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La Bibbia del Diavolo: La genesi
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Ebook777 pages7 hours

La Bibbia del Diavolo: La genesi

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Boemia (attuale Repubblica Ceca), anno del Signore 1229 circa: nel piccolo monastero benedettino di Podlàžice Herman, un monaco condannato a essere murato vivo nella propria cella a causa della sua empia condotta, per salvarsi la vita chiede di essere sottoposto a un singolare Giudizio di Dio nel corso del quale tenterà di realizzare il più grande codice miniato che mai sia stato prodotto. Egli, inconsapevolmente suggestionato dal demonio, è convinto di poter raggiungere il suo obiettivo nello spazio di ventiquattro ore. Ma quando, nonostante le preghiere di aiuto rivolte a Dio, si rende conto che l’Onnipotente non arriverà in suo soccorso, si lascia indurre a invocare Satana in persona, a cui cede l’anima in cambio dell’opera compiuta. Nasce, così, il Codex Gigas, meglio conosciuto come la Bibbia del diavolo. Ma subito dopo Herman, pentito per quanto ha fatto e inorridito da ciò che gli è stato dato di scoprire intorno a quel testo, il quale nasconde tra le sue pagine una terrificante minaccia per l’umanità, invoca il perdono della Vergine e, ottenutolo, muore in pace; non senza avere, prima, fatto in modo che il libro maledetto perda gran parte del suo malefico potere. Ancora oggi la Bibbia del diavolo (così chiamata per via di un'immagine di Satana che riempie un'intera pagina) da molti è considerata un’opera apportatrice di lutti e sciagure, e tante sono le inquietanti storie nate attorno a essa. Si dice, ad esempio, chetutti coloro i quali ne sono venuti in possesso siano finiti in disgrazia.
Il presente romanzo, accogliendo la suggestiva tradizione secondo cui la Bibbia del diavolo sarebbe stata ispirata dalMaligno, ha ripercorso in chiave horror le tappe attraverso le quali il monaco noto con il nome Herman Inclusus (Erman il recluso?) avrebbe creato il manoscritto più grande della cristianità: 92 centimetri di altezza, 50 di larghezza, 22 di spessore e 75 chili di peso, per un totale di 312 pagine (originariamente esse erano 320, ma 8 sono state misteriosamente rimosse. Cosa contenevano?). Gli esperti hanno calcolato che per la sua realizzazione sono occorsi non meno di 20 anni e circa 160 pelli d'asino. Oggi il manoscritto è custodito a Stoccolma, nella Biblioteca Nazionale di Svezia.
LanguageEnglish
Release dateApr 17, 2018
ISBN9788828306559
La Bibbia del Diavolo: La genesi

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    La Bibbia del Diavolo - Gabriele Falco

    casuale.

     INDICE

    Prefazione

    Capitolo I  

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo  VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

     Prefazione

    La Bibbia del Diavolo, nota anche con il nome di Codex Gigas, Codex Giganteus e Gigas Librorum (= Libro gigante), è un enorme manoscritto medievale attualmente conservato nella Biblioteca Nazionale di Stoccolma, in Svezia. 

    Tale opera, per secoli considerata l’ottava meraviglia del mondo, fu realizzata nel piccolo monastero benedettino di Podlàžice, in Boemia (attuale Repubblica Ceca), nel primo trentennio del XIII secolo.

    Si ritiene che per la sua creazione siano stati necessari dai 20 ai 30 anni di lavoro e non meno di 160 pelli d’asino. Le sue dimensioni sono ragguardevoli: 92 centimetri di altezza, 50 di larghezza e 22 di spessore, che si traducono in un peso di 75 chili.

    Il nome Bibbia del Diavolo è dovuto al fatto che una sua pagina, la numero 290, per l’esattezza, contiene un’inquietante immagine di Satana a figura intera. 

    Il libro gode fama di essere maledetto perché, secondo la leggenda, esso sarebbe stato scritto con l’ausilio del demonio. Pare che un monaco, noto come Herman il Recluso (Hermanus Inclusus), fosse stato condannato a essere murato vivo nella propria cella per aver infranto i voti monastici o comunque per essersi macchiato di una grave colpa. Ma prima che la sentenza venisse eseguita egli implorò la grazia, promettendo che in cambio della vita avrebbe realizzato nel corso della notte il libro più grande e meraviglioso che fosse mai stato scritto, dando così lustro al monastero che lo avrebbe posseduto.

