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Perché l'Italia non cresce
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Perché l'Italia non cresce

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Il saggio si propone di indagare sulle ragioni per cui l’ Italia non cresce, evidenziando il fatto che solitamente si è portati a ritenere che il paese non cresce: perché si pagano troppe tasse, c’ è troppa corruzione, la burocrazia scoraggia gli investimenti, l’ evasione fiscale penalizza le imprese oneste, si investe poco nella ricerca e in infrastrutture, la classe politica è inadeguata, ragioni che sono sempre state presenti nel nostro paese e che quindi non spiegano perché oggi diventano la causa determinante del mancato sviluppo. Tra le motivazioni ricorrenti indicate da numerosi esponenti politici c’è anche la convinzione che “quando c’ era la lira si stava meglio”. Il saggio spiega le ragioni per cui tale affermazione è falsa e priva di fondamento e perché non ha senso scagliarsi contro l’ Europa, la Merkel, la Germania, le banche e i cosiddetti poteri forti. Si invita quindi il lettore ad allargare gli orizzonti e ad indagare sulle trasformazioni che sono in atto nel mondo, analizzando prima le cronicità del sistema Italia, vale a dire l’ invecchiamento della popolazione, il numero degli occupati 65,3% rispetto al 74% della Germania, ma anche la situazione disastrosa in cui versa la scuola italiana e la mancata valorizzazione negli anni ottanta dei marchi storici della nostra industria e il ritardo nell’ attuazione del controllo qualità nel settore industriale che impediscono oggi all’ Italia di conquistare i mercati emergenti così come accade alla Germania nel settore automobilistico. Più che fare l’ elenco delle cose che l’ Italia sa fare, si pone l’ accento su che cosa non sa fare e si spiega perché l’ Italia è assente in quei settori strategici come l’ ITEC, perché la piccola e media impresa fatica ad essere presente nel mercato globale e perché manca la codifica delle regole di una nuova era economica in cui capitale e informazione rappresentano i nuovi fattori della produzione. Il saggio invita il lettore a non coltivare l’ illusione che gli italiani siano più intelligenti degli altri, ma che al contrario non hanno le capacità necessarie e gli strumenti per conquistare una presenza nella new economy e svolgere un ruolo da protagonisti. L’ assenza dell’ Italia da industria 4.0 fa paura e il notevole ritardo con cui la classe politica è corsa a i ripari, con un intervento di 20 miliardi di euro, potrebbe essere letale per il sistema produttivo italiano. La seconda parte del saggio propone un programma di interventi per riequilibrare le distorsioni del sistema Italia a partire dalla fiscalità, dal sistema pensionistico, dalla errata convinzione che la legge tuteli i diritti acquisiti, alla riforma della giustizia e al riassetto della pubblica amministrazione. Ma la riforma più importante è data dalla conoscenza dei meccanismi che regolano la produzione della ricchezza e dalla necessità di trasferire l’ imposizione fiscale del patrimonio dai capannoni che non producono ricchezza e costringono le aziende in crisi a chiudere l’ attività, alla tassazione dei database acquisiti senza alcuno sforzo economico e che producono ricchezza quando raggiungono dimensioni ragguardevoli, delle aziende che usano i robot al posto degli operai per fornire allo stato le risorse per sostenere la perdita di posti di lavoro che interesserà nei prossimi 20 anni il 50% della popolazione. Riconoscere ai proprietari del made in Italy (gli italiani) le royalties da parte di chi fa uso del marchio. Infine comprendere che per fronteggiare la concorrenza di giganti come la Cina, gli Usa, la Russia, l’ India e il Brasile è necessario far parte di una potenza economica come l’ Europa che deve completare il percorso di federazione di stati indipendenti così come Altiero Spinelli aveva indicato nel manifesto di Ventotene.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateSep 26, 2019
ISBN9788827867365
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    Perché l'Italia non cresce - Angelo Scalese

    CRESCE

    Perché l'Italia non cresce?

    In Italia, da più di 20 anni, la politica sembra che abbia esaurito il suo compito, nessuno riesce a capire che cosa stia succedendo al nostro paese. Perché l’ economia italiana non cresce più o cresce poco?

    Perché i politici da anni, ormai, si limitano a fare l’ elenco dei problemi e non riescono a proporre soluzioni adeguate? Perché si attribuiscono alle banche, alla Merkel, all’ Europa e ai poteri forti la responsabilità dei mali del bel paese?

    Perché negli ultimi vent’ anni siamo cresciuti meno dei nostri partner europei e molto meno dei paesi emergenti?

