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Centurio
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Ebook514 pages7 hours

Centurio

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Un grande romanzo storico
Bestseller in Spagna

Roma contro Roma
Un'epica storia di guerra, amore e giustizia

«Il tuo grado ti imporrà la solitudine, che sarà per il tuo spirito quello che il cibo è per il tuo corpo». 80 a.C. Caio Emilio Rufo è una recluta che milita nelle coorti di Lucio Cornelio Silla, durante la guerra civile che sta dilaniando la Repubblica. È un giovane idealista inesperto, non ancora diventato uomo. Dalle vette innevate dei Pirenei alle battaglie navali al largo delle coste dell’Africa, Caio Emilio si addestra a combattere le legioni del più astuto e acerrimo nemico di Roma, uno dei più grandi comandanti di tutti i tempi: Quinto Sertorio, parente e fedele generale di Caio Mario. Nell’assolata Spagna romana, popolata da genti fiere e bellicose, Emilio affronta le prove che questa odiosa guerra gli impone tra guardie, scorte, battaglie, assassinii, tradimenti e agguati. Subisce le angherie del suo spietato centurione e in cuor suo riconosce il valore dei nemici che sta combattendo, vessati dagli abusi della dominazione romana. Schiacciato dalla sorte avversa, senza più nulla in cui sperare, Caio Rufo attraversa il mare e giunge nei roventi deserti della Mauritania; lì, con la gola riarsa e la pelle scottata dal sole, incontra il nemico che era stato addestrato a uccidere. Emilio capisce che il destino che l’ha condotto fino a quel punto l’ha reso più forte, tanto forte da fargli intraprendere un nuovo viaggio, che lo condurrà tra le file degli Immortali.

«Un romanzo storico scritto con il rigore di chi conosce bene la storia militare.»
Tiempo

«Un romanzo appassionante di storia e di onore.»
El placer de la lectura

«Ci circonda dei cuori e delle anime dei legionari protagonisti del romanzo.»
Revista Krítica
Massimiliano Colombo
nato a Bergamo nel 1966, vive a Como dove da anni coltiva, con cura, dedizione ed entusiasmo, la sua innata passione per gli eserciti del passato. Nel 2005 ha pubblicato il suo primo libro: L’Aquilifero. Nel 2013 la casa editrice Ediciones B ha acquistato i diritti dei suoi libri per il mercato mondiale di lingua spagnola e nel 2014 il successo di pubblico e critica de La legión de los inmortales lo ha consacrato in Spagna e Sud America come una delle voci più interessanti del panorama europeo del romanzo storico.
LanguageItaliano
Release dateAug 3, 2017
ISBN9788822713025
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    Centurio - Massimiliano Colombo

    i

    Tiro

    Mensis Martius, 81 a.C.

    Il centurione osservò il sole scomparire a occidente attraverso i fumi pallidi dei fuochi del campo prima di entrare nella tenda. Slacciò il cingulum, che tintinnò leggermente, lo appese insieme al gladio al palo di sostegno della struttura e si lasciò cadere sullo sgabello.

    Appoggiò i gomiti sulle ginocchia, si prese la testa fra le mani e sprofondò nell’abisso dei suoi ricordi. Immagini, volti, luoghi si rincorsero disegnando un gorgo di emozioni. Il battito del cuore era lento, ma echeggiava come un tamburo nella sua mente. Il respiro si fece profondo. Una sorta di dolore surreale premette sul petto. Era la tristezza, che arrivava a fargli compagnia ogni volta che si ritrovava solo, soffocando come un fiume che saliva alla gola ogni suo pensiero.

    Strinse gli occhi e cercò di convincere se stesso che la cosa migliore da fare, l’unica che gli restava, era quella di imparare ad accettare la situazione. Forse non era vero che nella vita tutto doveva avere un senso.

    «Centurio».

    Gli occhi si riaprirono di scatto battendo più volte verso la luce abbagliante che impediva la vista dell’imponente sagoma del soldato fermo all’ingresso della tenda.

    «Ho portato la cassa che mi hai chiesto».

    L’ufficiale annuì. «Mettila pure lì», ribatté indicando un angolo vicino alla branda da campo.

    Con un ultimo sforzo il legionario mise a terra con attenzione la cassa e rivolse un’occhiata al suo superiore in attesa di altre disposizioni.

    «Grazie Valerio, va’ pure ora».

    Il miles salutò e uscì dalla tenda scuotendo, al suo passaggio, la fievole fiamma della lampada a olio che illuminava l’alloggio.

    Gli occhi del centurione si concentrarono verso quell’oggetto. Un istante dopo si avvicinò al baule che sembrava tremare alla luce e con la sua ombra lo coprì. Appoggiò il ginocchio a terra, sfiorò con i polpastrelli il coperchio e cercò di capire se vi fosse un modo comodo per aprirlo. Una placca bronzea ornamentale contornava la serratura che era coperta da una strana patta assicurata a un cardine. Non c’era alcun dubbio, andava forzata.

    Con il gladio e un po’ di mestiere l’uomo tentò di rimuovere il fermo senza rovinare l’intero bagaglio. Alla fine il legno cedette al ferro e con uno schiocco secco e uno sbuffo di polvere la serratura saltò liberando il perno di chiusura.

    Il centurione depose il gladio a terra e dopo un istante di esitazione aprì il coperchio. Nella penombra le dita accarezzarono un tessuto di pesante lana cotta, un sagum, un mantello militare che aveva sicuramente visto giornate più gloriose prima di essere miseramente destinato a custodire il contenuto della cassa.