    I suoi confratelli, seppur scettici, acconsentirono e così egli si mise subito all’opera. Ma venuta la mezzanotte, rendendosi conto che non l’avrebbe mai potuta ultimare, e che quindi il giorno dopo sarebbe stato murato vivo, Herman invocò l’aiuto del demonio, che come compenso gli chiese l’anima. Il monaco acconsentì e in un istante il codice fu pronto. Tuttavia all’interno di esso il diavolo inserì la propria immagine, che occupa un foglio intero. In certo qual modo essa costituiva la sua firma, come a voler rimarcare che quelle pagine erano intrise di Male. Quest'ultimo non avrebbe mancato di far sentire il suo influsso in chiunque si fosse accostato a un simile testo.

    Preso da rimorsi e profondo pentimento, Herman chiese sinceramente e con grande fervore perdono alla Vergine e alla fine ottenne di essere liberato dal suo scellerato patto, morendo un istante prima che il demonio arrivasse per portargli via l’anima.

    Secondo molti, l’essenza malvagia del codice ha avuto occasione di manifestarsi a più riprese, visto che chiunque ne è venuto in possesso ha sofferto lutti e sventure. Infatti di lì a pochi anni il monastero di Podlàžice, per non cadere in rovina, dovette venderlo a quello di Sedlec. In tale città, poco tempo dopo, una grave epidemia di peste bubbonica causò la morte di numerosi monaci e di migliaia di persone; di cui è possibile vedere i resti nell’attuale Ossario di Sedlec, un impressionante monumento costituito da ossa umane. In seguito il Codex Gigas entrò a far parte della raccolta dell’imperatore Rodolfo II d'Asburgo, appassionato bibliofilo e studioso dell’occulto, che finì in rovina e perse il trono. A conclusione della Guerra dei Trent’anni (1618-1648), infine, il singolare testo fu requisito come bottino di guerra dall’esercito svedese e inviato a Stoccolma. Sembra che a esso si sia interessata anche la regina Cristina I di Svezia, che nel 1655 abdicò e si trasferì a Roma, rinunciando a portarlo con sé. Nella primavera del 1697 un incendio devastò il Castello e la Biblioteca reali e il codice, per essere salvato, dovette essere scaraventato attraverso una finestra. Nel 1858 un custode rimasto chiuso all’interno della Biblioteca Nazionale Svedese tutta la notte narrò terrorizzato, al mattino, di aver visto l’enorme libro spostarsi e fluttuare nell’aria. In seguito perse la ragione e venne internato in un manicomio. Nel 1870, a quanto venne riferito da un testimone, dalla Bibbia del Diavolo fuoruscirono delle fiammelle sulfuree che permisero la sua lettura in piena notte.

    E i misteri non finiscono qui. Infatti la grafia dell'amanuense, non mostrando alcun tipo di alterazione dall'inizio alla fine, in passato ha spinto a ritenere che il Codex Gigas sia stato portato a compimento nello spazio di poco tempo, invece che negli almeno vent'anni che sarebbero stati necessari a un solo copista. Risulta, inoltre, che dal libro siano state asportate otto pagine. Cosa contenevano? Qualcuno ha ipotizzato che in esse fosse riportata la Regola del monastero di Podlàžice, ma non manca chi pensa che su questi fogli potesse essere scritto qualcosa di estremamente inquietante e pericoloso per l'umanità intera. Forse delle potenti formule di magia nera atte a evocare e scatenare le oscure forze del Male? 

    Il presente romanzo, partendo da un simile angosciante interrogativo, tenta di dare una risposta in chiave horror al mistero delle pagine sparite, ricostruendo le tappe e gli stati d’animo attraverso cui l’autore della Bibbia del Diavolo sarebbe potuto passare.

    Pordenone, Marzo 2018

    L’autore

     MUNDUS TOTUS  IN MALIGNO POSITUS EST. 

    (Tutto il mondo giace nel potere del Maligno)

     1 Gv. 5,19

    I

    <

    Possa l’Onnipotente Signore del Cielo e della Terra sostenerlo e guidarlo in tale lunga e gravosa prova a cui è stato chiamato per la salute della sua anima e il decoro del nostro monastero. Amen>>. 

