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I misteri di Borgoladro
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I misteri di Borgoladro
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I misteri di Borgoladro

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About this ebook

Una tranquilla vacanza sta per trasformarsi in un vero e proprio incubo

Quando Orlando parte per un viaggio in Toscana insieme a Elise, la sua compagna, ha tanti propositi per passare dei giorni all’insegna del divertimento: non vede l’ora di dedicarsi al buon vino, al cibo genuino e all’esplorazione di luoghi fuori dalle rotte turistiche consuete. Ma sulla strada, durante una sosta nel piccolo paese di Borgoladro, l’allegria lascia spazio al sospetto. Nel piccolo insediamento di case arroccato sulle colline e abitato da vecchi pensionati si respira un’atmosfera sinistra. Difficile capirne la ragione: ma a un certo punto è chiaro che Orlando ed Elise non sono ospiti graditi e ben presto la vacanza rilassante tanto agognata si trasforma in un incubo da cui sembra impossibile svegliarsi…

Chi ha detto che la provincia sia rassicurante?
Nel piccolo paese di Borgoladro nulla è come sembra

«In un contesto che potrebbe essere idilliaco – le colline toscane sotto un bel cielo limpido – si scatena una ferocia che non dà scampo.»

«L’autore ha un dono: la capacità di creare l’orrore nella normalità.»

«Se cercate un libro che vi tenga svegli e lasci a bocca aperta nel finale, l’avete trovato!»

Filippo Semplici
Toscano, esordisce nel 1999 con Il cucciolo. Amante di thriller, rock e Dylan Dog, è autore di Senza paura e Il giorno dei morti, oltre a numerosi racconti comparsi su riviste e antologie. Ha pubblicato Il faro (premiato al Terni Horror Fest) e Quattro minuti a mezzanotte. Ha vinto il Premio Nebbia Gialla con La suggeritrice, in uscita nel 2020. I misteri di Borgoladro è il suo primo romanzo targato Newton Compton.
LanguageItaliano
Release dateJan 15, 2020
ISBN9788822741394
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    Book preview

    I misteri di Borgoladro - Filippo Semplici

    EN.jpg

    Indice

    PARTE PRIMA

    1

    2

    3

    4

    5

    PARTE SECONDA

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    PARTE TERZA

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    PARTE QUARTA

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    PARTE QUINTA

    1

    2

    3

    4

    PARTE SESTA

    1

    2

    PARTE SETTIMA

    1

    2

    3

    Epilogo

    Nota dell’autore

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    2551

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Prima edizione ebook: febbraio 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4139-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Filippo Semplici

    I misteri di Borgoladro

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    «Quando Dio ha fatto l’uomo

    doveva avere il diavolo accanto».

    Cormac McCarthy

    «Se ridi, tutto il mondo riderà insieme a te.

    Se piangi, piangerai da solo».

    Old boy

    «Il web non si limita a collegare macchine.

    Connette delle persone».

    Tim Berners-Lee

    Lo schermo del laptop era l’unica luce a rischiarare il piccolo ambiente; un rettangolo azzurro che sfidava il buio creando sottili angoli di penombra, come una lama che tagliava in due l’oscurità.

    La donna era seduta con le lunghe gambe accavallate; osservava il display mantenendo il dispositivo in equilibrio sulle ginocchia incrociate, sotto una gonna di pelle pregiata. Aveva gli occhi inchiodati su quelle terribili immagini e ancora si stava chiedendo, incredula, come fosse potuto accadere.

    Morti. Erano tutti morti. Una fila di cadaveri straziati.

    Non era certo nuova a quel genere di cose, ma la visione ebbe il potere di turbarla. Solo un po’.

    Sfilò una sigaretta lunga e sottile e se la sistemò tra le labbra carnose; nella destra fece scattare un accendino d’oro. La fiammella per un istante illuminò un volto ovale e ben curato, prima di riconsegnarlo al buio: sopracciglia lunghe e affusolate, naso perfetto, occhi dal taglio mediorientale, il tatuaggio di una lacrima appena sotto lo zigomo sinistro. La donna fece un lungo tiro ed espirò il fumo piegando la testa all’indietro. Il cappello a falde larghe proiettò un’ombra fugace che subito fu inghiottita dalle tenebre.

    Tornò al laptop e lo sfiorò. Scacciò con un click quelle orribili immagini che adesso avevano solo il potere di irritarla, e con un moto di fastidio scelse l’inquadratura della Camera 5. Da quell’angolazione la visuale migliorava, anche se la scena restava la stessa: sangue e morte.

