Il Viatico di Antonia
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Il Viatico di Antonia - Alberto Danieli
Epilogo
Nota introduttiva
Se il Paradiso è uno stato della coscienza, Antonia ritrova il Paradiso dentro se stessa nei giorni del viatico, quel breve intervallo temporale che la prepara alla fine della sua breve esistenza.
Alla sua anima, uno spettro di luce impercettibile, liberata provvisoriamente dal corpo malato, è concesso un viaggio a ritroso in un passato ricco di incontri, di ricordi, di emozioni in una Vicenza degli anni Trenta, sospesa tra sogno e realtà. La accompagnano due stravaganti figure celesti: Victor, un maturo e disincantato bohemien e Orfeo, un musicista girovago.
Entrambi ricordano, alla lontana, alcuni personaggi di M. Bulgakov ne Il maestro e Margherita
.
Il racconto che segue, nei suoi limiti e nella sua modestia, vuole restituire alcune atmosfere e suggestioni di quel romanzo, in un contesto narrativo diverso.
A. D
Prologo
Vicenza. Un autunno degli anni trenta. Borgo di S. Lucia
Antonia era consapevole da tempo di essere malata di cuore. Si sentiva sempre più debole, al punto da vedersi costretta ad abbandonare l’insegnamento in una scuola elementare di campagna.
Ai bambini che le si stringevano attorno e alle colleghe che le auguravano di rimettersi in salute, rispose che sarebbe tornata presto, anche se sapeva che non li avrebbe rivisti più.
Morì l’ultimo giovedi dell’ottobre del 1937.
Fu Giuditta, la sua vicina del piano di sopra, a trovarla senza vita. Chi, in quella circostanza, ebbe modo di entrare nella sua casa, notò qualcosa di strano. Il numero di libri, gli album da disegno con i suoi lavori disposti in ordine cronologico, un grammofono e numerosi dischi, una tela che raffigurava il tempietto neoclassico a parco Querini e un ritratto maschile, incompiuto. E pennelli, matite, fogli di schizzi e di annotazioni: sembrava l’atelier di un’artista più che l’appartamento di una donna riservata, solitaria, per alcuni insignificante.
Ma la cosa più singolare, inspiegabile, era il garofano che stringeva al petto, che avvolgeva la stanza in una flagranza delicata, un fiore in grado di allontanare la presenza della morte. Le donne di S. Lucia la vegliarono, pregarono per lei e recitarono il rosario.
La sua scomparsa fu accompagnata dalla pena e dalla compassione della gente, per essere poi, inevitabilmente, dimenticata.
Nessuno poteva immaginare che nei suoi ultimi giorni, nel corso del viatico, Antonia visse nei segreti della meraviglia.
Sotto il segno della luna
Olmo Tolentini fu l’ultima persona a vederla. Olmo era l’oste di S. Lucia, soprannominato il sindaco
per l’autorevolezza che gli veniva riconosciuta. Amava Antonia come fosse la sorella più giovane, la conosceva da bambina ed era amico dei genitori, entrambi scomparsi prematuramente. Era quasi notte ed aveva appena abbassato le serrande dell’osteria Al trombone
, che gestiva con la moglie e le figlie in età da marito, quando si accorse di lei.
Allibito, la chiamò senza che lei si voltasse. Cercò di raggiungerla, ma la sua mole imponente gli impediva di correre. Dove andava sola, a quell’ora, diretta verso le vecchie mura che segnavano il limite del centro abitato?
Quando arrivò alla Porta veneziana, Antonia sembrava essersi volatilizzata. Oltre la Porta, all’infuori del seminario ottocentesco, si estendevano campi incolti e stradine sterrate che non portavano da nessuna parte.