    Le risposte più comuni alla domanda: perché l’ Italia non cresce, sono diverse e ciascuna di esse ha un contenuto di verità:

    Si pagano troppe tasse,

    C’ è troppa corruzione,

    La burocrazia scoraggia gli investimenti,

    L’ evasione fiscale penalizza le imprese oneste,

    Si investe poco nella ricerca e in infrastrutture,

    La classe politica è inadeguata,

    I tempi della Magistratura sono biblici.

    Si può andare avanti con l’ elenco, ma tutte queste ragioni, che sono sempre state presenti nel nostro paese, non spiegano perché solo oggi ne determinino il declino.

    Da anni la politica dibatte su temi che sono assolutamente marginali rispetto alla gravità dei problemi.

    Lo scontro politico, in questi ultimi 20 anni, si è incentrato sull’ IMU, sul ponte sullo stretto, sulla riforma elettorale, sul tema dell’ accoglienza, sull’ abolizione dei vitalizi e dei privilegi della classe politica, ecc., ma nessuno di questi argomenti è in grado di modificare sostanzialmente la prospettiva di un paese che sembra destinato ad un declino inarrestabile.

    Si sono coniati slogan come: meno burocrazia, meno tasse, meno Stato, più persona, più impresa; qualcun altro ha puntato sullo slogan: onestà, onestà, ma la soluzione dei problemi posti dalla globalizzazione e dalla economia senza lavoro è rimasta fuori dalla politica, perché si insiste nella lettura del presente e si trascura di considerare che il futuro prossimo ci prospetta un modello di società che non risponde più alle regole economiche della società industriale e che il capitalismo analizzato da Marx non c’è più sia perché la produzione dei beni non è più legata allo sfruttamento del lavoro, da parte del capitale e sia perché non esiste più identità tra produttore e consumatore.

    Dobbiamo interrogarci sul perché l’ intera Europa non riesce a crescere in modo omogeneo e, soprattutto, se sia più utile affrontare i problemi:

    della globalizzazione,

    della posizione periferica dell’ Europa rispetto al mercato mondiale,

    la competizione con Stati come gli USA, la Cina, la Russia o l’ India e il Brasile,

    ciascuno con la propria bandiera nazionale o tutti uniti sotto la bandiera europea che, vale la pena ricordarlo, rappresenta la più forte economia mondiale.

    Occorre, innanzi tutto, smettere di pensare che il popolo italiano sia più intelligente e più geniale degli altri. Non è vero!

    In Italia, i brevetti ad alto contenuto tecnologico sono 7 per milione di abitanti, in Europa sono più di 30. Continuiamo a raccontarci che in Italia c’è la fuga di cervelli, come se fossimo una razza superiore e non consideriamo che il problema vero è che non riusciamo ad attrarli i cervelli, perché spendiamo poco per la ricerca e perché la nostra scuola è agli ultimi posti in Europa e nel mondo.

    Nel 1798, nel saggio Antropologia Pragmatica, Kant diceva che: "il Tedesco è l’ uomo di tutti i paesi e climi, emigra facilmente e non è appassionatamente legato alla sua patria e, sotto un’ autorità superiore, si differenzia egregiamente dagli stanziamenti di altri popoli per l’ attività, la purezza dei costumi e l’ economia".

    I francesi penseranno alla loro grandeur e gli inglesi vorranno far prevalere le loro peculiarità culturali ed economiche.

    Se, anche oggi, i popoli europei continuano a pensare alla superiorità del proprio paese, l’integrazione europea sarà sempre più lontana da venire.

    L’ unità dell’Europa passa attraverso la costruzione di una sua identità culturale. Identità tanto necessaria quanto minacciata dal dominio della tecnica e dal fenomeno migratorio.

    Il filosofo Emanuele Severino si pone il problema dell’essenza della cultura occidentale. Ma in quale direzione? Che cosa significa, per esempio, il declino dell'Europa? Non va forse insieme, questo fenomeno, al diventare planetario del dominio della tecnica, che è il frutto specifico del pensiero europeo? Che cosa significa l’ affermazione, oggi sempre più insistente, di porre limiti alla ricerca? Si può parlare di un'etica della scienza? La risposta a queste domande esula dal compito di questo saggio, ma è utile solo riportare la riflessione del filosofo Umberto Galimberti tratta dal saggio "Il tramonto dell’ Occidente : Guardate dal destino le promesse della politica, dell’ economia, della teologia, della scienza si aggrovigliano nella dimenticanza che l’ uomo è già salvaguardato dalla verità e che tutte le proposte di salvezza nascono solo perché in Occidente si è dimenticato questo sguardo per abitare il sogno del mondo"¹ per comprendere, come dice Galimberti, che la cultura europea sta forse giungendo al tramonto proprio oggi quando sembra che tutto il mondo insegua, senza esitazione, la via occidentale, fino ad annullare la specificità che finora ha reso riconoscibile l’ Occidente e, soprattutto, la sua distanza dall’ Oriente.