    Le parole finali del lungo discorso tenuto dall’Abate dei Cistercensi di Sedlec si abbatterono su Herman come una mazzata, rimbombando cupamente nell’ampia sala capitolare in cui, per l’occasione, erano stati riuniti tutti i religiosi dell’abbazia. Egli mostrava sul viso e nelle membra che si intravedevano attraverso gli strappi del grezzo sacco postogli addosso a mo’ di saio i segni delle torture che aveva subito. 

    Il boia di Chrudium nulla aveva tralasciato affinché Herman confessasse la sua ignominiosa colpa e potesse, quindi, essere condannato alla forca e al successivo squartamento. Ma fortunatamente per lui, prima che venisse istruito il processo, nel corso del quale l’identità dell’imputato sarebbe inevitabilmente divenuta di pubblico dominio, era intervenuto l’Abate. Egli, tempestivamente informato da alcuni monaci che si trovavano a Chrudium al momento del suo arresto, era partito in tutta fretta da Sedlec con l’intento di convincere le autorità cittadine a tenere segreto l’accaduto e a consegnargli il reprobo, affinché ricevesse il giusto castigo dal superiore dell’Ordine a cui apparteneva. 

    Il sant’uomo era stato spinto a un tale passo dalla necessità di non intaccare il prestigio del monastero con un’esecuzione che, per quanto esemplare, avrebbe inevitabilmente portato discredito e disdoro sull’intera comunità religiosa da lui guidata. Un conto, infatti, sarebbe stato mandare a morte una persona comune, un altro uno dei suoi monaci. Per il resto, non v’era dubbio che chi aveva peccato in maniera così esecranda dovesse essere severamente punito; ovviamente nella maniera più discreta possibile.    

    Lasciandolo giudicare e condannare pubblicamente sarebbe stato come ammettere che anche un esponente dell’Ordine Cistercense, come tutti i mortali, poteva essere irretito e posseduto dal Maligno, contrariamente a quanto egli aveva sempre sostenuto al cospetto degli abitanti dei villaggi e delle campagne del circondario; i quali quindi, profondamente convinti della santità e dell’incorruttibilità dei monaci di Sedlec, si dimostravano obbedienti, remissivi e servizievoli verso di essi. Il cenobio avrebbe potuto subire un danno alla sua immagine. Senza contare, poi, il pericolo rappresentato dai feudatari limitrofi; a cui, con la scusa di combattere il demonio e i suoi accòliti, non sarebbe parso vero di promuovere una spedizione armata tramite cui devastare e distruggere il convento e impossessarsi dei suoi beni. 

    C’era già stato, in passato, qualche avido nobile che aveva tentato di agire in tal senso adducendo i più assurdi pretesti o costruendo addirittura false prove d’accusa da presentare al Vescovo. Ma grazie all’Onnipotente le loro trame erano miseramente fallite. Ciò però non voleva dire che certi appetiti, tra i feudatari della zona, si fossero sopiti. Per questo il saggio Abate, approfittando di un singolare lascito fatto al convento da un grande feudatario di Strakonice, aveva deciso di non lasciar trapelare nulla dello scandalo avvenuto nella sua comunità e di presentare al mondo esterno Herman come un sant’uomo il quale, vittima di continui assalti e tentazioni da parte del demonio, era riuscito a respingere ogni suo tentativo di conquistarlo alla propria malvagia causa lottando strenuamente contro di lui che, per vendicarsi, lo aveva malamente percosso e ferito nel corpo, promettendo che sarebbe tornato a tentarlo; e aggiungendo che, se avesse opposto nuovamente resistenza, avrebbe portato sventura e morte tra i suoi confratelli e la popolazione stanziata tutt’intorno al convento. In tal modo il suo allontanamento dalla comunità religiosa di Sedlec veniva presentato all’esterno come un provvedimento atto a scongiurare il pericolo di una futura azione demoniaca in quei luoghi e come un’ulteriore occasione, per il giovane monaco, di sconfiggere il Male valendosi dell’esperienza dell’ascesi, la quale più di ogni altra avvicina l’uomo a Dio e lo fortifica nei confronti dell’irriducibile Nemico del Creato. Nel chiuso dell’abbazia, invece, vennero presi ben altri provvedimenti, dopo aver imposto a ogni monaco, novizio e converso, l’obbedienza al precetto del più assoluto silenzio sull’intera vicenda.

