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I Sacramenti della Carne
I Sacramenti della Carne
I Sacramenti della Carne
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I Sacramenti della Carne

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About this ebook

Un romanzo storico del futuro ambientato nell'ultimo quarto del XXI secolo.

Una storia di suspense ambientata nell'anno 2075, il futuro distante eppure vicino, quando la sorveglianza costante del governo e delle società è la procedura standard. La guerra e la “sicurezza” si fanno strada nelle vite della gente. E i livelli lavorativi determinano esattamente se e come vivrai e morirai. In una città luccicante di una Germania molto internazionale, Jeffrey Cooper, una star del design nata in Alabama, ha fatto un patto con il diavolo. Non importa quale sia la sua età, la mega-società che comanda il mondo lo manterrà giovane e bello come una star del cinema. Cooper ha rinunciato al suo passato, alla sua storia, al suo cuore. Questi lo raggiungeranno quando incontrerà un bell'olandese che gli offrirà indietro la sua vera anima – ma ad un prezzo ancora più alto di quello che gli chiede la società.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateJun 17, 2016
ISBN9781507144268
I Sacramenti della Carne
Author

Perry Brass

Poet, novelist, and gay activist, Perry Brass has published 15 books including erotic classics like Mirage, Angel Lust, The Substance of God, and Carnal Sacraments, as well as How to Survive Your Own Gay Life. He’s been a finalist 6 times for Lambda Literary Awards, and won two IPPY Awards from Independent Publisher. As an activist, he joined the Gay Liberation Front in 1969, right after Stonewall, and became an editor of Come Out!, the world’s first gay liberation newspaper. His newest book is The Manly Art of Seduction, How to Meet, Talk To, and Become Intimate with Anyone.

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    I Sacramenti della Carne - Perry Brass

    Capitolo Uno

    ––––––––

    Come avrebbe potuto smettere di pensarci, di ricordarlo? E come avrebbe potuto dimenticare? Il pugno che lo colpì in faccia all'improvviso, l'impatto che lo fece cadere, il naso sanguinante, il rumore come vetro che si spezza nei timpani; e lui solo, confuso e arrabbiato. La folla lo sommerse e si infittì davanti a lui, ignorandolo. I treni dei pendolari filavano su magneti di energia invisibile. Tutto ciò quando lui aveva lavorato per rimanere impassibile, aggrappandosi al nulla, come tutti. C'era solo il lavoro, nelle sue tante forme. Anche non pensare era un lavoro. Iperstressato, con il cervello sovraccarico e il gomito appoggiato al marciapiede, Jeffrey Cooper cercava di persuadere se stesso di essere su un'isola di salvezza immaginaria, anche se la sua mente continuava a inseguire l'idea del lavoro con le sue tabelle bizantine, gli obiettivi, scopi e funzioni.

    «Immagina!», gli aveva suggerito il terapista, «una nebbia tenue fatta del tuo vero io, della pace più profonda, di tutto ciò che tu vorresti essere». La voleva, questa atmosfera fatta dei suo più segreto e calmo io, dove poteva rifugiarsi quando le cose diventavano troppo stressanti, quando tutto si accumulava. Ma per lui era quasi impossibile raggiungerla.

    Lo stress lo divorava.

    Stress al lavoro, stress nella vita privata. Per quanto cercasse di nasconderlo, era troppo sensibile e consapevole. Questo era diventato uno svantaggio con il passare del tempo. Troppa consapevolezza poteva essere fatale, poteva sovraccaricare le complesse connessioni della scheda madre del suo cervello che supervisionava i milioni di altri file e immagini collegate. Jeffrey Cooper, Senior Project Stylist, era una star per quell'era ossessionata fino all'ultimo dall'Immagine e un agile domatore senza sella del pony show accecante che era lo Stile. Critico e consulente del superdesign, archivista ed erede di quei preti intelligenti, curiosi e detentori di sapienza, Cooper, come quasi tutti gli altri, era iperteso e pensava troppo in quell'ultimo quarto del XXI secolo. Un periodo insicuro ma iperstakanovista non toccato dalle regolari rivoluzioni del Ventesimo.

    Ma aveva un problema da affrontare.

    Stava diventando vecchio – davvero – e tutto lo stress del lavoro, così come il bisogno di vivere en luxe in uno degli anelli più alti della scala sociale lo buttava giù. I cartelloni grandi come canyon te lo fanno capire.

    LO STRESS UCCIDE!

