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Per un rinnovamento della Chiesa: Conversazione con Luigi Conte
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Per un rinnovamento della Chiesa: Conversazione con Luigi Conte
Ebook151 pages2 hours

Per un rinnovamento della Chiesa: Conversazione con Luigi Conte

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About this ebook

Un libro intervista che, nelle risposte alle domande rivoltegli da diversi interlocutori, include alcune proposte volte a delineare un autentico rinnovamento nella chiesa e nella società, nella speranza di contribuire a costruire un futuro migliore.

Proposte che indicano passi concreti per questo rinnovamento e che, in alcuni casi, possono riservare sorprese.
LanguageItaliano
Release dateNov 4, 2015
ISBN9788865124468
Per un rinnovamento della Chiesa: Conversazione con Luigi Conte

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    Per un rinnovamento della Chiesa - Giovanni Cereti

    concludere

    Premessa

    Ho camminato molto, nella mia vita. Ho camminato con il senso di una Presenza, che mi ha accompagnato dalla mia infanzia e che per me si è identificata con quanto crediamo nella fede cristiana intorno al mistero di Dio, Padre Figlio e Spirito santo. Ho camminato con innumerevoli persone, che a poco per volta con il loro affetto mi hanno fatto uscire dal mio guscio e mi hanno insegnato ad amare. Ho camminato nel mondo, con lo stupore e la riconoscenza rinnovati ogni mattina per il miracolo dell’esistenza e per la bellezza del Creato.

    Giunto quasi al termine di questo cammino, la casa editrice Marcianum mi ha proposto di ripercorrerne la storia. Ho accettato con riconoscenza questa richiesta, perché la vita di un prete dovrebbe essere trasparente, appartiene in qualche modo a tutta la comunità. Ma anche perché, se in generale sono stato ben accolto e accompagnato da tanti nel mio andare, non posso negare di avere anche sofferto per una certa diffidenza ed emarginazione, legate soprattutto alle ricerche che ho fatto e alle posizioni di apertura che ho assunto nella chiesa.

    È stato scelto il genere letterario della conversazione, che pareva più adatto a cercare di spiegare le ragioni che mi hanno indotto a prendere certe posizioni, con la piena coscienza della fallibilità di ciascuno di noi, ma anche con il desiderio di coinvolgere altri nei discernimenti necessari. Si dice infatti che la terza età rifugge da un discorso di impianto teorico: è un’età più narrativa, ognuno preferisce parlare solo di quello che ha vissuto, nella speranza di potere lasciare il proprio granello di sabbia ai compagni di strada di oggi ma anche alle generazioni future.

    Ringrazio vivamente il dottor Luigi Conte che ha accettato di farmi delle domande preparate con grande perspicacia ed attenzione ai diversi interessi della mia vita. Lo ringrazio anche perché si è fatto interprete (in particolare nelle domande finali) di interrogativi posti da altri. Nello stesso tempo intendo rivolgere una volta di più un ringraziamento speciale alla prof. Clara Aiosa, che mi pose domande molto pertinenti per una intervista pubblicata su Ricerche Teologiche, poi ripresa in Interviste teologiche, a cura di C. Dotolo e G. Giorgio, Dehoniane Bologna 209 pp. 229-254, il cui contenuto mi sono permesso di riproporre nuovamente in alcune di queste pagine. Le note fanno parte del testo integrale della conversazione, dal quale sono state stralciate per non appesantire troppo il discorso. Mentre mi scuso se il genere letterario di questo volume sembra porre troppo al centro la mia persona, desidero che tutta l’attenzione del lettore venga dedicata a Colui che mi ha guidato nella mia vita, alle persone di cui faccio memoria e ai problemi che vengono qui affrontati.

    Giovanni Cereti

    1. Sotto la guida dello Spirito

    Per ambientare meglio la nostra intervista, vuole raccontarmi qualcosa della sua famiglia di origine?