    Le mani scivolarono caute tra gli oggetti stipati all’interno di quell’involucro morbido dal quale emerse per primo uno splendido bicchiere di vetro cilindrico con stampate gocce con le punte rivolte all’ingiù: era lucido e intatto. L’ufficiale guardò il riflesso iridescente della luce che filtrava attraverso quel manufatto di pregio e lo depose con cura sul tavolo da campo. Trovò poi una sacchetta di cuoio, da cui sfilò il contenuto che emise, tra le dita, un sordo suono di sonaglio. Era una collana d’oro di aspetto sobrio, costituita da due coppie di catenine in maglie a forma di otto, riprese da due borchie di fine fattura. Rimase a fissarla a lungo con la mente persa nei ricordi. Era un oggetto familiare che, indugiando, tenne tra le mani prima di riporlo e frugare tra le altre cose. Fu il turno di una falcata, la spada iberica dalla lama ricurva. L’ufficiale l’afferrò con una sorta di timore. La estrasse dal fodero facendo baluginare la lama alla luce. Ne percorse il filo con lo sguardo e poi la rimise, con il suo sinistro crepitio, nella custodia che accarezzò prima di deporla sul tavolo a fianco.

    La cassa custodiva molto altro: un pugnale con il manico d’osso, un cinturone da parata con pendagli in argento e la metà di una tavoletta di terracotta a forma di mano con un’iscrizione, alquanto incomprensibile, in Celtiber. Era una di quelle tesserae hospitales che garantivano vitto e alloggio presso una casa, un’usanza delle tribù locali che aveva causato più di un guaio in Spagna con i militari. La soppesò nel palmo della mano, poi la strinse nel pugno con una contrazione involontaria della mascella e un respiro profondo.

    Trovò in seguito un servizio da bagno, completo di ampolla per l’olio e due strigili per tergere il sudore e lo sporco. Era tutto inserito in una maniglia per non andare perso.

    Poi prese fra le mani una scarsella di cuoio e la soppesò, dal rumore doveva contenere monete. Ne tirò fuori una e l’alzò per guardarla meglio alla luce della fiamma. La rigirò un po’ tra le dita prima di metterla via e riconoscere con il tatto la forma di un altro oggetto familiare, un glans. Sollevò anche questo con lo sguardo incuriosito, era strano trovare un proiettile da fionda insieme a delle monete. I polpastrelli avvertirono qualcosa sulla faccia del proietto: "Q. Sertori pietas". Una smorfia mesta si dipinse sul volto dell’ufficiale prima che il proiettile di piombo gli sfuggisse di mano ricadendo con un tonfo sordo nella cassa. Doveva aver colpito una scatola. Trovò infatti, sul fondo, una capsa, un contenitore cilindrico di cuoio, e lo prese. Lo aprì, custodiva dei rotoli.

    Indagò con curiosità il sillubos, una specie di tagliando in cartapecora che indicava con la numerazione quale fosse il primo rotolo, lo sfilò e piegando la testa, per far meglio cadere la luce sul testo, iniziò a leggere:

    Fermo queste note su un rotolo di papiro con la speranza di poterle, un giorno, consegnare alla mia cara madre e a mia sorella, onorando la memoria dei miei avi e del mio defunto padre, uomo valoroso e giusto.

    Se invece questo scritto dovesse esserti recapitato da altri, sappi che ti ho portato con me ogni istante essendo tu motivo di sostegno nella difficoltà di questo mio viaggio. Ho affrontato questa prova con coraggio sentendomi padrone della vita come se fosse un dono fuggevole degli dèi, un dono di cui si può esser privati in qualsiasi momento. Le Parche sono signore incontrastate del nostro destino: Cloto, infatti, fila la sua tela dando la vita, Lachesi la svolge sul fuso stabilendone il destino, ma Atropo la recide ineluttabilmente a suo piacimento.

    Il centurione si alzò e si mise a sedere sullo sgabello appoggiando il rotolo sul tavolo. Riprese dopo un attimo la lettura.

    Gallia Narbonensis

    Mensis Martius del consolato di Gneo Cornelio Dolabella e Marco Tullio Decola

    Abbiamo allestito il campo a un giorno di marcia dalle pendici dei Pirenei in attesa dell’ordine d’incamminarci verso i passi presidiati dai nostri nemici. Siamo giunti, attraversando la Gallia Narbonense, agli ordini di Gaio Annio, il nuovo pretore della Spagna citeriore, e Valerio Flacco, futuro pretore della Spagna ulteriore.

    Buona parte dei soldati di questa spedizione sono dei veterani che hanno combattuto Mario agli ordini di Silla, ma per raggiungere l’organico di quattro legioni si è dovuto arruolare un gran numero di reclute nella Cispadana.

    Gli uomini hanno avuto il morale alto sino a quando hanno marciato e si sono occupati della realizzazione del campo, ora invece, accampati da troppo tempo, avvertono un’inquietudine che esaspera gli animi. La Spagna è più lontana di quanto sembri e più tempo trascorre e più il nemico appare forte. Non resta che temprare gli uomini in attesa che la situazione si sblocchi.

    «Colpisci!».

    La verga sferzò l’aria fredda prima di schiantarsi sullo spallaccio della corazza ad anelli della recluta.

    «Più forte e copriti con lo scudo!».

    Un secondo colpo di vitis si abbatté sulla schiena del soldato che trattenne a denti stretti il dolore della percossa, mentre colpiva con rinnovata fermezza il palo di legno che gli era davanti.

    «Sei lento, lento e prevedibile».