    TU E LO STRESS: nessun guadagno per il team. Il sistema. La tua vita

    Guardava le scritte fatte di lampadine rosse, tenui.

    "Sii felice. Dimentica tutto.

    Ricordati che il passato serve solo al presente"

    Ah, il presente. Sì... seducente senza fine, tutto visual, che glorifica un libero, glorioso stile di vita fatto di competizione che offre ogni cosa possibile. SuperExtraLuxe resort e tutto ciò che davano, alcuni resort ancora più esclusivi, muoversi sempre più su, più resort PremiumLuxe, e sempre più gratificanti. C'era qualcosa per tutti a ogni gradino di questo mondo sempre in movimento.

    Stai cadendo a pezzi? A malapena sopravvivi? Resort temporanei come medicina. Stai muovendo i primi passi verso la sempre più veloce Strada per la Ricchezza? Resort di make-up ribelle, e resort giovanili. Hai divorziato di recente? Tuo figlio è un assassino? Lavori sodo ma è tempo di rilassarti? Sei sommerso da resort veloci in cui riprenderti da queste noie personali. E poi certo, quello di cui nessuno parla volentieri: l'Ultimo Resort. La destinazione finale per l'ultimo cambio di lavoro. Tutto in ordine, asettico. Sorvegliato. Con addetti usciti dalle ultime università per le scienze della compassione che ti tengono a distanza, preoccupati. Ti mandano lì quando il tuo breve tempo è finito. E poi non te ne vai più. È l'ultima fermata del lavoratore prima di arrivare al Nirvana, Lassù, o in Paradiso. Ma per gli altri c'era un posto ancora più in alto nella scala sociale, di cui si sussurrava nervosamente mentre si bevevano gli ultimi bicchieri di cocktail. Lì, le pillole magiche aspettavano di dare un colpetto ai cervelli supertassati fino all'ultimo, dove il cugino della Morte, conosciuto come Sospensione, giocava a carte con te, in silenzio. La Sospensione era una promessa ma anche una minaccia. Se il sistema percepiva una minima possibilità che tu avessi qualche valore in futuro, ti faceva stare dentro per qualche tempo. Il futuro era indefinito eppure, per motivi pratici, definito da qualcosa (il lavoro sulla terra, un ultimo riconoscimento del tuo valore...). Nella Sospesione eri tenuto bene, e potevano anche venire a farti visita se i controlli periodici lo consentivano. Era come naftalina, per così dire, dove venivi indotto in un coma senza sogni al posto di quella che era chiamata l'altra cosa. Aveva un certo non so che, ma anche delle controindicazioni. Il sistema, che ti garantiva sempre la scelta, ti offriva l'alternativa alla fine mentre decideva cosa fare con te, senza addii. Solo un sonno immobile. Dormire poteva essere difficile, quindi c'è bisogno di qualcosa di rigenerante mentre sei sveglio. Jeffrey aveva provato a comportarsi come uno senza ansia, come quelli di Hollywood persi nella loro indipendenza, mentre provava a mettersi al di sopra delle minacce della vita reale. In mezzo alla folla era in realtà calmo, pronto a fluttuare in uno di quei resort, uno di quelli pubblicizzati in ogni dove e costruiti a partire dai sogni. C'erano i ragazzi giovani, muscolosi, che facevano windsurf in acque cristalline e poi cenavano au restaurant in cravatta nera, in posti dalla vista mozzafiato, costruiti per la loro bellezza ultraterrena da prodigi del marketing.

    Poi un pugno lo accecò e gli sporcò la faccia di sudore e birra.

    Era rimasto immobile, troppo shoccato per urlare. I suoi occhi si erano splancati, il naso e la testa pulsavano. Il dolore lo attraversò. Barcollando per alzarsi, afferò l'uomo che gli stava di fronte con la faccia quasi incollata alla sua, da tanto era vicino: più vicino di quanto di solito Jeffrey andava a chiunque, ma stava solo reagendo. In shock, si allontanò. Forse stava sognando, fluttuando verso uno di quei resort con uomini snelli in completo o in costume da bagno.

    Poi un altro pugno lo colpì, buttandolo fuori dal suo stesso sogno, di nuovo alla fredda realtà. La faccia dell'uomo si fece più piccola, un pezzo di ghiaccio che arretra, come una cometa che sfreccia.