    San Benedetto, con la sua opera e con il movimento monastico da lui creato, favorì la diffusione del cristianesimo nel sesto secolo in Europa e determinò la formazione di quella identità dell’ Etos, e dell’ Epos che l’ antropologo Antony Smith definisce come gli elementi costituenti dell’ unità popolare. Mancano però il Logos e l’ Epos che consentono a Severino di affermare che : "Non c'è una sola Europa, ma molte Europe: politica, religiosa, economica, geografica, etnologica ecc. Il loro reciproco isolamento impedisce che sia possibile una vera ed efficace unificazione".

    Oggi il compito della politica non è quello di sfruttare le contraddizioni dell’ Europa per aumentare il proprio consenso elettorale, ma quello di pretendere più integrazione e più solidarietà tra i popoli europei.

    ¹ U. Galimberti, Il tramonto dell’ Occidente, Feltrinelli, Milano, 2005, pag. 560.

    L’ Italia non cresce perché investe poco in ricerca e sviluppo?

    In effetti la spesa per gli investimenti in ricerca e sviluppo sono molto bassi rispetto alla media europea, con un indice che oscilla tra 1,2 e l’ 1,3% del Pil, ma negli ultimi anni gli investimenti in ricerca e sviluppo sono aumentati molto di più che ne resto d’ Europa.

    Qual è il problema? Che non tutti gli investimenti in ricerca hanno un identico coefficiente di produttività. Risulta del tutto evidente che gli investimenti nel settore della fisica pura, quali la ricerca sulle particelle sub atomiche, hanno un impatto diverso sul Pil, rispetto alla ricerca che si occupa di nanotecnologie o di ITEC o nel settore agroalimentare. Se poi si pensa agli investimenti in ricerca che si disperdono nelle università umanistiche, non c’è da sperare che tutto ciò si trasformi in un incremento del Pil.

    Rispetto agli altri paesi dell’ area Euro, L’ Italia è l’ unico paese che è rimasto al palo, anzi è indietreggiato rispetto a tutti gli altri, con un Pil che si è ridotto del 3% circa. Anche la Grecia, che ha notoriamente un’ economia molto più debole di quella italiana, da quando c’è l’ euro è riuscita a fare un +2,6% di Pil. Spagna Francia e Olanda sono cresciute mediamente del 9% mentre la Finlandia ha incrementato il Pil del 20%, per non dire della Germania che ha avuto un incremento superiore al 21%.

    Questo spiega chiaramente che la responsabilità del recesso dell’ Italia non può essere attribuita all’ Euro a meno ché non si voglia affermare che l’ Euro ce l’ ha con l’ Italia e questa è una sciocchezza.

    Da fonti Confcommercio, si apprende che negli anni della crisi i consumi per residente, in Italia, sono diminuiti tra il 2008 e il 2012 di un tasso medio annuo dell’1,5%, a cui si è aggiunta una contrazione del 3,9% nel 2013 e dello 0,6% nel 2014 (complessivamente la riduzione è stata dell’11,2%).

    Sempre da fonti Confcommercio si rileva una significativa contrazione dei consumi alimentari e di altri segmenti come il tempo libero, viaggi e vacanze, soprattutto dopo la cura di cavallo del Governo Monti, che in un anno ha sottratto ai consumi qualcosa come 40 miliardi di euro. Nel 2013, infatti, si è verificato un crollo della domanda interna del 6,2%, con conseguenze occupazionali drammatiche, se si considera che la disoccupazione è salita dal 9% al 14%.

    Questi dati sono peraltro sintomatici di mutamenti negli stili di vita dei consumatori che determinano una resistenza alla ripresa dei consumi anche quando dovessero migliorare le cose.

    La politica di contenimento della spesa pubblica non ha avuto grande successo anche perché, quando ci sono le crisi economiche è la spesa pubblica che interviene per favorire la ripresa e soccorrere i cittadini in difficoltà attraverso una politica espansiva, così come la storia ormai ci ha insegnato.

    La propensione al consumo, che rappresenta la percentuale di reddito che un consumatore è disposto ad utilizzare per i consumi, è un indice molto importante perché, all’aumentare di questa, corrisponde un aumento della ricchezza: la maggiore domanda di consumi genera, infatti, una maggiore produzione di beni e servizi e, di conseguenza, un aumento della ricchezza.