    Il ragazzo assestò una violenta stoccata con la pesante spada di legno da addestramento.

    «Più veloce e più forte!», urlò il centurione spaccando la vitis sulla schiena del giovane soldato che si lasciò sfuggire un ringhio.

    «Datemene un’altra», disse l’ufficiale al suo inserviente gettando il moncone di legno che gli era rimasto in mano.

    L’allievo lanciò un’occhiata feroce all’ufficiale, poi serrò con forza la mascella e diede l’ennesimo affondo a quel maledetto palo che simulava il nemico. Il violento colpo gli causò una fitta al polso facendogli abbassare la guardia.

    «Nessuno ti ha detto di fermarti», gridò il centurione prima di assestare un calcio al grande e pesante scudo di vimini tenuto senza forza. Il bordo dello scutum colpì la bocca del ragazzo che barcollò con il labbro sanguinante.

    «Sei una nullità, un inetto», urlò l’ufficiale prima di avventarsi sul giovane scaraventandolo contro il grosso palo delle esercitazioni. «Credi forse di avere qualche possibilità di sopravvivenza quando sarai di fronte a uno degli uomini del Luscus?», gli intimò rabbioso premendogli il legno di vite sulla gola.

    Le labbra doloranti della recluta tremarono, mentre lo sguardo crudele dell’ufficiale gli scavava gli occhi.

    «Non guardarmi mai più come prima o ti ammazzo, chiaro?»

    «…Sissignore».

    «Mi disprezzi, tiro», gli sibilò minaccioso, «lo leggo nel tuo sguardo».

    «Non è disprezzo, è rispetto».

    «Non devi parlarmi, tiro!», gridò. «Non ne sei degno».

    Il bastone serrò la gola.

    «Non puoi guardarmi e parlarmi, tiro, devi solo obbedirmi».

    Senza riuscire più a fiatare il ragazzo assentì con il respiro sempre più affannoso.

    «Lucilio Ursiano».

    Il centurione si voltò verso Lucio Fabio Ispanico, il suo superiore, che lo stava fissando con profondi occhi scuri dal piglio severo. «Vuoi uccidermi le reclute prima che lo facciano gli uomini di Sertorio?»

    «No, Lucio Fabio», disse con fare ossequioso dopo aver lanciato l’ultima occhiata minacciosa alla sua vittima, «voglio solo farle arrivare addestrate a dovere allo scontro, tribuno».

    «Mi auguro che tu sia a buon punto, centurio», disse l’ufficiale, «il legato Gaio Annio aspetta te e tutti gli altri centurioni nella sua tenda. Silla ha parlato. Le liste dei proscritti e dei nemici di Roma sono state stilate. La vendetta ha inizio e sarà fonte di disgrazia per coloro che appaiono nell’elenco e per le loro famiglie».

    Ursiano si lasciò scappare un ghigno compiaciuto mentre si apprestava a seguire deferente il suo superiore. Si voltò un’ultima volta verso i tirones, le reclute, lanciando uno sguardo truce: «Lustrate l’equipaggiamento e sistemate il campo, voglio che sia tutto perfetto per quando torno».

    «Stai bene, Emilio?».

    Il ragazzo si portò la mano alle labbra. Sputò sangue e qualche imprecazione, poi guardò il suo compagno d’armi aprendo la bocca: «Ho ancora tutti i denti?»

    «Sì, sembra di sì, ma quel bastardo di Ursiano voleva colpirti per il piacere di farti male. Bevi».

    Gaio Emilio Rufo prese la borraccia, si riempì la bocca e sputò acqua vermiglia.

    «Va meglio, Celtiber, grazie».

    Celtiber era il soprannome di Ambato, un ragazzo grande e grosso dai capelli castani e ricci. Il suo aspetto lo faceva sembrare un uomo del nord, in realtà proveniva da Numanzia, l’antica capitale celtibera della Spagna citeriore.

    «Alla prima occasione gli taglio la gola».

    Emilio sputò ancora e poi fissò bieco l’amico: «Se quello che hai detto arriva alle orecchie di Ursiano siamo morti».

    «Prima o poi ci ucciderà».

    «Non ora, adesso gli serviamo per cacciare gli uomini di Sertorio dal passo».

    Celtiber alzò lo sguardo verso le montagne, dove le vette erano coperte da una coltre di nubi minacciose. «Sertorio è una volpe, se come penso io si è alleato con i Lacetani sarà davvero un’impresa superare e oltrepassare il valico».

    «Lacetani?»

    «Sì, i montanari che vivono tra queste rocce. Agili, forti e spietati. Conoscono ogni sentiero, ogni anfratto. Puoi scommettere che in questo momento ci stanno spiando e sapranno attendere il nostro arrivo proprio dove noi siamo diretti».

    «Perché dovrebbero stare con Sertorio?»

    «Per il semplice fatto che gli uomini del Luscus difendono i passi e se sono là vuol dire che hanno il permesso di sostare in quel luogo e presidiare la posizione».

    Emilio sorrise e scosse il capo, poi appoggiò lo scudo allineandolo con gli altri usati per gli allenamenti. «Adesso lo chiami come Ursiano?»

    «Be’, Sertorio ha un occhio solo e questo è un dato di fatto».

    «Già, sembra che sia un vanto per lui».

    «Proprio così».

    «Pare dica che siano pochi quelli che hanno il privilegio e la fortuna di poter esibire prova delle loro imprese, mentre il suo valore è visibile a tutti, proprio come la sua disgrazia».

    «E tu come fai a sapere queste cose?».

    Emilio ebbe un istante di esitazione: «Conoscevo uno che ha combattuto con lui sotto Gaio Mario».