    Silenzio assoulto. Una parete che attutisce tutto, come una cascata ghiacciata. Gli altri sulla banchina si erano girati dall'altra parte, con le orecchie assordate dalle cuffie. Dal naso di Jeffrey cadevano sangue e muco mentre l'uomo con il sorrisetto si era dileguato tra le sue lacrime calde, e l'aveva calmato come una pugnalata. Un po' di sangue di Jeffrey era finito su quel sorrisetto, che ora si legava alla memoria, come un tabellone a scritte pulsanti. Ma non uno di quelli con modelli perfetti, tovaglie inamidate e acque cristalline. Jeffrey riprese fiato, e una parola gli salì alle labbra:

    «Chi?»

    E perché?

    Ma l'uomo era sparito, trascinato dalla folla che spingeva verso i treni in arrivo o che se ne andava. Jeffrey si era toccato il viso e aveva sentito il dolore partire dai denti e irradiarsi fino al naso, mentre il sangue mischiato al muco intasava quello e i denti. Per un momento si sentì affogare, soffocare, perso. Doveva risalire per prendere aria.

    Lo fece, risalì. Un attacco di rabbia lo prese, un inattesso slancio di ira barbarica con cui aveva poca familiarità. Avrebbe dovuto incollare i suoi due cervelli isieme, anche solo per urlare e fermare l'uomo finché la gente lo ascoltava. Invece era rimasto lì alla deriva, inerme. Aveva provato a calmarsi nel chaos dell'ora di punta. La rabbia lo possedette, con dei grossi anfibi militari tedeschi, strattonandolo come una fosse una bambola di pezza: la rabbia arrivata troppo tardi. La rabbia era disgustosa. Uccideva come lo stress. Doveva controllarla. Ma c'era qualcosa di rinfrescante in questa cosa inattesa che prendeva il controllo. Il nemico era sparito, un'ombra confusa, richiamata alla mente in un secondo di terrore e confusione. Jeffrey dubitava che sarebbe riuscito a riconoscerlo.

    Spinse per entrare nel treno per Tiergarten, mentre provava a ricomporsi cercando un posto vuoto. Nessuno aveva fatto caso a lui. Si asciugò con discrezione il sangue e il muco con dei fazzoletti, grato che nessuno potesse vedere cose era finito sulla sua bella camicia. A Jeffrey piaceva vestirsi bene, scegliere tutto con cura; ma bisognava stare superattenti nell'ora di punta sui treni. Poteva capitare di finire così strattonati dalla folla che i vestiti non riuscivano a rimanere in ordine.

    Provò a riprogrammarsi, a svanire nel treno dove tutti erano impegnati nei loro file o con le loro cose. Alcuni parlavano, sussurrando, a casa, all'ufficio, o a qualcuno da qualche parte nel mondo.

    Ja. Ja. Ja. Nein. Nein. Nein.

    Si poteva trovare l'uffico ovunque. Ovunque era business. Il lavoro era costante e si faceva senza chiedere domande. I tedeschi proclamavano la universalarbeit. Il lavoro universale. Il lavoro era una cosa buona, una cosa che ti faceva sentire bene. Sarai felice e grato. Ti porta in uno di quei resort, inondandoti di gadget. Ma c'era sempre l'alternativa peggiore. Perché senza lavoro non potevi essere nulla. Zero. Senza una posizione sociale. Eri solo un numero negativo che cadeva in basso, fino alla fogna. A volte, nelle viette o nei vicoli, lontano dalle telecamere di sorveglianza, Jeffrey scorgeva i disoccupati, i mezzi matti, che cercavano cibo nella spazzatura, con i vestiti sporchi delle loro feci. Alcuni tentavano di salire sulle banchine dei treni ma venivano visti e rimossi. Forse l'uomo che l'aveva attaccato era uno di loro, solo più agile e abbastanza circospetto da poter passare per normale e arrivare a colpirlo.

    Ma perché colpire Jeffrey Cooper?