    Come per ogni persona umana, credo che la mia storia inizi ben prima della mia nascita, e debba essere collocata all’interno della storia della mia famiglia. Parlo volentieri della mia famiglia, anche per mostrare la mia riconoscenza verso i miei genitori per tutte le cure che hanno avuto per me, anche se, purtroppo, proteso come tutti al futuro, non mi sono abbastanza interessato delle mie radici, non ho interrogato a sufficienza i miei genitori quando sarei stato ancora in tempo. Se ora mi fermo a parlare un poco di questa storia, vorrei che fosse inteso nel senso giusto, come un atto di riconoscenza al Signore per tutto quello che ho ricevuto attraverso i miei antenati, i miei genitori, la mia famiglia.

    Ci dica allora qualcosa di suo padre

    Un giorno avrei dovuto scrivere una biografia di mio padre, Carlo. Proveniva da una famiglia profondamente segnata dalla fede. Una fede aperta, la casa dei miei nonni era frequentata da padre Giovanni Semeria all’epoca in cui era accusato di modernismo, e da don Luigi Orione. Un estremo rigore morale frequente in una certa borghesia genovese, nella quale le influenze di stampo giansenista erano ancora sensibili. Il mio nonno paterno, magistrato, seguendo dei principi di un vangelo sociale oggi troppo dimenticato, investì i suoi risparmi per costruire una casa per le famiglie povere. Mio padre ha ricordato per tutta la vita l’influenza del circolo giovanile Alessandro Sauli dove ha avuto fra i suoi maestri oltre al padre Semeria anche l’altro barnabita padre Trinchero. Per dire la rettitudine morale di mio padre, ho pensato a compromessi accettati da persone che pure sono state canonizzate, compromessi che mio padre non avrebbe mai accettato. Fra gli innumerevoli ricordi della sua dirittura morale, posso citare un suo intervento a un’udienza concessa da Pio XII al movimento dei laureati cattolici intorno al 1952, in cui difese con coraggio la libertà e la democrazia contro chi parlava di una eccessiva licenza nel nostro paese, così come una sua risposta a una lettera di Gronchi (allora Presidente della Repubblica) che gli faceva una raccomandazione per uno studente: ‘Qui non si accettano raccomandazioni’. Aveva a cuore la causa dell’Università di Genova di cui fu Rettore per quindici anni, e ricordava l’osservazione che gli fece a Roma un direttore generale: ‘Ma chi glielo fa fare di prendersi tanto a cuore i problemi della sua Università?’. Questi erano i genovesi di una volta.

    E come ricorda la mamma?

    Diversa la storia della famiglia di mia mamma, Hilda. La mia nonna materna è morta giovanissima, a 27 anni, in Africa, lasciando due bimbe piccole, e io non passo da Firenze senza andarla a trovare alle Porte Sante, il cimitero a S. Miniato al Monte, pensando alla sofferenza di mio nonno, Giovanni Beverini, e della mia mamma. Mio nonno era nella carriera consolare, sempre all’estero, e mia mamma, insieme a sua sorella, è stata allevata dai miei bisnonni Machiavelli. Anch’essi erano una famiglia di consoli e il mio bisnonno, fiorentino ma già al servizio dell’Italia unita, aveva sposato intorno al 1870 una svedese, Hilda Tulin, anch’essa proveniente dallo stesso ambiente. Questa bisnonna svedese apparteneva non alla chiesa luterana, ma alla chiesa riformata, alla quale era appartenuta la madre, di famiglia puritana americana, che si voleva del clan scozzese dei Gordon, e quindi discendente dai ’padri pellegrini’[1]. Molti dei valori di quella tradizione puritana sono certamente entrati nella formazione di mia nonna, peraltro rigorosamente educata nella chiesa cattolica in conformità agli impegni assunti con il matrimonio, per cui ha fatto i suoi studi a Trinità dei Monti, e poi di mia madre. Ho le foto di quando giocavo ai piedi di questa bisnonna, forse anche da questo ho trovato sempre naturale la fraternità con i protestanti.