    «Ora tu fa’ attenzione a ciò che dici», disse Celtiber guardandosi intorno. «Se solo hai conosciuto qualcuno che ha combattuto per Mario rischiamo di finire in due sotto i ferri di Ursiano».

    «Eccolo laggiù, sta tornando».

    «Sistemiamo l’equipaggiamento, altrimenti quel bastardo userà di nuovo il bastone».

    Emilio aveva percorso l’ultimo tratto del sentiero a passo di corsa, avvertiva il cuore uscirgli dal petto per lo sforzo, le tempie gli pulsavano strette nell’elmo e il sudore colava copioso, nonostante il freddo, mentre i polmoni si riempivano di aria gelida a ogni respiro. Si voltò e vide al suo fianco Ambato con il gladio sguainato e il grande scudo saldamente posto a copertura della spalla, come gli era stato impartito. Nonostante la corsa e il terreno sconnesso, la centuria aveva mantenuto la formazione e si apprestava finalmente al contatto con il nemico.

    Mesi di duro addestramento stavano conducendo al primo agognato scontro. Oltre le rocce grigie, poco più avanti, gli uomini di Sertorio, il ribelle, sarebbero apparsi e li avrebbero affrontati con fredda determinazione. Emilio sapeva che gli uomini che li attendevano erano veterani combattivi e fieri, uomini forgiati da decine di battaglie. Romani con il suo stesso identico equipaggiamento, che avrebbero usato le medesime tecniche di combattimento. Guardò di nuovo Celtiber che, a denti stretti, avanzava.

    Cercò di alzare lo scudo per muovere meglio le gambe, non era il pesante scutum in vimini usato per gli addestramenti, era quello per il combattimento fatto di strati di legno incollati tra loro. Più leggero e resistente. Emilio strinse i denti per lo sforzo, ma la spalla sembrava non volerne sapere di sollevare quell’arma da difesa. Il respiro si fece ancora più affannoso e mentre cercava di alzare quel peso vide le creste, di crine di cavallo, dei legionari di Sertorio affiorare dalle rocce.

    Afferrò l’impugnatura del gladio e cercò di sfilarlo dal fodero, ma non uscì. Il tiro imprecò, riprovò con maggior vigore, ma il fodero sembrava saldamente fissato alla lama. Non era possibile, lo aveva ingrassato, aveva provato e riprovato quel movimento centinaia di volte e l’arma si era sempre liberata alla perfezione scivolando dalla sua guaina.

    La fila di scudi color ocra, raffiguranti un toro che incorna la lupa, apparve provocando una sorta di timore reverenziale. Emilio si rese conto di avere di fronte i temibili veterani italici della Guerra sociale. Si fermò un istante a maneggiare convulsamente l’arma, che non ne voleva sapere di uscire dalla sua sede, fino a che le urla di Ursiano accompagnate da un violento spintone non lo rimisero in formazione.

    «Tira fuori il gladio, maledetto idiota!».

    «Non esce».

    «Tira fuori il gladio, ho detto!».

    Il respiro si fece ancora più affannoso.

    «Stai per morire, tiro!».

    Il ragazzo cercò di sfoderare l’arma con tutte le sue forze senza riuscirvi.

    «Quelli non aspetteranno, tiro!».

    «Vado avanti io, Centurio!», intervenne Ambato. «Fa’ sfilare in fondo Gaio Emilio a sistemare l’arma».

    «No, Celtiber, tu resta al tuo posto, preferisco veder morire un idiota piuttosto che perdere un uomo valido. Va’ avanti, Rufo», urlò Ursiano. «Prenditi un pilum in pieno petto e dimostra che anche se non sai combattere sai almeno morire».

    Emilio assentì mentre il cuore sembrava squarciargli il petto.

    «Muoviti! Sei solo un peso per la centuria, muoviti e avanza. Vai!».

    Nella confusione del momento lo sguardo di Rufo si incontrò con quello del suo amico iberico. Un istante di reciproca comprensione in mezzo a quel mare di follia. Il respiro pesante, il sudore che si congelava addosso. Erano vicinissimi. La voce del centurione tuonò alle sue spalle: «Mostra il petto, apri le braccia idiota, sarà più veloce».

    Era solo davanti a tutti. Solo.

    Non voleva morire.

    Una lancia si staccò da una mano e disegnò una parabola nel cielo insieme ad altre. Decine, centinaia, migliaia di lance, ma lui ne vedeva una sola, quella che era diretta verso di lui.

    Non voleva morire. No, non ora.

    Fissò quel pilum poi sbarrò gli occhi e rimase senza fiato. L’aria non sembrava mai abbastanza, respirò convulsamente, le mani corsero al petto, quasi in cerca di qualcosa e poi ancora tra i corti capelli madidi. Si guardò intorno nel buio della tenda, era frastornato, cercò di calmarsi, mentre osservava Ambato. Era al suo fianco e dormiva, il respiro regolare, di un sonno profondo e sereno.

    Erano ancora alle pendici dei Pirenei e gli italici di Sertorio erano a un giorno di marcia, saldamente arroccati tra le loro montagne.

    Una mano scostò il lembo della tenda.

    «Rufo, è il tuo turno».

    Quel turno di guardia non poteva capitare in un momento migliore, Emilio non avrebbe più preso sonno quella notte. Afferrò velocemente le sue cose e uscì al freddo stringendosi nel mantello. Raggiunse il fuoco dove gli ultimi ceppi andavano spegnendosi. Appoggiò il pilum alla spalla e tese le mani verso le braci guardando la grande distesa di tende allineate del campo. Un esempio di ordine e di consuetudine che contrastava con il groviglio dei suoi pensieri.