    E qualcos’altro.

    Qualcosa che veniva trasmesso dalla Camera 7.

    Passò con rapidità a quella, e quando guardò, un rivolo di sudore le corse giù lungo la schiena. Sentì la costosa camicetta incollarsi alla pelle, e la sensazione fu davvero sgradevole. Si sistemò a sedere più comodamente, cercando di dominare il nervosismo, e al diavolo il tailleur che si sarebbe sgualcito. Non aveva tempo per le sciocchezze adesso, doveva pensare a quella faccia, là, in primo piano.

    Solo a quella.

    Il ragazzo ricoperto di sangue, dall’espressione selvaggia e folle, l’incarnazione stessa del demonio, che la guardava dalla Camera 7 e aveva cominciato a parlare.

    Ma cosa stava dicendo? A chi si rivolgeva? Come osava?

    Mentre i pensieri si scontravano tra loro, la donna si ritrovò a rabbrividire.

    Le cose non sarebbero dovute andare in quel modo, anzi, come diavolo avevano fatto a finire così? Era inaudito, e la colpa era sua, soltanto sua. Sarebbe dovuta intervenire prima, e non a giochi fatti.

    Adesso a scrutarla c’erano solo quegli occhi insopportabili dalle pupille dilatate, nelle quali vedeva galleggiare gocce opache di pazzia.

    Ma lei era abituata a molto peggio e non si sarebbe lasciata sopraffare dall’inquietudine. Ci voleva ben altro che il diavolo per spaventarla.

    Quando riuscì a placare le emozioni che l’avevano sopraffatta, la donna alzò di nuovo lo sguardo sul viso del ragazzo in primo piano, i lineamenti deformati in una smorfia di rabbia omicida. La sua voce arrivava da lontano e attraversava infinite connessioni per giungere fin là, trasportando parole rivolte a lei.

    Nonostante gli sforzi per mantenere la calma, la donna riuscì a stento a evitare che la sigaretta le scivolasse di mano.

    «Quando ti riuscirò a incontrare», lo ascoltò concludere guardando allargarsi quel sorriso grondante, «ti ammazzerò come un cane».

    Parte prima

    1

    Il paese comparve dietro l’ultima curva che concludeva un groviglio di tornanti.

    Sembrava stampato sopra il paesaggio, come una cartolina in sovrimpressione, nitido sotto il cielo limpido d’estate. Non era altro che uno strascico di casette ammassate le une contro le altre, che cresceva nel punto più alto di un promontorio poco distante. Più che un vecchio paese somigliava a un antico borgo medievale; i resti di mura secolari correvano intorno al perimetro delle case in un triste abbraccio, e quella che pareva una grande terrazza panoramica si affacciava sull’immensità di valli sperdute.

    Orlando piegò la Ducati su un lato e affrontò l’ultimo giro di strada, prima di fermarsi sul ciglio della carreggiata. Scese, tolse il casco e si sbottonò il colletto della giacca, poi invitò Elise a fare altrettanto. La brezza estiva lo raggiunse dai campi, mentre la bellezza del panorama lo disorientava: una distesa di vigneti e coltivazioni, terra dismessa e poco più. Al di sopra, un tetto di nuvole bianche a far da cornice a quel gioioso quadretto.

    Erano nei pressi di quella che sembrava un’antica cappella a pianta ottagonale, coronata da una cupola con un piccolo cortile riparato da file di cipressi. Quell’unica costruzione pareva abbandonata, sola, a guardia delle valli circostanti, nel punto in cui la strada si divideva in tre opzioni: a sinistra scendeva verso un gruppetto di vecchie case poco distanti, a destra si perdeva tra le vigne, e dritto portava al paese. Orlando si passò una mano tra i capelli biondi come il grano, e i suoi occhi nocciola scivolarono lungo le insenature, prima di finire ipnotizzati dal borgo in lontananza. Lo indicò.

    «Che ne dici?».

    Elise sciolse al vento la chioma corvina, poi inforcò un paio di Ray-Ban. Le lenti scintillarono alla luce del mattino. Si portò una mano alla fronte per vedere meglio.

    «Boh, non so. Non mi sembra un granché, visto da qui».

    «Non sarà una sosta lunga», la tranquillizzò lui. «Il tempo di prendere qualche bottiglia d’acqua. Ne sono rimaste solo due e non credo che qui intorno troveremo altro, a meno di non bussare a qualche casa».

    «Fa’ come vuoi, ma secondo me sarà solo una perdita di tempo».

