio Silvano».

    «Tribuno Flavio Nevitta», rispose l’ufficiale dal mantello nero, «al servizio dell’Augusto Imperatore Claudio Silvano. Ho l’ordine di scortarvi da lui».

    Dall’accento famigliare, Victor capì che era di origini franche.

    Dopo un primo momento di freddo imbarazzo, il tribuno diede a tutti il benvenuto, ma subito dopo ordinò ai suoi uomini di inquadrare la colonna. In un attimo, Ursicino e i suoi si ritrovarono con i batavi alla testa, sui fianchi e alle spalle. Meglio non sottovalutare il tribuno Nevitta, che sembrava avere il controllo assoluto dei suoi uomini.

    Victor e Filopatròs osservarono i cavalieri, cercando di intuire se li stavano davvero conducendo da Claudio Silvano o se invece si preparavano a rinchiuderli con la forza nelle segrete del palazzo di Colonia Agrippina. Il franco notò Ursicino parlare a bassa voce con Ammiano, che di tanto in tanto si voltava a dare disposizioni agli altri.

    Al calar del sole il gruppo raggiunse Castra Herculia, un campo fortificato sul Reno dov’era di stanza un distaccamento di brachiati. Ammiano Marcellino ordinò agli uomini di consumare le razioni portate da Mediolanum, evitando il cibo della mensa del castra. Era evidente il timore di essere avvelenati, ma l’espediente avrebbe permesso loro di sopravvivere giusto un paio di giorni, perché le vettovaglie della colonna erano agli sgoccioli.

    Gli ufficiali di entrambi i reparti esibivano una forzata cordialità, mentre tra i cavalieri aleggiava un’ombra di diffidenza. L’unico modo di carpire qualche informazione era parlare con qualcuno del distaccamento di brachiati. Victor andò in cerca di un pesce che potesse abboccare e lo trovò alle latrine, addetto a una mansione ben poco piacevole. Era un soldato con un occhio pesto e la testa bendata, forse per le bastonate prese da un superiore.

    «Senti un po’, ma in quanti erano quelli che ti hanno conciato così?».

    Il soldato si guardò intorno diffidente, poi appoggiò il bugliolo a terra. «Cosa succede a Mediolanum?». Il suo latino era rozzo, ma comprensibile:

    Victor notò sul braccio uno stigma, il tatuaggio recante l’insegna dei brachiati e alcune lettere di riconoscimento seguite dal nome Kaudios. Quello era appunto il segno, il marchio che lo avrebbe fatto riconoscere, se si fosse allontanato dalla propria unità.

    «Non lo so. Perché me lo chiedi?»

    «Avanti, parla chiaro. Sta per scatenarsi una guerra civile? Qui ci aspettiamo di veder spuntare da un momento all’altro le legioni di Costanzo, e non ho proprio voglia di farmi trovare, quando arriveranno».

    Victor fece mostra di riflettere, prima di rispondere. «Sono un soldato come te, e non so cos’hanno in mente gli ufficiali. Certo la situazione qui non si presenta bene, tra gli alamanni di là dal fiume e le truppe di Costanzo a meridione».

    Il miles abbassò la voce: «Appena vediamo un’insegna di Costanzo, noi gettiamo le armi».

    Victor si guardò intorno, prima di bisbigliare: «Gli ufficiali sono con voi?»

    «Non credo… A dire il vero, non lo so. Forse il centenarius Quinto Fabiano, che continua a sparlare del tribuno e non ne può più di stare qui, tanto da sfogare le sue ire su di noi, come vedi dalla mia testa».

    «Kaudios!».

    I due si voltarono verso l’uomo che aveva urlato. Era il centenarius del piccolo distaccamento, che si avvicinava a grandi passi. Alzò il bastone verso il ragazzo e gli urlò di andare a pulire le latrine, se non voleva un’altra dose di legnate. Victor non intervenne. Si slacciò le brache e fece quello che doveva.

    «Non dargli retta», disse l’ufficiale al franco, «è uno smidollato sempre in punizione, a pulire merda. Un cacasotto di Senones che cerca in tutti i modi di tornarsene a casa. Il genere di soldato di cui farei volentieri a meno, in tempi come questi».

    Victor accennò un sorriso e si riallacciò le brache. «Com’è la situazione con gli alamanni?». Accennò alla sponda opposta del fiume. «Li vedete, ogni tanto?»

    «Per ora no, ma è questione di poco. La flotta fluviale è stata smantellata per presidiare le guarnigioni nell’entroterra e la via del fiume è libera». Quinto Fabiano si accostò a Victor e abbassò il tono. «Ma se devo dirti la verità, più degli alamanni mi preoccupa quello che sta accadendo a Mediolanum».

    Il franco strinse le labbra e annuì. Ufficiali o soldati, il presidio era nel caos. Il primo pensiero di quegli uomini era tenersi fuori da una guerra contro Costanzo.

    Vedendo che il cavaliere non rispondeva, l’ufficiale insistette. «Andiamo verso una guerra civile, vero?».

    La smorfia di Victor si tramutò in un mezzo sogghigno. «Spero di no, ma se così fosse temo di non poterti avvisare, perché sarei tra i primi a essere scannato».

    «In ogni caso», bisbigliò il centenarius, «se avessi qualche informazione, ti sarei grato se volessi riferirmela». Depose un solido d’argento nella mano del referendario e si allontanò.