    La risposta degli italiani alla grande recessione mondiale, iniziata nel 2007 negli Stati Uniti d'America, a seguito di una crisi del mercato immobiliare, manifestatasi con lo scoppio della bolla immobiliare, è stata improntata ad una grande prudenza nell’ affrontare il futuro, tirando i remi in barca: taglio dei costi di produzione e riduzione dei consumi da parte dei cittadini. Il danno economico prodotto dalla crisi è stato quantificato pari a sei volte il pil mondiale.

    Dall’ introduzione dell’ Euro, fino al 2008, a livello mondiale, c’è stato un forte incremento dei prezzi delle materie prime (a partire dal petrolio e dal prezzo del grano); una crisi alimentare mondiale e la minaccia di una recessione in tutto il mondo ed una crisi creditizia (a seguito del crollo dei valori patrimoniali delle banche) con conseguente crollo di fiducia dei mercati borsistici.

    I danni irreparabili che ha subito il mercato immobiliare è ricaduto sulla stabilità delle banche che si sono trovate nella impossibilità di recuperare i crediti in un settore, quello immobiliare, in cui bastava avere la proprietà del terreno e un progetto approvato, per ottenere il finanziamento per la realizzazione dell’ immobile. Le banche italiane si sono trovate esposte per centinaia di miliardi di euro senza avere alcuna prospettiva di un rientro, se pur parziale del credito, perché l’ attivazione delle procedure fallimentari avrebbero solo aggravato la già difficile situazione delle aziende debitrici senza trarne vantaggio.

    I rimedi proposti da Keynes per superare le crisi cicliche dei mercati in un sistema capitalistico non sono stati praticati a causa dei vincoli posti dalla Comunità Europea a quei paesi come l’ Italia che erano fortemente indebitati e che godevano della protezione fornita dalle economie più forti, che con il loro Pil davano stabilità e forza al valore dell’ Euro.

    Keynes, infatti riteneva superabili le crisi cicliche dei mercati attraverso un attivo intervento pubblico, diretto a espandere la spesa globale e quindi la domanda, mediante consistenti investimenti pubblici.

    Qual é il ragionamento keynesiano?

    Gli investimenti sono inversamente proporzionali al tasso d’interesse.

    Il risparmio non dipende dal saggio d’interesse, bensì dal reddito.

    Quando il risparmio desiderato è più alto degli investimenti, il reddito si riduce.

    Nell’impossibilità di veder ridurre il saggio d’interesse ad un livello utile per gli investimenti, è necessario ricorrere agli investimenti pubblici.

    Purtroppo, l’ eccessivo rigore di un’ Europa che non ha saputo dimostrare di essere una vera Comunità, non ha consentito all’ Italia e agli altri paesi in difficoltà di espandere la spesa pubblica, creando un contenzioso continuo e snervante fra Commissione Europea e i Governi dei paesi in difficoltà, che ha finito per determinare un grave danno di immagine dell’ Europa agli occhi dei cittadini che oggi la vivono come un ostacolo allo sviluppo piuttosto che un’ opportunità.

    Un discredito morale che ha dato spazio a numerosi partiti, che hanno sfruttato questo malcontento per ragioni elettorali e che ha fatto dell’ Europa il capro espiatorio, alla quale viene attribuita la responsabilità della mancata crescita dell’ Italia.

    Nonostante si sia investito molto nelle infrastrutture l’ Italia, non solo non è cresciuta, ma è persino regredita.

    Da alcuni anni l’Italia investe quasi il 20 per cento del proprio Pil in impianti e attrezzature, si tratta di una percentuale superiore a quella della Germania, ma nonostante gli sforzi, la crescita del Pil italiano negli ultimi 10 anni è stato deludente.

    Che cosa significa? Significa che l’efficienza degli investimenti è stata estremamente scarsa. Negli ultimi 20 anni l’ economia italiana, a fronte di un incremento del capitale netto intorno al 20%, ha registrato un incremento del pil solo del 5%.

    In Germania, invece, l’ incremento degli investimenti è stato di molto inferiore a quanto investito dall’ Italia, vale a dire 7 punti percentuali in meno, mentre il Pil è salito dell’ 8%.

    Quindi non sempre accade che a fronte di investimenti maggiori automaticamente si realizzi un incremento proporzionale del Pil perché quello che va considerata è l’ efficienza dell’ investimento.

    Se si considera che il Pil italiano è formato per il 60% circa dai consumi e

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