    Il nobile di Strakonice, desideroso di acquisire meriti agli occhi del  Signore, una volta che la propria anima fosse comparsa al Suo cospetto, in punto di morte raccomandò al figlio maggiore di far avere al monastero di Sedlec un oggetto che a suo dire avrebbe potuto essere considerato l’ottava meraviglia del mondo, tanto era straordinario e unico, nel suo genere: un gigantesco codice lungo tre piedi, largo un piede e mezzo abbondante, spesso più di mezzo e pesante centosessantacinque libbre!

    Egli ne era venuto in possesso qualche anno prima, in occasione della Quinta Crociata, che lo aveva visto al seguito dell’esercito organizzato e guidato dal duca austriaco Leopoldo VI d'Asburgo e da re Andrea II d’Ungheria. Quando quest’ultimo, nell’anno del Signore 1217, a seguito di un’infruttuosa battaglia combattuta nei pressi del Giordano e di vari assalti con analoghi risultati intraprese, nel gennaio del seguente anno, il viaggio di ritorno in patria, egli lo aveva seguito. Ma durante il tragitto, in un angusto passo nei pressi di Antiochia, la loro retroguardia, di cui egli faceva parte, venne assalita e trucidata da una nutrita banda di predoni. 

    Molto più tardi, quando sul posto sopraggiunsero alcuni cavalieri colà inviati dal re per ordinare a quegli uomini, cui aveva dato l’incarico di proteggere le spalle dell’esercito fino a che esso non si fosse portato completamente fuori da quel territorio insidioso, di affrettarsi a raggiungere i commilitoni, non poterono far altro che dare una degna e pia sepoltura ai corpi massacrati dei loro compagni d’arme. E fu nell’espletamento di tale doloroso compito che rinvennero, sotto un cumulo di cadaveri, il signore di Strakonice e il suo scudiero ancora vivi. Essi, gravemente feriti, avevano perso i sensi e, creduti morti da quegli assassini, che li avevano spogliati perfino degli indumenti indossati sotto  l’armatura, erano stati semisepolti dai corpi senza vita dei compagni brutalmente gettati su di loro a mano a mano che venivano depredati.

    In tali condizioni i due non avrebbero potuto proseguire il cammino, perciò furono affidati alle cure dei religiosi di un singolare monastero posto nelle vicinanze. Qui essi trascorsero oltre cinque mesi, prima di potersi dirigere a Costantinopoli, da cui sarebbero finalmente riusciti a partire alla volta della propria terra.

    Quando tornarono a Strakonice, però, il signore e il suo compagno di  viaggio portarono con sé, avvolto in rozzi stracci e caricato sul dorso di un mulo, uno straordinario e prezioso ricordo della loro avventura in Terra Santa: il libro più grande che mai fosse stato realizzato da mano d’uomo.

    Nel periodo finale della loro convalescenza all’interno del monastero presso Antiochia, i due avevano potuto ammirare, in un laboratorio attiguo allo scriptorium, quella meraviglia da poco portata a termine da religiosi specializzati nell’arte di produrre codici. Per crearlo essi avevano impiegato oltre centosessanta pelli d’asino. E come copertina avevano usato due pannelli di legno che poi erano stati rivestiti con pelle di vitello e ornamenti metallici. Sarebbe stato desiderio dei monaci consegnare alla cristianità un’opera contenente le lodi del Signore Iddìo, della Chiesa cattolica, dei suoi martiri e rappresentanti e di quanti ne avevano intrapreso la difesa dalla sua fondazione ai giorni presenti, perciò tra qualche giorno i fogli ancora liberi di quello che avrebbe costituito un così straordinario libro sarebbero stati affidati alle mani degli amanuensi, dei miniatori, degli illustratori e dei rilegatori più valenti dello scriptorium, perché dessero il via alla trascrizione, all’illustrazione, alla miniatura e alla cucitura di quelle gigantesche pagine.    

    All’occhio avido del signore era apparso subito evidente l’immenso valore di un simile manufatto, che da quel momento cominciò a occupare il centro dei suoi pensieri. Egli, oltremodo deciso a non tornare al suo palazzo a mani vuote da quell’avventura in Terra Santa (alla quale, d’altronde, aveva preso parte proprio per il desiderio di fare un ricco bottino e non certo perché infiammato dai nobili ideali predicati dall’ispirato e seguitissimo Oliviero da Paderborn), fu arso da una tale bramosia di possedere quella straordinaria opera, che non ebbe più pace fino a quando non riuscì a impadronirsene. Così pianificò nei minimi dettagli il furto del librone e la fuga da quel luogo. 