    I disoccupati erano una vergona per Jeffrey; il loro degrado e la loro posizione sociale lo imbarazzavano, gli facevano ricordare la sua età, che era vicino agli ottanta. Jeffrey Cooper – affascinante, alla moda, un attore del sistema economico globale, detentore di grandi lavori, supervisore di così tanti – aveva, in realtà, settantotto anni, ma la maggior parte del tempo sembrava averne quaranta in meno: uno dei benefici più segreti della sua vita professionale. Aveva i capelli lucenti, castano mogano, la pelle giovane, liscia, con poche rughe, di un impercettibile colorito accesso. La maggior parte delle volte era forte e agile. Anche i piedi e le mani, rivelatori dei decenni che passano, erano invecchiati pochissimo e avevano solo qualche macchia e qualche vena che si vedeva. Potevano sembrare al massino quelli di un uomo sulla trentina, così come i denti: bianchi, regolari e con le gengive in salute. Riusciva quasi sempre a passare per un uomo molto più giovane, nonostante i giorni in cui il tempo lo stressava troppo, gli dava troppe scadenze, troppe persone da accontentare. Aveva troppo da tenersi dentro e da rilasciare, da solo, al momento giusto. Questo tenersi tutto dentro lo aveva costretto a costruirsi una corazza attorno ai sentimenti. Sembrava giovane ma si capiva che c'era qualcosa di strano, non sembrava vero al 100%, come un manichino molto realistico fatto di un materiale simile alla pelle umana. Grazie a una costosa routine fatta di medicine, dermatologia, cosmetica dentale, terapie regolari e operazioni segrete, Jeffrey aveva esteso la sua vita e giovinezza quasi all'infinito. Ora era vivo e florido all'estremo opposto della Sospensione, anche se era tutto tenuto segreto nel suo dossier, l'ultimo testo sacro tenuto nel più sacro dei file privati, la cui segretezza cresceva con una ripida discesa dello status.

    ––––––––

    Tutto quello che era stato fatto su di lui lo manteneva in grado di produrre ogni giorno, ogni momento, sulla cresta di quella redditizia onda di prestazioni. Era come se il suo corpo fosse sul filo del rasoio della mortalità, e facendolo fosse in grando di allontanare sempre più in là le conseguenze biologiche dell'esistenza umana.

    Tutto sarebbe potuto finire. Ma chi poteva dire quando?

    Una buona parte delle sue cellule e dei suoi organi (inclusi il sistema linfatico, nervoso e digestivo), il suo sangue, i suoi fluidi e i livelli degli ormoni erano impegnati in un constante processo di depurazione, miglioramento e, quando necessario, rimpiazzo. Ma lui non sarebbe stato rimpiazzato; lui aveva valore, e lo sapeva. Non era presuntuoso. La sua posizione non era stata raggiunta grazie all'educazione, anche se non gli mancava; né per qualche talento, seppure ne avesse qualcuno. Veniva da un mix di scaltrezza, resistenza, utilità al sistema, e da quanto bene, per quanto tempo e quanto facilmente fosse stato in grando di rimanerci dentro.

    In breve, Jeffrey Cooper sapeva come brillare per sembrare non rimpiazzabile, senza però diventare arrogante. Era intelligente, si adattava sia alle domande dei suoi superiori che ai desideri e ai problemi di quelli che lavoravano con lui e sotto di lui (centinaia, anche migliaia se teniamo conto degli operai). Come un ingranaggio ben oliato in una ruota di importanza vitale, teneva la sua area di esperienza attraverso un complesso sistema sempre funzionante: quando era arrivato il pugno era diretto all'appuntamento con il suo terapista tedesco Tony, un altro dei suoi tanti benefici.

    Jeffrey vedeva Tony Rosenputter una volta alla settimana nello spazioso appartamento in stile art nouveau di Tony, decorato con putti in terracotta e bassorilievi classici in bronzo. L'edificio aveva resitito a molte guerre contro la Germania e i suoi dintorni, assicurati da generazioni di saggi investimenti ed eredità, osservavano bonariamente il mondo attraverso i loro occhi di vetro rosato. L'affascinante edificio si trovava in una strada tranquilla vicino a un piccolo zoo. I tedeschi amavano gli animali, quindi vivere vicino a uno zoo era spitz klasse. L'elegante Tiergartenstrasse aveva delle esclusive passeggiate e molti balconi interni che davano su corti interne.

    Avvicinandosi all'appartamento di Tony, uno si immagina fantastici prati e foreste invase di nebbia, come quelle che Beethoven avrebbe potuto attraversare,  facendo qualche pausa per buttare giù qualche sonata al pianoforte. Ma Jeffrey, americano originario dell'Alabama, nel profondo Sud, era chiaramente non tedesco - era stato mandato in Germania per stare a capo di un ufficio internazionale di consulenti di design. La globalizzazione aveva fatto diventare il mondo un grande quartiere, dove i vicini potevano andare d'accordo se si comportavano bene, e tutti parlavano un linguaggio identico di Produzione, Media, Marketing e Vendite. I tedeschi di successo parlavano un misto di inglese e tedesco, con un po' di Hindi, arabo e persino mandarino, così come qualche vecchia frase in francese e in italiano per sembrare sofisticati e parte del bel mondo.