Olmo non aveva chiuso occhio, era turbato da quella visione, era convinto di avere visto un fantasma. All’indomani, prima di aprire il locale, la chiamò da sotto casa, più volte, con il suo vocione stentoreo che in pochi minuti svegliò mezzo quartiere, senza ottenere risposta. Aveva un brutto presentimento, era convinto che la donna fosse in pericolo. Le finestre erano aperte e la tenda del balcone si muoveva con il vento del primo mattino. Era sul punto si salire quando una musica proveniente dall’appartamento lo fermò: era una melodia allegra, come quelle suonate nei circhi o nelle feste paesane. Almeno era in casa, pensò rassicurato. Si sbagliava, l’amica se ne era andata e non sarebbe tornata.
Antonia si era dileguata nel buio notturno, camminando come una sonnambula, sotto il segno della luna. Non sapeva chi, ma sapeva che qualcuno la stava aspettando. Da lontano vide alcune luci. Il quadro si fece via via più nitido. Sotto una quercia secolare, l’unico albero in quel deserto di periferia, un uomo suonava la fisarmonica e quando la vide, le diede il benvenuto, invitandola a dirigersi verso un tendone da circo.
L’emozione provata in quel momento fu molto forte. Si trattava del primo circo che aveva visto da bambina, accompagnata dai genitori, in una sera di primavera al Campo Marzio, nei pressi della stazione ferroviaria. Sul tendone logoro era disegnata la stessa sirena che sovrastava la scrittaLa corte dei miracoli
e davanti all’ingresso sostava l’uomo che vendeva i biglietti con lo stesso frack sdrucito e con lo stesso sguardo spento da bevitore. Il baracchino che vendeva frittelle, focacce e zucchero filato si trovava nell’identico punto, illuminato da lampadine appese ad un filo. Non sembrava uno spettacolo in grado di offrire particolari attrattive, ma la sua eccitazione era indescrivibile. E tutto quello che vide le parve unico, straordinario. Le tornò alla mente ogni minimo particolare.
Due leoni spellacchiati, un elefante sonnacchioso che non voleva saperne di camminare, alcuni pagliacci che non facevano ridere nessuno, ma che lei trovava di una comicità irresistibile, una contorsionista con i capelli rossi e con lo sguardo seduttivo di una fata, un prestigiatore e i suoi giochetti dozzinali che l’affascinava come un mago dotato di poteri arcani e i funamboli che, negli anni a venire avrebbe disegnato con mille colori e in mille posizioni diverse. E infine la musica, quella musica bella e sgangherata che l’avrebbe accompagnata per la vita.
Ma all’improvviso fu colta dalla paura di svegliarsi sola e malata nel suo letto.
Non accadrà niente di tutto questo, madame
A parlare era un uomo che l’aveva seguita senza che lei se ne accorgesse: alto, brizzolato, e la barba di qualche giorno. Vestiva un elegante gessato scuro, con una sciarpa di seta al collo e un garofano all’occhiello della giacca.
Permettete che mi presenti, mi chiamo Victor, come Victor Hugo, lo scrittore che tanto amate. Sarei stato assegnato a voi. Per esservi da guida
.
Temo di non capire, signore
Come è normale che sia. Ma vi propongo di rinviare ogni chiarimento del caso a domani. Possiamo prenderci tutto il tempo. Cosa ne dite di entrare? Lo spettacolo sta per avere inizio e voi siete l’ospite d’onore. Abbiate la cortesia di seguirmi
.
Passarono tra mimi, acrobati sui trampoli e sputafuoco che si tenevano in esercizio. All’interno, la Corte dei miracoli non era quella dei suoi ricordi, ma un vero e proprio teatro con tanto di galleria, platea e loggione, del tutto simile al Verdi in cui aveva assistito a concerti e commedie. Una maschera li accompagnò al palco centrale, il migliore punto di osservazione sulla pista nella quale di lì a poco si sarebbero esibiti gli artisti. L’orchestra cominciò a suonare.
E quelle note dissolsero in Antonia ogni timore. Il circo rimaneva per