    Decine di sentinelle infreddolite iniziavano il loro turno di guardia cercando di scaldarsi come meglio potevano. Ogni soldato si guardava intorno in silenzio, senza potersi sedere, senza poter parlare. Le ore di guardia notturna erano gli unici momenti di reale solitudine dei soldati, erano il momento in cui la mente dava sfogo a pensieri, ricordi, desideri. Una donna, una casa, una tazza di vino caldo.

    Emilio volse lo sguardo oltre la palizzata del campo. In lontananza brillavano sospesi nel nero della notte delle luci. Erano gli uomini di Sertorio, che rivelavano la loro posizione sulla cresta dei monti.

    Aveva diciassette anni e mezzo e si era arruolato da quattro mesi. Aveva sempre desiderato diventare un legionario. Suo padre era stato uno dei muli di Mario, i legionari che avevano annientato i cimbri e i teutoni al comando di Gaio Mario e di Lucio Cornelio Silla. Il curioso soprannome di muli era dovuto al fardello che gli uomini dovevano trasportare, appeso a un robusto bastone forcuto, sulla spalla sinistra. Conteneva tutto l’occorrente: rasoio, tuniche, sciarpe e calze di ricambio, brache invernali, sagum, stoviglie, borraccia, un minimo di tre giorni di razioni, secchio di cuoio, cesto di vimini, sega, falce e tutto ciò che serviva a mantenere in ottimo uso armi e armatura senza contare il paletto già dentellato che era utilizzato per la staccionata del campo. Questo carico assegnato a ogni soldato aveva permesso di ridurre notevolmente le salmerie al seguito delle legioni, aumentando oltremodo la velocità degli spostamenti.

    Era solo una piccola parte della grande riforma dell’esercito voluta dal console Gaio Mario che abolì l’antico sistema di arruolamento che escludeva dal servizio di leva i cittadini di basso censo. Il nuovo esercito, aperto a tutti, doveva raccogliere il maggior numero possibile di uomini per fronteggiare il pericolo delle invasioni da nord e controllare confini sempre più in espansione.

    Chiunque, andando sotto le armi, avrebbe avuto la possibilità di ottenere laute ricompense in caso di imprese valorose e avrebbe potuto riscattarsi da una condizione di miseria o da un passato oscuro e scomodo. Così stava crescendo una nuova razza di uomini che non aveva eguali nel resto del mondo: i legionari.

    Le nuove schiere di professionisti, adeguatamente addestrate, sbaragliavano i nemici e cominciarono presto a raccogliere i frutti del loro pesante lavoro. Fu proprio in questa fase che accadde qualcosa che nemmeno Gaio Mario avrebbe potuto immaginare. La vita di questi legionari e il loro futuro divennero strettamente legati ai successi conseguiti dal proprio generale, che li ripagava assegnando parte del bottino, schiavi, terre. Di contro i comandanti delle legioni, con le loro elargizioni, si garantivano l’appoggio incondizionato dei propri uomini.

    Fu proprio questa caratteristica a far scatenare una sanguinosa guerra civile che, dopo aver imperversato in Italia per otto anni, si era spostata nella penisola iberica. La Repubblica stava vivendo da tempo un conflitto politico tra due distinte fazioni: i popolari, che rappresentavano gli interessi dei ceti meno abbienti, sostenuti dal console Gaio Mario, e gli ottimati, i migliori, che salvaguardavano le tradizioni e i privilegi della classe dominante, guidati da Lucio Cornelio Silla.

    La scintilla che fece scoppiare la guerra arrivò dopo l’elezione al consolato di Silla, a cui il Senato concesse per diritto la conduzione della guerra contro Mitridate, re del Ponto, che aveva esteso i suoi domini sulle città greche e sull’Anatolia, massacrando migliaia di cittadini romani.

    Silla assunse l’incarico e si avviò verso Nola per congiungersi all’esercito che avrebbe preso parte alla spedizione. Gaio Mario era ormai in tarda età, ma la sua ambizione gli impedì di accettare che il suo rivale potesse condurre quella guerra, quindi, in sua assenza, fece approvare una legge con la quale si attribuiva il comando della missione sottraendolo a Silla.

    Non appena Lucio Cornelio Silla ebbe notizia dell’accaduto riunì le legioni a lui più fedeli e comunicò loro l’increscioso evento. Fece leva sull’offesa subita e sull’immoralità dell’uomo che stava cercando di usurpare il potere del Senato con i suoi intrighi. I soldati lo sostennero e si dichiararono pronti a seguirlo sin all’interno dell’Urbe – cosa assai deplorevole poiché la legge imponeva un preciso divieto, al generale e al suo esercito, di oltrepassare il pomerium, luogo sacro di fondazione della città stessa – per riprendersi ciò che gli era stato illecitamente tolto.

    Sei legioni mossero agli ordini del loro comandante e violarono i sacri confini della città che cadde nel caos. Mario e i suoi seguaci fuggirono mentre la lotta imperversava nelle strade, dove vi furono decine di esecuzioni sommarie. Silla fece ritirare le sue legioni solo quando ebbe soffocato i disordini, ristabilito una parvenza di calma e consegnato nuovamente l’autorità al Senato di Roma. Nonostante ciò, la quiete fu solo apparente. Quando Silla ebbe attraversato il mare e Roma rimase sguarnita, i populares presero nuovamente il sopravvento e Mario ebbe ancora una volta il dominio della situazione arruolando soldati e schiavi.