    Jeffrey si sentiva a casa in questa specie di quartiere köstlich, consapevole che nessuno potesse essere sofisticato quanto i tedeschi quando ci provavano, o essere rozzo quando loro non lo erano.

    Tony lo fece entrare quando vide la faccia sconvolta di Jeffrey. Gli occhi delle telecamere del sistema di sicurezza lo seguirono fino agli scalini d'ingresso che portavano all'appartamento beige e grigio dove gli unici colori brillanti provenivano dai fiori. A volte, l'antico vaso di cristallo che Tony teneva nella sala d'attesa, che era anche il salotto, era pieno di fiori più esuberanti, rossi o di mela cotogna. L'appartamento di Tony era un ambiente calo, protetto, che ricordava i vecchi cavalieri teutonici e quei passi sull'analisi della psiche; tutto era sorvegliato dallo sguardo del sistema che faceva finta di approvarlo dato che Tony era uno specialista che lavorava per loro attraverso un rigido piano di salute del governo finanziato dalla globalizzazione che Jeffrey Cooper, una delle sue star, alimentava.

    Tony era alla fine dei quarant'anni, aveva una mascella squadrata e ben delineata, ma sembrava avere quasi la vera età di Jeffrey. Come molti tedeschi fumava e, tenendolo sempre nascosto, beveva molto. Indossava una semplice tunica grigia che, nonostante fosse immacolata, lo faceva sembrare come uno che avrebbe dovuto fare il meccanico. Aveva la barba corta e la faccia abbronzata, con i denti grandi. Era stato sposato e con Elsie, la sua ex, aveva avuto una figlia, ora ventiduenne.

    «Come stai?», Tony chiese a Jeffrey, serio, dopo che si erano seduti in un'altra stanza, più accogliente, che era il suo ufficio. «Posso offrirti qualcosa da bere? Té? Ho qualche infuso che potrebbe fare al caso tuo».

    «Acqua, grazie. Oggi un uomo mi ha colpito mentre ero sulla banchina del treno»

    Tony si bloccò con la bottiglia a mezz'aria. «Cosa ha fatto?»

    «Mi ha afferrato e colpito».

    Tony fece una pausa, con la mano a mezz'aria, tenendo il bicchiere di Jeffrey in mano.

    Jeffrey, ancora scosso, spostò lo sguardo altrove.

    «Hai idea del perché?»

    «No».

    Tony finì di versare l'acqua e la porse a Jeffrey. Lui la bevve in un sorso, poi posò il bicchiere.

    «Avevi attirato la sua attenzione, fissandolo? Forse l'hai guardato troppo. La gente non si guarda più. Sai, non è considerato opportuno».

    «Non l'ho guardato»

    «Quindi non riusciresti a identificarlo?»

    «Forse. È successo tutto in fretta. C'era molta gente».

    «C'è sempre molta gente in quel posto, ma non ti giustificherà. Cosa dice la polizia?»

    «Non ho bisogno di loro. Controllerebbero anche me. Non voglio essere stressato da questa situazione. Devo affrontarlo. Si aprirebbe un caso troppo grande e finirei per avere bisogno di un avvocato, e per cosa? È successo tutto così in fretta. Era giovane. Forse era un matto. Sui trent'anni, forse, di aspetto trasandato. Disoccupato».

    Tony incrociò le mani. Anche se si vestiva spesso in modo casual, non gli piacevano gli strassenklassen, come venivano chiamati. Sua moglie faceva la ballerina di danza moderna e anche se avevano divorziato, erano rimasti devoti all'arte insieme, a qualsiasi ambiente artistico e bohemièn; ma erano entrambi freddi di fronte all'odiosa realtà delle classi da strada.

    Tony cercò di capire.

    «È un teppista». Strinse gli occhi. «Forse è persino uno dei nostri piccoli fascisti. Sono dappertutto, come i topi. 'Deutschland für die Deutschen'. Scheisse, è assurdo, ma ci sono. La verità è che c'è così poco Tedesco in Germania ormai. Siamo tutti multicultural. Tutti ballano la loro Danza dei sette Veli con la vera Germania; tutti vogliono sembrare sotto dei veli e sniffare in giro. Neges dall'Africa, asiatici con i soldi. Arabi. Abbiamo più moschee della Mecca. Non è come ai vecchi tempi, quando le strade erano sicure. È tutto cambiato, devi sempre stare all'erta». Scrollò le spalle. «Capisci, Jeffrey?».