    Orlando fece spallucce. «Siamo praticamente a due passi. Cosa ci costa provare?»

    «Non ci costa niente». Elise si stirò, lasciando aderire la canottiera alle deliziose forme. «Ma tra due ore dovremo essere a Vallombrosa, e il tempo che impiegheremo per visitare quel posto sarà tempo perso».

    «Tranquilla», le sorrise lui. «È tutto sotto controllo. Magari trovo qualcosa anche per lei», e batté la mano sul serbatoio della Ducati.

    «Stai scherzando? Accontentati di trovare dell’acqua, tra quelle quattro mura in rovina».

    Orlando carezzò la moto con amore. L’aveva acquistata in autunno e pagata un occhio della testa. Elise aveva obiettato, le era sembrata una spesa assolutamente inutile che avrebbe inciso in negativo sul bilancio familiare: affitto, bollette, viveri e adesso anche una moto, con tanto di assicurazione e tutto quello che si trascinava dietro. Tuttavia aveva ceduto alle sue insistenze, e lui le aveva promesso una vacanza in Toscana non appena fosse capitata l’occasione, che era arrivata proprio quell’estate.

    «Abbiamo ancora molta strada da fare», continuò Orlando. «Voglio solo essere…».

    «Previdente!». Elise levò gli occhi al cielo. «Lo so. Il solito maledetto e insopportabile previdente di sempre. Mon dieu!».

    Lui le mollò una pacca sul sedere che riecheggiò tra le colline investite dal sole, strappandole un gridolino.

    «Se vuoi discutere con me, fallo nella mia lingua. D’accordo, mademoiselle?».

    Elise fece un sorriso ammiccante. «Guarda che il mio italiano è meglio del tuo».

    «Basta chiacchiere», concluse lui, tirando fuori l’iPhone.

    Digitò qualcosa e attese. Elise gli si avvicinò, ma lui la respinse con un gesto amorevole della mano. Sapeva quanto fosse curiosa.

    «Bene bene, vediamo cosa abbiamo qui».

    Il display visualizzò la mappa della zona insieme a un sacco di informazioni, mentre un puntino blu indicava in maniera pressoché esatta la loro posizione. Orlando guardò il gruppo di case ai margini della strada.

    «Quello è il piccolo borgo di Petrognano. Proseguendo, si arriva a Barberino Val d’Elsa, Tavarnelle Val di Pesa, eccetera». Si girò a osservare la cappella alla sinistra. «Questa costruzione invece è la cupola di San Michele Arcangelo. Qui dice che è la riproduzione esatta della cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, in scala uno a otto». Alzò lo sguardo a contemplarla, affascinato. «Forte», sospirò.

    «Accidenti!», fece Elise.

    «Incredibile, vero?». Orlando si girò a guardare la ragazza, intenta a scrutarsi le unghie della mano.

    «Accidenti!», ripeté lei, seccata. «Mi si è rovinato lo smalto! Accidenti!».

    «Sei senza speranza». Orlando fissò il paese. «E laggiù, signore e signori, abbiamo un posto senza nome», commentò a bassa voce, mentre digitava qualcosa. «Nessuna indicazione. Boh. Curioso».

    «A volte è meglio non avere un nome, piuttosto che tenersene uno ridicolo».

    Lui la squadrò, indispettito dalla sua espressione divertita. «Orlando è il nome dell’eroe di un poema cavalleresco, mia cara. Se sei ignorante, non è colpa mia».

    Sapeva quanto lei amasse stuzzicarlo, prenderlo in giro per il suo nome, ma non riusciva mai a evitare quei trabocchetti.

    «Sto scherzando, dai!». Elise lo abbracciò forte e lo baciò sulla guancia. «Lo sai, è uno dei motivi per cui mi sono innamorata di te. Tu sei il mio Orlando innamorato».

    «E tu sei solo una ruffiana».

    Orlando si lasciò stringere, poi guardò l’orologio: le dieci e dieci. Se volevano raggiungere Vallombrosa per l’ora di pranzo, non dovevano perdere nemmeno un minuto. La sosta avrebbe dovuto essere breve.

    «Bene, siamo in perfetto orario con il programma». Ripose l’iPhone nella tasca dei jeans. «Entro stasera saremo nel Valdarno. Come previsto».

    Era compiaciuto di sé stesso e della sua precisione. Adorava quei momenti in cui tutto andava al posto giusto, come le tessere di un puzzle. Montò di nuovo in sella.

    «Se hai fame, nello zaino ho ancora un paio di panini e qualche snack», propose alla ragazza.