    E fu guerra. Una guerra odiosa e spietata che si protrasse a lungo e con alterna fortuna tra le fazioni in lotta. Essa si estese ben oltre l’Urbe, perché le città italiche alleate rivendicavano i loro diritti, rappresentati a Roma dai populares. Quando Silla, con la forza, recuperò il possesso della città, creò, su consiglio di un centurione che aveva combattuto per lui, uno strumento perverso di epurazione per mettere fine per sempre ai disordini: la lista di proscrizione.

    Bastava poco per finirci dentro e diventare un nemico della Repubblica, essere immediatamente privato della cittadinanza, dei beni e infine della vita.

    A rendere ancora più esecrabile il sistema fu la ricompensa per chi segnalava o uccideva un nemico della Repubblica. La caccia all’uomo che seguì fece migliaia di morti in pochi mesi.

    L’ultima di queste liste conteneva il nome di un ex ufficiale, figlio di Ria dei Marii, cugina di Gaio Mario, un tribuno ai tempi delle guerre contro i teutoni, un questore nella Gallia cisalpina che avrebbe avuto maggior successo, se non fosse stato per una decisa opposizione di Silla. Quest’uomo era Quinto Sertorio, sostenitore del partito dei populares che ora risiedeva in Spagna senza nessun incarico formale da parte dello Stato. Era al comando di quello che rimaneva delle forze dei populares ereditate da Gaio Mario prima che questi morisse.

    Sertorio e i suoi sostenitori andavano eliminati e le migliaia di reclute che erano accorse, come Emilio, nelle fila delle legioni, avevano il compito di liberare la Spagna da quello scomodo occupante.

    La sveglia fu data dal centurione prima dell’alba, quel giorno. Le legioni di Silla, comandate da Gaio Annio e Valerio Flacco, levarono le tende e marciarono verso gli italici che presidiavano i passi dei Pirenei.

    «Forza, razza di maledetti effeminati», ringhiò Ursiano, sempre smanioso di farsi bello agli occhi di Lucio Fabio Ispanico, «cercate di far credere di essere soldati, per lo meno finché siamo a distanza».

    Gli uomini continuarono a camminare curvi sotto il peso dei loro impedimenta. Il rumore temibile di una legione in marcia veniva interrotto occasionalmente dal colpo sordo del bastone di vite che si abbatteva su un soldato che, di tanto in tanto, perdeva il passo. «Ehi tu, tiro, intonami la canzone per tenermi sveglie queste bimbe».

    Emilio gonfiò il petto e cominciò a cantare con lo sguardo deciso puntato verso i monti. Era un tiro, una recluta, come una buona metà della sua centuria. I tirones erano un peso per gli ufficiali e per i commilitoni più anziani che non avevano alcun desiderio di affrontare in battaglia dei veterani con l’organico composto da ragazzini al primo scontro. Occorreva scuoterli quanto prima, bruciare le tappe e trasformarli in combattenti il più presto possibile e Ursiano era maestro in questo. Sapeva instillare odio e aggressività, sapeva addestrarli e sapeva rendere una battaglia più tollerabile di un’esercitazione. In Emilio, poi, scorgeva il piglio di chi non si piega e aveva iniziato a chiedere al ragazzo molto, molto di più, perché sapeva che avrebbe potuto ottenere il massimo.

    Aveva già spezzato diversi bastoni sulla sua schiena, lo teneva in perenne stato di punizione, ma il giovane non si era piegato, mai. Livido per le percosse si risollevava con sempre maggior fierezza, come se il suo valore, una volta sfidato, si moltiplicasse. Per Ursiano si stava tramutando in una questione privata, una sfida tra due forti personalità. Non addestrava più la recluta per farla progredire, ne era quasi infastidito poiché quel tiro dava prova di una tempra fuori dal comune, un’energia e una volontà superiori a quelle di altri e forse perfino alla sua natura.

    «Bravo, tiro, ti sei guadagnato un bel turno di guardia questa notte. Un turno tanto vicino agli uomini del Guercio che potrai sentirne l’odore».

    Emilio non smise di cantare e non lo guardò. Ursiano lo fissò con odio prima di aumentare il passo.

    Nonis Martiis

    Siamo acquartierati a poca distanza dal passo, nell’ultimo posto che permette una buona visuale intorno al campo. Poco più avanti il sentiero si restringe e si inoltra nella neve tra gole scoscese e tortuose. È troppo pericoloso mettere in colonna gli uomini e farli avanzare poiché a ogni passo si corre il serio rischio di un’imboscata.

    Il tribuno Lucio Fabio Ispanico ha dato disposizione di inviare costantemente degli esploratori per verificare la disposizione del nemico e valutare un attacco alla loro posizione, dove le difese risultano meno efficaci. Al momento non vi sono notizie confortanti, il nemico sembra invisibile e colpisce in continuazione gruppi isolati dei nostri.

    Ieri notte una decina di uomini in perlustrazione si sono spinti in alto e sono riusciti ad ascoltare i discorsi di alcune sentinelle nemiche. Da quello che hanno inteso sembrerebbe che il comandante in capo sia Livio Salinatore, uno dei migliori generali di Sertorio, del quale invece non è stata fatta menzione.

    Il morale degli uomini è basso.

    «Questa sera ti farò sentire l’odore del nemico», disse Ursiano con un sinistro ghigno rivolto a Emilio, poi riprese: «Voglio che andiate lassù e mi portiate un prigioniero. Non voglio un montanaro iberico, voglio un italico, penserò poi io a sciogliergli la lingua in qualche modo».