    Jeffrey provò a guardare Tony allo stesso modo in cui l'altro lo guardava: faccia a faccia, con intimità, eppure senza essere aggressivo. I tedeschi davano sempre l'impressione che tu dovessi sapere com'erano fatti, perché loro erano la norma e invece tu no. Avresti dovuto capire i loro vezzi, i loro pregiudizi, le loro ferite dal passato che non si erano mai rimarginate. Avresti dovuto capire tutto questo, vista la loro autoproclamata intelligenza e chiarezza.

    Dopotutto, che problema avevi per non riuscire a capire?

    «Non ho pregiudizi», spiegò Tony, prendendo uno dei piccoli contenitori per le saponette. «Ma questa gente non è proprio il massimo della libertà. Hanno il loro fascismo, il fascismo religioso». Fece una pausa. «Non lo sopporto. Voi americani...».

    All'improvviso Jeffrey vide di nuovo la faccia del suo assalitore, chiaramente, solo per un secondo.

    Il suo collo si tese mentre provava di nuovo la sensazione dell'impatto del pugno – bang! - sul naso. Aveva paura di sanguinare di nuovo.

    Tony, inconsapevole, avrebbe potuto essere uno dei tanti sulla banchina, con le orecchie incollate alle cuffie, la voce di un predicatore liberare, con il tono da bigotto.

    «- Voi americani quando fate business. Ovviamente, il mercato ci vuole tutti uguali, così da comprare le stesse cose, anche se lo chiamate multiculturale. E certo, essere uguali è importante»

    Scosse leggermente le spalle e sorrise.

    «Richting

    Jeffrey fece quasi la stessa cosa e sorrise.

    «Ascolta, Tony. So che qui c'è Gesù e lì Allah ma -» si interruppe. «La verità è che quando mi è venuto vicino non mi ero nemmeno accorto della sua presenza. Ero totalmente estraniato. Stavo cercando di non farmi sopraffarre»

    «Ja». Tony si sporse verso di lui. «Hai ancora attacchi di panico, Jeffrey?»

    Jeffrey non riusciva a rispondere.

    «Li stai avendo?»

    Jeffrey riuscì solo ad annuire.

    «Lieber, Jeffrey».

    La peculiare testa di Tony si mosse, comprensiva.

    «Pensavo che avresti lavorato su quello stress. Schlecht. Ricorda, amico mio, dobbiamo sempre mantenere i livelli di stress sotto il nove».

    «Ja». Jeffrey mormorò. «Voglio dire, sì. Disciplina. Yoga. Canto. Meditazione. Niente zucchero, niente caffè. Meno carne. Ci sto davvero provando, Tony».

    «Ma sei andato in panico. Richting. Scusa. Zu veil Deutsch für te?»

    «No. Vivo qui. Puoi parlare il cazzo di tedesco quanto ti pare».

    «Non scherzare, Jeffrey. Questo non riguarda me, riguarda te. Sei andato in panico e hai smesso di respirare? Dai, dimmi la verità».

    Era difficile non dire la verità. Jeffrey stava sudando. Il sudore gli cadeva sulle braccia, sembrava stesse in mezzo all'alta marea. Ma era folle andare in panico per essere andato in panico; doveva calmarsi. Porse il bicchiere e Tony gli verso dell'altra acqua, che Jeffrey ingurgitò.

    «Tony, eravamo lì, uno di fronte all'altro. Poi mi ha colpito. Tutta quella gente intorno. La folla che spinge, si urta. Rumore. I treni. Mi ha afferrato e mi ha colpito e -»

    «Cosa? È scappato via correndo?»

    «No, non poteva correre. Troppa gente»

    «Quindi cosa ha fatto?»

    «Mi ha colpito un'altra volta!»

    «Gott. Dove?»

    «In faccia. Di nuovo».

    Jeffrey iniziò a piangere. Tony gli porse un fazzoletto, che Jeffrey usò per asciugarsi gli occhi. Gli uscì ancora un po' di sangue dal naso. Si sentiva imbarazzato; si sentiva di merda.

    «Ho sentito ogni minimo odore su di lui. Birra. Sudore. Odori volgari. Ma non riuscivo a vederlo bene. Mi si sono chiusi gli occhi dalla paura. Mi ha colpito ancora, e la folla era così fitta che nessuno ha visto nulla. Volevo urlare, ma avevo troppa paura e poi stava arrivando il treno e poi tutti si sono buttati per salirci, e lui è scomparso».