    Egli e il suo scudiero decisero di anticipare di due giorni la loro partenza, per cogliere di sorpresa i monaci. Il giorno convenuto, all’approssimarsi dell’alba, mentre tutti i religiosi si recavano nella cappella, per cantare le Lodi e celebrare la Messa, loro due si infilarono di soppiatto nel laboratorio, ne asportarono il pesante volume e, direttisi alle stalle, lo legarono in fretta e furia sulla groppa di un mulo, montarono sui due cavalli lasciatigli dai compagni in occasione del ricovero nel monastero e si diressero cautamente verso il portone d’ingresso, in quel momento incustodito, badando ad assicurare la cavezza del mulo alla sella del cavallo condotto dallo scudiero. Quindi aprirono un battente e, una volta fuori, lo richiusero alle loro spalle, affinché la loro fuga fosse scoperta il più tardi possibile, e continuarono a mantenere la stessa andatura fino a quando non furono a una distanza tale che il rumore degli zoccoli delle loro cavalcature lanciate ormai al galoppo non potesse essere più udito dai monaci. 

    In poco tempo arrivarono a Selèucia e qui restarono nascosti fino a che non riuscirono a imbarcarsi su una galea veneziana diretta a Costantinopoli, da dove proseguirono per la Boemia via terra, passando attraverso il Regno bulgaro. Non fu loro difficile farsi prendere a bordo, dacché si qualificarono come reduci di quelle armate crociate ungheresi e austriache che proprio i Veneziani avevano trasportato sulle loro navi alla volta di Acri il 1º giugno 1217.

    Il prezioso cimelio quel signore lo tenne gelosamente nascosto anche ai propri familiari, contando di trasformarlo in una miniera d’oro. A tale scopo, aveva imposto il più assoluto silenzio allo scudiero, minacciandolo di morte, se si fosse lasciato sfuggire una sola parola riguardo a ciò che aveva visto e sentito nel corso della loro avventura. Tuttavia non ebbe modo di godere a lungo del frutto dell’empia rapina, poiché di lì a poco sia lui sia lo scudiero furono colti da una grave infermità, contratta probabilmente nei malsani territori attraversati durante il ritorno, che nel volgere di alcune settimane li condusse alla tomba.

    Nei suoi ultimi giorni terreni, terrorizzato da inquietanti sogni che lo perseguitavano con orrende visioni dell’al di là, su consiglio del sacerdote che lo confessò e gli amministrò i sacramenti di rito, assistendolo sino alla fine, decise di lasciare quell’opera incompiuta della quale si era impossessato senza scrupoli all’abbazia cistercense di Sedlec, i cui monaci, tra i quali non mancavano esperti amanuensi e valenti miniatori e rilegatori, si sarebbero senz’altro occupati di portarla a termine a lode e gloria dell’Onnipotente e in suffragio della sua anima.

    Si trattava, a quel punto, di scegliere i testi sacri ed edificanti da trascrivere su quelle enormi pagine, ma fino al giorno in cui l’Abate  non si trovò suo malgrado a infliggere a Herman il castigo che meritava, quel gigantesco libro, che ormai in convento tutti chiamavano Codex Gigas o Gigas Librorum, era rimasto -ancora chiuso- sopra un robusto tavolo dello scriptorium appositamente costruito, in attesa che si decidesse quali opere particolarmente meritevoli e significative riprodurvi.

    L’Abate, che dopo lunghe trattative con i maggiorenti di Chrudium era riuscito a ricondurre Herman con sé, aveva preso accordi con quello del piccolo monastero benedettino di Podlàžice, situato a circa ventotto miglia a ovest di Sedlec, alla fine sentenziò che Herman, apprezzato scriba e miniatore, per espiare la sua empia colpa avrebbe dovuto provvedere a scrivere su tale codice le opere di cui gli avrebbe fatto avere l'elenco. Le opere in questione, come egli si era sincerato, erano tutte contenute nello scriptorium dell’abbazia e di volta in volta sarebbero state fatte recapitare al penitente recluso.