    «Ho bisogno di più uomini per questa missione, centurio», grugnì a muso duro Decano, il veterano della centuria che era stato chiamato a rapporto da Ursiano insieme a Rufo e Ambato.

    «I due novellini sono più che sufficienti Decano. Usa il Celtiber come esca, fa ciò che credi, ma portami un prigioniero. Hai inteso bene? Dobbiamo essere i primi a consegnare a Gaio Annio un italico», disse a denti stretti.

    «È più facile finire preda senza un numero adeguato di uomini».

    «Se sarete in pochi passerete inosservati, va ora e insegna qualcosa a questi due».

    Decano lanciò uno sguardo contrariato al centurione, poi con un gesto di stizza si avvolse nel mantello e si incamminò verso il sentiero seguito da Emilio e da Ambato.

    Avanzarono in silenzio, nell’aria fredda e rarefatta della notte stellata, costeggiando il fianco del monte, poi uscirono dalla pista e si inerpicarono tra le rocce scivolose ricoperte da un sottile strato di ghiaccio. Durante il giorno la temperatura era accettabile, ma la notte il freddo diventava pungente e la neve, sciolta nelle ore più miti, si trasformava in un velo cristallizzato che rendeva difficili i movimenti.

    Avanzarono lentamente e di tanto in tanto Decano sussurrava un’imprecazione, mentre sentiva i calzari scivolare. Emilio mise un piede in fallo e scivolò facendo franare delle rocce che precipitarono in basso con gran rumore prima di finire nella neve fresca con un tonfo sordo.

    Decano si appiattì più che poté, nel cono d’ombra di una sporgenza di roccia. «Hai intenzione di far capire a tutti dove siamo?», ringhiò fissando Rufo con lo sguardo ferreo, il naso schiacciato, scolpito in quel viso irregolare, e gli occhi infossati che esigevano una risposta sottintesa.

    «Non l’ho fatto apposta», bisbigliò infastidito l’altro rialzandosi.

    «Lo voglio sperare, ma ora vai avanti tu, non ho voglia di prendermi un colpo di frombola in fronte dopo il rumore che hai fatto».

    Il ragazzo annuì e, sebbene riluttante, si mise in testa al gruppo. Arrancò, tenendosi quanto più basso possibile, e uscì dal riparo offerto dal masso. Mentre saliva, senza voltarsi, sentiva Celtiber che lo seguiva in quell’aria di gelo ovattata. Il freddo era diventato insopportabile e sempre più spesso i tre erano costretti a fermarsi per riprendere fiato e per cercare, strofinandole energicamente, di scaldare le mani, ormai quasi del tutto intorpidite.

    «Da che parte?».

    Il veterano alzò la testa guardandosi intorno. «Vedi il sentiero a sinistra?»

    «Sì».

    «Bene, percorretelo per un tratto e poi tornate indietro, io vi guardo le spalle. Ci incontreremo poi in quella conca laggiù».

    Le due reclute rimasero attonite per qualche istante. «Come sarebbe a dire ci guardi le spalle?», domandò Celtiber.

    «Quello che ho detto. Io vi aspetto e voi andate avanti».

    «Non sono questi gli ordini del centurio…».

    «Il centurio non c’è», tagliò corto Decano. «Io sono il più anziano e do gli ordini, ma se hai da obiettare», continuò posando la mano sull’impugnatura del gladio, «possiamo sempre discuterne».

    «Figlio di una cagna…».

    «Stammi a sentire, tiro, ho fatto quindici anni di legione, ho visto luoghi di cui non conosci l’esistenza e ucciso tanti di quegli uomini che non puoi minimamente immaginare, e se per sopravvivere a questa fottuta notte devo fare fuori uno di voi o tutti e due a me poco importa, così come non mi importa di far conquistare a quel bastardo di Ursiano la stima di Ispanico con la cattura di un prigioniero. Che lo venga a prendere lui se ci tiene tanto, io non sono arrivato sin qui per farmi ammazzare da dei montanari iberici. Non sono io a dover dimostrare qualcosa, tocca a voi dare prova di valore», disse con un ironico ghigno aprendo la mano verso il sentiero. «Coraggio, il vostro prigioniero brama dalla voglia di farsi prendere».

    «Sei un bastardo, Decano».

    «Se dovessi tornare da quel sentiero, Celtiber», ringhiò l’anziano prendendo il ragazzo per il focale con la sua mano possente, «ti farò fare tanti di quei turni di servizio che imparerai a tenere a freno la lingua. Preparati a pulire merda per ogni giorno di questa fottuta campagna», concluse prima di assestare un violento pugno in pieno volto ad Ambato che cadde spruzzando di rosso la neve.

    «Calmati, Decano», disse Emilio. «Faremo come dici».

    Il legionario lanciò uno sguardo sprezzante ai due: «Levatevi dalle palle, mocciosi».

    Rufo aiutò l’amico a rialzarsi. «Sta buono, lascialo perdere».

    «D’ora in avanti, guardati sempre le spalle, Decano».

    «Ti ammazzerò per quello che hai detto, Ambato».

    «Sta’ buono, Celtiber. Lasciamolo perdere».

    Il veterano tirò fuori il gladio, Emilio spinse lontano l’amico, poi si voltò verso l’anziano legionario a mani aperte: «Non è accaduto niente, Decano, ce ne andiamo. Al campo ci berremo sopra e sarà come se non sia avvenuto nulla».

    L’anziano sputò in terra, lanciò un ultimo sguardo e poi si avviò verso la conca che aveva indicato fendendo con un paio di colpi l’aria con la lama del gladio.