    Il cuore di Jeffrey pulsava mentre il sudore colava. Tony gli chiese se voleva stendersi. Per avere il rimborso del piano sanitario, avrebbe dovuto sottoporsi al test dello stress; non c'era altro modo. Erano tutti attentamente controllati, anche la gente così qualificata come Tony Rosenputter.

    Una volta, i livelli di stress di Jeffrey erano saliti fino a sette e Tony gli aveva detto che avrebbe potuto falsificarli leggermente. Stava perlopiù intorno al cinque, ma se saliva a otto o nove, il report sarebbe stato molto brutto e alcune cose che erano state fatte per tenere Jeffrey così giovane e vivo avrebbero potuto – beh, fermarsi. Bisognava evitare lo stress; questo significava che stavi combinando insieme le pressioni di troppe cose, troppe informazioni ogni giorno, che ti assalivano. Significava che non potevi più resistere: uno svantaggio in questo mondo sempre in movimento, competitivo, dove l'adattamento a ogni cosa significava tutto. Dovevi sapere come stare a galla quasi senza sforzo con le informazioni, non importa cosa rivelassero o che effetto avessero su di te.

    Adesso era sulla poltrona, e Tony era piegato su di lui mentre cercava di confortarlo.

    «Cosa vorresti», chiese Tony. «Potrei darti delle erbe; potremmo fare meditazione insieme per rallentare il respiro. Potrei anche farti un massaggio. Ti piacciono i massaggi, no?»

    Jeffrey gemette, troppo teso per rispondere.

    «Girati a faccia in giù», ordinò Tony.

    Jeffrey si girò. Tony mise le dita sul collo di Jeffrey e le lasciò scivolare sotto la camicia da lavoro, fino alla base della schiena. Tony era bravissimo a farlo: applicare un'ordinata, neutrale, professionale, pressione, colpendo piano i glutei muscolosi e tesi di Jeffrey attraverso i pantaloni mezzi strappati.

    Jeffrey gemette, sentendosi vicino alle lacrime, solo per una promessa di sollievo. Voleva tutto quello che Tony gli stava offrendo, e voleva abbracciarlo se avesse potuto, come qualcuno che offre speranza, se ci fosse stata speranza. Le mani di Tony tornarono sulle spalle di Jeffrey e lui ridivenne tranquillo. Si sentiva sempre maledettamente solo, se non fosse stato per Tony. Il buon, gentile Tony. Il perfetto, il sempre anelato, padre idealizzato; il perfetto, il sempre anelato, amico idealizzato. Il suo valoroso cavaliere personale e curatore: solido, robusto, eppure – nel suo animo più profondo e acuto, dietro la psicologia e il sistema – artistico. Anche se lavorava per il sistema, Tony, nel suo tenero cuore (a cui Jeffrey voleva credere così tanto), era lì per lui. E nonostante la combinazione dell'essere tedesco, Tony lo capiva, capiva ogni cosa di lui, per quanto Jeffrey tentasse di nasconderla.

    Jeffrey era sicuro di sentire qualcosa tra loro due. O sentiva solo se stesso, momentaneamente liberato dall'età e dal suo lavoro, mentre si rilassava nello spazio calmo e protettivo, anche se sobriamente teutonico, di Tony?

    Voleva baciare Tony.

    Voleva così tanto prendere la stoica faccia di Tony tra le mani e baciarlo, permettere alle sue labbra di toccare quelle di Tony, che stavano sempre leggermente ritratte. Ma non poteva farlo. Tony era il suo terapista. E lavorava per il sistema. Ecco la cruda verità, la scharfscheisse, come la chiamavano i tedeschi. Quindi tenne il segreto per sé, mantenendo l'elettricità come era. E quella particolare tensione attorno a Tony rimaneva con lui come una scossa.

    «Come va adesso, Jeffrey? Gut

    Jeffrey mentì sottovoce «Sì. Benissimo».

    Ma Tony aveva capito. Prese la mano sinistra di Jeffrey e ne premette l'indice al centro del suo palmo profondamente scavato. Poi, con l'unghia, tracciò un otto.

    «Rilassati», sussurrò Tony. «Rilassati e segui la sensazione che ti da la mia unghia. È tutto quello che devi fare».

    Ancora girato di pancia, Jeffrey sapeva di avere il palmo della mano sudato. Non poteva nascondere la tensione. Lo stress era ancora lì; testardo, perfido stress spione. Sembrava che non importa quanto volesse avvicinarsi a Tony, non importa quanto fosse diffidente e professionale, quando giovane e resistente potesse sembrare, lo stress – rigido, teso, che pietrificava tutto intorno a sé – era sempre lì, sotto la superifice.