    «Sei matto? Ho appena fatto colazione».

    «Bene, allora in sella. Si riparte».

    Orlando diede gas e si immise nella carreggiata, regolando i giri del motore al minimo. Si avviò incontro al promontorio, immobile in un innaturale fermo immagine. Verso quel paese senza nome, che ora sembrava attirarlo in modo del tutto misterioso.

    2

    Superò un cartello bianco divorato dalla ruggine, dove si leggeva a malapena «Borgoladro».

    Dunque, ce l’hai un nome.

    La strada divenne così ripida che la moto sembrò rifiutarsi di andare avanti. Orlando scalò le marce con pazienza e mantenne un’andatura costante, mentre il motore continuava a brontolare e vomitare fumi di scarico. Da lassù poteva ammirare la splendida vallata che si lasciava alle spalle. Poco prima di raggiungere le mura ed entrare in paese, notò un viottolo sulla sinistra che si faceva strada tra le erbacce e si spingeva all’interno, sul dorso della collina, fino a raggiungere un vecchio recinto di legno e lamiera.

    Probabilmente un porcile. O un pollaio.

    Tutto trasmetteva un laconico senso di solitudine.

    Un cane latrava in lontananza, e non c’erano altri suoni o rumori al di fuori di quello. Il vento tiepido trasportava odore di fieno e letame.

    Orlando raggiunse l’entrata del paese, dove la strada proseguiva sotto un antico arco a volta che faceva da ingresso al piccolo borgo. L’asfalto lasciò il posto alla pietra. La stradina in quel punto si biforcava sulla sinistra, stringendosi e incuneandosi tra le abitazioni, ma lui continuò dritto.

    «Via de’ Beceri», lesse.

    Andiamo bene.

    Si insinuò tra vecchie case dai tetti così vicini che in qualche punto parevano sfiorarsi, finché la via non riacquistò ampiezza. Proseguì quasi a passo d’uomo, tra edifici muti che lo spiavano, silenziosi; ogni tanto si aprivano cunicoli, come arterie nascoste di un corpo umano. Probabilmente il borgo era costituito soltanto da una strada principale e una secondaria, raggiungibile attraversando quei passaggi scavati nella roccia e nel tufo.

    Finalmente la salita declinò con gradualità, fino a condurlo all’imbocco di una piccola piazzetta quadrata. La via proseguiva verso un secondo arco, simile a quello che aveva oltrepassato, sicuramente l’uscita del paese. Il pavimento della piazza era un tappeto di piastrelle sconnesse, come l’enorme tastiera scordata di un vecchio pianoforte. Case in rovina le facevano da cornice; a giudicare dalle crepe che ferivano l’antichità di quelle mura, e dalle persiane che pendevano sgangherate, molte dovevano essere disabitate. L’erbaccia cresceva ovunque, in grovigli verdi che spuntavano rigogliosi tra le fessure delle pietre. Orlando udì lo zampettio e il batter d’ali di piccioni che spiccavano il volo dalle grondaie arrugginite, probabilmente spaventati dal loro arrivo. Mucchi di escrementi essiccavano sotto i raggi di un sole arido, che senza fretta prendeva possesso della piazza.

    Nonostante tutto, un bar pareva sopravvivere a quel disfacimento: un’insegna consumata cigolava smossa dalla brezza, e informava con coraggio che quello era il Bar Sport. Una targa di marmo, poco sopra, indicava piazza del Bue.

    Orlando parcheggiò la moto e scese con il casco sottobraccio. Il caldo stava aumentando, così si liberò anche della giacca. Buttò un’occhiata a Elise e le fece cenno di smontare, poi si sfilò gli auricolari e lasciò che Brian Johnson continuasse a cantare che era tornato, sì, era tornato in nero.

    Well I’m back in black! Yes, I’m back in bl... CLICK.

    Si guardò intorno: alle sue spalle la strada declinava verso la parte inferiore del paese, cedendo il posto a rozzi scalini di pietra che terminavano in quella che sembrava una seconda piazzetta. Forse si trattava della terrazza panoramica che aveva notato dalla valle. Ogni tanto sulle mura scrostate emergevano dalla polvere antichi stemmi corrosi dal tempo, appartenuti a chissà quale famiglia nobile.

    Orlando si voltò verso Elise, che non cercava di nascondere il disgusto. «E dai», provò a tranquillizzarla. «È solo una breve sosta».

    Lei indicò il bar. «Perché tu sei convinto di trovare qualcosa là dentro?».

    Orlando si sgranchì le braccia sopra la testa. «Ormai siamo qui, diamo almeno un’occhiata».