    «Lo ammazzo».

    Emilio diede un altro spintone a Celtiber prima di incamminarsi verso il sentiero. «Devi essere impazzito, o è il freddo che ti congela il cervello? Dar contro a uno dei veterani, non abbiamo già Ursiano che ci rende la vita abbastanza difficile?»

    «Io sono un Celtiber», rispose l’altro seguendolo. «Le offese vanno restituite e io avrò la mia vendetta. Avrò la mia vendetta!», ribadì con voce risoluta.

    «Stammi bene a sentire, Celtiber», sibilò a denti stretti Rufo. «Siamo capitati in un mare di pazzi e se rimango senza di te io… io non so se riesco ad andare avanti».

    Ambato rimase colpito, passò il braccio sul naso gocciolante di sangue e mise la mano sulla spalla dell’amico facendolo fermare. «Non ti lascerò mai solo, Gaio Emilio Rufo».

    Si scambiarono uno sguardo che valeva più di mille parole e ripresero a salire per il sentiero nascosto dalla coltre bianca. La luna illuminava il paesaggio rendendolo surreale. La neve, cristallizzata, brillava traslucida gemendo sotto al peso dei passi. Fu l’unico rumore che li accompagnò sino a un pianoro che permise loro di procedere con meno fatica per un breve tratto. Fu a quel punto che Celtiber afferrò il braccio di Emilio per indicargli qualcosa in quel manto candido.

    Impronte. Ovunque vi erano impronte.

    «Una decina di uomini», sussurrò. «Forse di più».

    Emilio assentì rendendosi conto di come erano stati imprudenti a procedere allo scoperto in piena luce. «Torniamo indietro», bisbigliò, come se improvvisamente decine di occhi li stessero osservando.

    Dopo qualche passo all’indietro si voltarono per procedere più spediti verso il sentiero che li aveva portati fin lassù, ma rimasero attoniti, di fronte alla sagoma di un uomo, materializzatasi a una cinquantina di passi di distanza. Era imponente, indossava un elmo con un’alta coda di crine di cavallo. Una folata di vento gli aprì il mantello, che si distese come fossero le ali di un’aquila, mostrando un’armatura ad anelli ricoperta di decorazioni.

    I due misero mano alle armi quando dal buio comparvero, alle spalle del soldato, tre uomini con le lance in mano. Pochi istanti e la luce lunare illuminò elmi e sagome di altri due uomini alla loro destra. Erano circondati.

    «Vi siete persi?», chiese quello che era apparso per primo, prendendo ad avanzare nella neve fino alle ginocchia. Doveva essere un ufficiale, un centurione. «Ho fatto una domanda», ribadì fermandosi a pochi passi di distanza. Aveva la barba incolta e lo sguardo deciso: «Sono Vibio Calpurnio», affermò con un forte accento etrusco. «E ho l’ordine di uccidere tutti quelli che superano quel punto», asserì indicando con il pollice la gola alle sue spalle. «Cosa che voi avete fatto».

    I due rimasero immobili. Calpurnio scosse il capo: «Mi chiedo se Silla abbia arruolato degli uomini, oppure se voglia sperare di passare in Spagna con un esercito di tirones».

    Emilio provò a parlare, ma il soldato lo interruppe indicando il terreno ai loro piedi: «Gettate a terra le daghe e i pugiones».

    Non vi era alternativa. Resistere avrebbe significato soccombere. Lanciarono un ultimo sguardo agli uomini che li tenevano sotto tiro e poi i due gettarono nella neve le lame. In pochissimi istanti furono circondati e obbligati a sprofondare, in ginocchio, in quel tappeto di ghiaccio. Un’asta di legno serrò il collo di Emilio che alzò il mento verso l’ufficiale.

    «Chi è il vostro comandante?»

    «Siamo della centuria di Lucilio Ursiano».

    «Non il centurione, il tribuno o il comandante di legione».

    «Il tribuno è Lucio Fabio Ispanico, il legato è Gaio Annio».

    «Ispanico, hai detto?»

    «Sì».

    «Non so se siete pazzi voi o lo è il vostro comandante a mandarvi quassù a cercare una morte certa», disse con un tono più cordiale, «ma si dà il caso che Fortuna vi abbia a cuore questa notte. Voi tornerete sani e salvi da dove siete venuti».

    I due ascoltarono increduli e allo stesso tempo intimoriti dalle punte di ferro che premevano loro sulla schiena e sul petto.

    «Ho bisogno di parlare in segreto con il vostro comandante. Ispanico mi dice qualcosa, devo già averlo conosciuto in qualche occasione. Quindi, in cambio della vostra vita, voi mi farete conferire con lui».

    Fu Emilio a parlare: «Signore, per noi è davvero impossibile raggiungere un tribuno. Il nostro centurione non ci permette quasi di pensare, figuriamoci di aprire bocca».

    Calpurnio fece un gesto di diniego: «Proprio due reclute dovevo pescare. Forse mi conviene eliminarvi ora e aspettare i prossimi imbecilli», affermò dando un’occhiata verso la gola, «ma dubito che dei veterani siano tanto idioti da spingersi così avanti».

    Additò i due. «Ascoltatemi bene», disse. «Domani notte propongo un incontro a mezza costa sul sentiero che avete seguito oggi per salire fin quassù. Cinque uomini per parte, e tra quei cinque dovete portarmi qualcuno che mi possa mettere in contatto con Ispanico. Cinque uomini, se ne vedo uno in più vi faccio massacrare dai Lacetani».

    Con una corsa senza fiato

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