    Il giorno successivo gli uomini si rimisero in marcia alle grigie luci dell’alba, sotto una pioggia impalpabile che li tormentò fino a quando in lontananza non apparve Colonia Agrippina. La città si estendeva lungo il corso del Reno e dovettero percorrere un lungo tragitto tra le abitazioni dell’antico vicus sorte fuori dalle mura, prima di raggiungere la porta meridionale. Poi la colonna proseguì costeggiando il fiume fino al ponte voluto da Costantino il Grande, per raggiungere la fortezza di Divitia, il baluardo che proteggeva la città sulla riva orientale.

    Gli uomini di Ursicino furono accolti come un qualunque reparto di cavalleria, ma alloggiati in diverse camerate e divisi in piccoli gruppi. Il generale fu separato dai tribuni e Ammiano dai soldati della scorta. Non poterono fare a meno di sentirsi isolati e del tutto in balia dei voleri di Claudio Silvano.

    «È così che strigliate il mio cavallo?».

    Victor aprì gli occhi e si trovò davanti la faccia inferocita di Ammiano. Il protector sferrò un calcio alla branda del franco, che balzò subito in piedi.

    «Tu e il graeculo, prendete i vostri stracci e seguitemi».

    I due uscirono dalla camerata seguendo i passi dell’ufficiale che li condusse alle scuderie. C’era un gran movimento di stallieri, intenti ad accudire i cavalli. Sempre seguendo Ammiano, raggiunsero il settore in cui si trovavano le cavalcature della scorta di Ursicino. L’ufficiale si chinò, per mostrare loro la zampa del destriero del generale.

    «Io non so chi siete», sibilò tra i denti, «ma il mio istinto mi dice che siete due spie. Il punto è se state dalla parte giusta».

    Nessuno dei due aprì bocca.

    «Claudio Silvano ci ha accolti a corte», riprese il protector, a bassa voce, «e ci siamo dovuti inginocchiare a baciare la porpora imperiale. Quel verme si è autonominato imperatore e gli uomini di stanza qui gli hanno giurato fedeltà. Sono tutti dalla sua parte». Ammiano li fissò negli occhi. «Potremmo essere messi a morte da un momento all’altro. Noi comunque ci siamo mostrati accondiscendenti, per non trovarci subito rinchiusi in una cella».

    «Dov’è il magister equitum?», chiese in tono neutro Victor.

    «È ospite alla corte di Claudio Silvano, ma in pratica è come prigioniero. Una scorta lo segue ovunque e la porta del suo alloggio è presidiata da guardie. Io sono qui con il pretesto dei cavalli, ma tengono d’occhio anche me. Gli altri tribuni sono alloggiati nella fortezza, nei quartieri degli alti ufficiali, e la truppa è sparpagliata un po’ ovunque». Il protector si guardò intorno, diffidente. «Ho bisogno di uomini che passino inosservati. Uomini come voi. Dovete sgusciare via di qui e tornare a Mediolanum come fulmini, per fare rapporto».

    «Non sono tutti dalla parte di Silvano, protector».

    Ammiano fissò Victor: «Cosa vuoi dire?»

    «Ho scambiato qualche parola con un soldato a Castra Herculia, dove abbiamo passato la notte. C’è malcontento nei distaccamenti sul Reno. I brachiati di stanza laggiù sono pronti a passare dalla parte di Costanzo, ma non sanno se gli ufficiali sono d’accordo».

    «Che cosa? E perché non me lo hai detto prima?»

    «Perché sono uno della scorta», ribatté Victor, pacato. «Il mio compito è proteggere il generale. Il resto non è affar mio».

    L’ufficiale si sporse in avanti, aggressivo. «Mi piaci sempre meno, franco, ma forse sei l’unico che può toglierci dai guai. Visto che sei così bravo a scoprire informazioni, datti da fare. Voglio sapere se c’è modo di mandare un messaggio agli ausiliari fuori di qui. Ti dirò io come agire. Hai capito?».

    Il franco annuì. Dopo un ultimo sguardo di fuoco, Ammiano si alzò e se ne andò.

    Filopatròs sogghignò, mentre Victor si appoggiava al quarto posteriore del cavallo, osservando il viavai di inservienti e soldati. «Militares!», gridò facendo risuonare la sua voce tra le volte della scuderia, facendo girare parecchie teste. «C’è qualche fratello di Merseen, qui?».

    Gli uomini ignorarono la domanda e ripresero le loro occupazioni. Victor capì che non c’erano molti connazionali, tra quei soldati, e prese una spazzola per strigliare il cavallo del generale.

    «Chi lo vuole sapere?».

    Il franco si vide di fronte un gigante dai capelli biondi, che portava una corazza a placche e un elmo intarsiato. Il gigante teneva per le redini un magnifico baio.

    «Io, Victor, figlio di Klothar di Merseen».

    «Sono Dagalaifo», rispose l’altro, squadrando il franco con occhi di un limpido verde. «Non sono di Merseen, ma vengo dalla Frisia centrale».

    «Per Hercules! Finalmente un uomo, in questo covo di effeminati!», esclamò Victor in dialetto germanico. «Non vedevo l’ora di trovare qualcuno che sappia dove bere del buon vino e trovare donne degne di questo nome, qui a Colonia Agrippina».

    Il bestione sorrise, assestando una violenta pacca sulla spalla di Victor. «Fratello, hai trovato l’uomo che fa per te».

    Dagalaifo si rivelò subito la chiave che permetteva a Victor di entrare e uscire dalla fortezza di Divitia.

    Il colosso faceva parte della guardia personale di Claudio Silvano, composta quasi esclusivamente da germani. Nonostante

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