    Quest’ultimo, con i piedi legati da una catena della lunghezza sufficiente a fargli compiere brevi passi e accompagnato da due confratelli venuti dal monastero di  Podlàžice a dorso d'asino, si sarebbe dovuto recare a piedi fino alla sua destinazione aggiogato a un carretto che avrebbe dovuto trascinarsi dietro per tutto il tragitto. Su di esso sarebbe stata caricata la cassa contenente il prezioso, enorme e pesante libro che avrebbe costituito il suo strumento di espiazione. Durante tutto il tempo occorrente a coprire la distanza da Sedlec a Podlàžice il penitente non avrebbe trascurato di recitare le Lodi all’alba, i Vespri al tramonto e la Compieta prima di coricarsi sulla nuda terra.

    Herman, ascoltata la severa sentenza, dichiarò -in ginocchio, a capo chino e con le mani poste in croce sul petto- che si sarebbe accinto di buon grado e con animo contrito a eseguire quanto gli veniva ordinato e, alle prime luci dell'alba del giorno seguente si mise in cammino verso il luogo di espiazione.

    Il viaggio, malagevole, faticoso e insidioso, durò una settimana. Sette giorni di supplizio alla fine dei quali non ci fu parte del corpo di Herman che non risultasse piagata, ferita o tumefatta. Egli era talmente prostrato e debilitato, al suo arrivo nel monastero di Podlàžice, che i primi giorni dovette essere affidato alle assidue e premurose cure di fratello Viligelmo, cerusico ed erborista, e del suo assistente fratello Eriberto.

     II

    Quando fu condotto nella cella che sarebbe stata la sua prigione fino al giorno in cui avrebbe portato a compimento il laborioso compito assegnatogli, Herman, ancora visibilmente provato nel fisico, si sdraiò sul nudo giaciglio che, insieme a un ampio tavolo e a una sedia, costituiva l’arredamento della stanza e cadde in un profondo sonno dal quale non si riscosse che il giorno seguente, allorché alcuni conversi, a cui era stato imposto il più assoluto silenzio nell’attendere al loro compito, entrarono spingendo e trascinando la grande cassa contenente il codice sul quale egli avrebbe dovuto operare e che alla fine sarebbe anche stato tenuto ad assemblare e rilegare. Essi lo collocarono vicino al tavolo e poi, schiodatone il coperchio, ne estrassero l’enorme libro e ve lo poggiarono delicatamente sopra, insieme a un piccolo rotolo di pergamena. Poi, in silenzio com’erano venuti, uscirono e richiusero dietro di sé la pesante porta di quercia facendo scorrere il robusto catenaccio che arrestò la sua corsa producendo un secco e inquietante rumore.

    A poco a poco egli, tiratosi penosamente su e sedendo con le mani appoggiate ai bordi della panca, cominciò a guardarsi intorno e, alla scarsa luce che penetrava da una stretta finestra sbarrata da una doppia grata, poté distinguere le sagome dell’essenziale mobilio che arredava la cella. Con un altro considerevole sforzo riuscì a mettersi in piedi e a raggiungere, traballando, la sedia, alla cui rozza spalliera si appoggiò con entrambe le mani, restando per qualche tempo chino e con gli occhi chiusi, allo scopo di vincere il senso di vertigine che lo aveva preso. Poi, finalmente, riuscì a risollevare il capo e a riaprire gli occhi, che ormai si erano abituati all’atmosfera crepuscolare della stanza, e li fissò sopra il gigantesco codice posato al centro del tavolo. Così ebbe modo di notare la pergamena arrotolata, che prese con mano esitante e portò con sé fino alla finestra, usando la sedia come appoggio, per poterne leggere il contenuto esponendola alla lama di luce radente che penetrava attraverso essa. E quando srotolò il foglio e riuscì a decifrarne la grafia, ebbe un tale sussulto che per poco non stramazzò a terra privo di sensi. 

    Già la vista del colossale libro, che fino ad allora egli non aveva mai avuto occasione di ammirare, dato che il fratello bibliotecario, Sigeberto da  Lorsch, aveva ricevuto dall’Abate l’ordine di tenerlo celato in un remoto sgabuzzino dello scriptorium inaccessibile agli altri confratelli; già la vista del codice lo aveva allarmato non poco. Ma quello che vide scritto nella pergamena lo gettò nel più cupo sconforto, poiché gli fu subito evidente che gli si chiedeva qualcosa che non era paragonabile nemmeno alle famose fatiche cui fu sottoposto il mitico Ercole! Si lasciò cadere, sconsolato, sulla sedia e su di essa rimase con le spalle curve, il capo chino tra le mani e

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