    «Lieber, Jeffrey. Was kan Mann tun? Facciamo il test e saliamo al livello otto? Nove, forse? Non posso fare molto per te. Non mi piace» – La faccia di Tony si trasformò in uno splendore di solennità «ma non posso cambiarlo».

    «Ich verstehe», mugugnò Jeffrey in tedesco per accontentare Tony. Era d'accordo. Odiava tutto questo, ma era d'accordo. Poi Tony lo posizionò sulla schiena.

    «Gut. Che Dio mi sia testimone, sono sempre tuo amico, ma temo che sia così che va il mondo».

    C'era una preoccupazione genuina sul volto nobile di Tony; a modo suo, il dottor Rosenputter era onesto, anche se non troppo.

    «Ach!» continuò. «Ecco il tuo vecchio problema. Le tue abilità, i tuoi talenti. Quello che ti rende utile, di valore. Temo che sopravvalutino la tua capacità di sopportarlo. Sempre il migliore: sei lì in alto, così in alto.. Ma puoi cadere. Ecco il nostro problema, il problema di noi artisti. Sei lì in alto perché solo tu puoi essere lì in alto. Tu, con l'animo da artista. Conosco quel tipo di animo. Vedi, lo ammetto. Ne ho uno anche io».

    Jeffrey sorrise. In un momento come questo, Tony diventava sinceramente orgoglioso di sé stesso, anche se il suo viso non lo mostrava.

    Tony annuì, muovendo le spalle.

    «Ma è semplice, Jeffrey, cadere. Lo vedo continuamente. Ti spaventi. È così triste. E lasciamelo dire – sei molto, molto stressato!».

    Quelle parole «molto, molto stressato!» Sembravano minacciose. Jeffrey non voleva ascoltare anche se sapeva che il lavoro di Tony all'interno del sistema includeva l'uso di minacce. La minaccia era lì, non si poteva negare. Jeffrey doveva balanciare tutto: Tony era un'altra ruota dell'ingranaggio del sistema, e allo stesso stempo era il suo squisito, seducente in modo imbarazzante, terapista e amico.

    Jeffrey provò a farsi scudo contro qualsiasi sensazione di minaccia o consequenza, si focalizzava solo sulla calma stringa di suono che usciva dalle labbra secche di Tony.

    «Faremo del nostro meglio!» promise Tony. «Vieni più vicino. Ti massaggio la testa».

    Jeffrey si piegò verso di lui e le dita di Tony, leggere come la pioggia, danzavarono leggere sulla fronte di Jeffrey oliata con un misto di sudore e olio da massaggio. Chiuse gli occhi, ma continuava a vedere la faccia dell'uomo del treno, la bocca distorta in un sorriso trionfante.

    Le dita di Tony facevano la loro piccola danza su di lui, ma sotto sotto, che pulsava ostinatamente sulle palpebre della sua mente, Jeffrey seguiva una strada buia che divenne un labirinto dove si perse.

    Ma non scappò; vedeva ora tutto così chiaramente da riuscire a calmarsi. Lui e l'uomo che l'aveva attaccato non erano più sulla banchina affollata, erano soli, come due bestie, due animali che scrutano le rispettive forze e abilità. La forza di Jeffrey era visiva e capì, come si trova un file all'interno del metasistema dei dati, che se voleva poteva riconoscere, e persino memorizzare, la faccia di quell'uomo.

    In ogni dettaglio.

    Riusciva a riconoscere le labbra dell'uomo, la loro particolare trama, e l'aria di selvaggio che emanavano, addobbate di flash bianchi e da un eccitamento quasi nauseabondo che si intesificava e bruciava, sfilando tra la tensione di Jeffrey e la sua fredda reticenza.

    Poi il naso dell'uomo, largo, pronunciato, non bello ma che rimaneva impresso nella memoria; poi le sopracciglia e le gote, leggermente cadenti ma comunque belle, puntinate di piccole rughe e pori. Aveva visto le stesse caratteristiche su un lungo vaso nero greco, dove c'erano lottatori nudi incisi con un realismo così testicolare che rasentava la pornografia. La somiglianza con quell'immagine greca causò un brivido che lo percorse; ma si sentiva meglio ora, come se fosse entrato in una zona chiara dopo essere stato immerso fino alla vita, immobile, in un groviglio di rovi.

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