    «Ma non c’è niente da vedere! L’unica cosa certa è che abbiamo ritardato la nostra tabella di marcia».

    «Oh oh», fece lui. «Da quando ti occupi di puntualità, signorina Intanto-avviati-tu-che-io-ho-ancora-cinque-minuti?».

    Elise sbuffò senza aggiungere altro.

    Orlando sapeva quanto lei odiasse essere ripresa sui propri difetti, per questo si divertiva a irritarla, allo stesso modo in cui lei si divertiva a canzonarlo sul nome.

    Delle volte si domandava che razza di coppia fossero: innamorati, ma opposti in tutto. Lei aveva un carattere forte e deciso, sempre pronta alla competizione e alla lite, lui invece era un tipo calmo e riflessivo, che non si abbandonava a sfumature emotive, e difficilmente trovava un motivo per litigare con la gente; gli piaceva pensare che i problemi fossero ben altri, e a chi chiedeva approfondimenti rispondeva con un sorriso: "Quando manca la salute". Si lasciava canzonare da lei quando gli dava dell’ingenuo credulone, ma scuoteva la testa quando la sentiva definirsi una ragazza tosta che vedeva oltre le apparenze. Lui era un inguaribile ottimista, lei un’inguaribile pessimista. Lui era l’apice della precisione, lei era disordinata e confusionaria e i loro armadi, in casa, parlavano chiaro; era stato costretto a comprarne uno tutto per sé, se non voleva rischiare un giorno di indossare per distrazione un perizoma di pizzo nero, o rosso. Lui non avrebbe mai fatto nulla senza avere la certezza di poterlo fare al meglio, Elise invece si buttava a capofitto nelle situazioni più strampalate senza nemmeno chiedersi come avrebbe fatto a uscirne. Se dovevano rispettare un orario, lui arrivava dieci minuti in anticipo, lei dieci minuti in ritardo. Quando andavano in pizzeria, lui sezionava la pizza con fredda maniacalità, dividendola in otto spicchi identici, mentre lei si abbandonava a una sorta di sadismo alimentare, facendola a pezzi lentamente, come un serial killer culinario.

    Lui amava la musica rock, il metal e il punk, lei si accontentava di musica leggera, e talvolta classica; diceva che aveva già abbastanza confusione nella testa per sopportare anche il rock. Il loro unico punto d’incontro in ambito musicale era Nothing else matters dei Metallica, o rari pezzi dei Linkin Park.

    Lui era un accanito lettore di fumetti, e avrebbe sacrificato il braccio destro per la collezione di Dylan Dog; lei, ovviamente, trovava i fumetti un passatempo da ragazzini e preferiva le riviste di moda che lui, ovviamente, classificava come passatempo da ragazzine. Quello che lui odiava di lei era il modo in cui si prodigava in ogni imprecisione, e soprattutto come riuscisse a perdere ogni volta le chiavi di casa; allo stesso modo, sapeva quanto lei odiasse il suo essere previdente, e il ghigno sadico con cui la rimproverava ogni volta che lei perdeva le chiavi di casa.

    Ma si amavano. E questo bastava.

    Elise incrociò le braccia sul petto. Orlando la raggiunse e la cinse in un dolce abbraccio, dal quale la ragazza si scostò leggermente.

    «Va bene». Orlando affondò il naso nel profumo dei suoi capelli. «Va bene, avevi ragione tu. Probabilmente abbiamo solo perso tempo, venendo fin quassù». Mandò a segno un bacio. «Ma vuoi mettere la soddisfazione? C’è gente che accorrerebbe da ogni parte del mondo per poter raccontare di essere stata nientemeno che a Borgoladro, e tu volevi perderti tutto questo?».

    Elise gli assestò una gomitata, tentando di trattenere una risata, senza riuscirci. «Sei un idiota!».

    «Questo lo sapevi».

    «E sei anche un po’ stronzo».

    «Sapevi anche questo». Provò ad abbracciarla ancora, ma lei si divincolò come un’anguilla nella rete. «Va bene, basta scherzi. Adesso vado». Le indicò il bar. «Ci metto due minuti».

    «Te ne concedo uno».

    Orlando si avviò verso il centro della piazzetta, e più si avvicinava, più si dava dello stupido. Anche un cieco avrebbe capito che quel locale era chiuso, tuttavia il suo innato ottimismo lo spinse a frugarsi in tasca alla ricerca di spiccioli. Un paio di monetine gli sfuggirono di mano e si persero tra gli anfratti erbosi

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