    Ma non vorrei chiudere questo ricordo della mamma, senza ricordare come a taluno dei nostri soggiorni estivi veniva anche un suo cugino, Umberto Zanotti Bianco, fondatore dell’opera per il Mezzogiorno d’Italia, mezzogiorno che aveva conosciuto proprio perché inviato dal fascismo al confino nel Sud Italia. Fu in quella occasione che egli contribuì alla riscoperta e alla valorizzazione di Paestum. Era un uomo di grande cultura e una figura di spicco del mondo antifascista, nei suoi soggiorni con noi ricordo come fosse sempre sotto stretta sorveglianza di due poliziotti del regime. Conservo fra i miei libri una vita di Santa Caterina da Siena scritta dallo Joergensen, regalata da Umberto con una sua dedica autografa a mia madre per un suo compleanno.

    Della sua infanzia, cosa ricorda? penso sia stata un’infanzia felice

    Sono nato negli anni trenta. Anni spaventosi per l’umanità, i totalitarismi sembravano trionfare, non si sapeva come opporsi ad essi, nella mia famiglia avvertivano con angoscia l’approssimarsi della seconda guerra mondiale. Mio padre, ordinario di diritto internazionale all’università, queste angosce le ha vissute sino in fondo, aveva fatto la prima guerra mondiale e ne conosceva tutti gli orrori. Ricordo che quando poi l’Italia ha attraversato gli anni di piombo, mio padre amava dire che erano nulla, rispetto a quanto aveva vissuto negli anni trenta, quando vedeva ogni giorno rafforzarsi i totalitarismi e avvicinarsi un conflitto che sentiva che sarebbe stato più atroce di tutto quello che si era conosciuto fino ad allora nella storia umana.

    Ma in quegli anni anche la mia famiglia fu segnata in modo speciale dalla sofferenza. Avevo tre anni, quando morì una sorellina di sei anni, Maria Teresa. Allora non c’erano antibiotici e neppure i ‘sulfamidici’, che vennero diffusi solo un anno dopo. Ricordo un dolore che ha accompagnato i miei cari per sempre, anche se alla fine della vita mio padre osava dire che la sua famiglia si era poi sempre sentita protetta da un angelo. E personalmente, un’intolleranza alimentare (che molti anni dopo, quando la medicina scoprì l’esistenza del morbo celiaco, fu identificata come tale) mi accompagnò con dolori lancinanti per anni, mentre i miei genitori si sentivano dire dai medici: lo lascino morire, non c’è nulla da fare. Mia madre mi ha fatto sopravvivere con la forza della fede e della disperazione. Dal taccuino in cui annotava scrupolosamente ogni mese il mio peso, risulta che a quattro anni pesavo meno che a un anno. Una minorazione che in qualche modo ha accompagnato poi tutta la mia vita, anche se gradatamente ho imparato a conviverci. Ricordo queste cose per dire adesso tutta la mia riconoscenza ai miei genitori, che forse non ho mai saputo dire abbastanza in vita, ma anche perché da queste esperienze di dolore, dei miei nonni, dei miei genitori e mie, credo di esserne uscito con una partecipazione viscerale alle tante forme di sofferenza che accompagnano la nostra umanità, un’infinita compassione per tutti i bimbi che oggi ancora muoiono in paesi meno fortunati del nostro, per le prove e i sacrifici che i genitori devono affrontare per i loro figli: le giovani generazioni non possono neppure immaginare quanto hanno sofferto le generazioni passate.

    E come ha trascorso gli anni della guerra?

    Gli anni quaranta sono gli anni della guerra. A quell’epoca, la guerra sembrava una forza cosmica che si era abbattuta su di noi, di fronte alla quale i singoli non potevano fare nulla. A poco per volta, quando si prende coscienza di tutti gli orrori e le distruzioni che ci sono state, chi ricorda le sofferenze e le paure anche dei bambini, per non parlare delle stragi di militari e di civili, ha fatto per sempre la scelta di dire che le guerre non ci debbono più essere, gli uomini e i popoli non possono tornare a odiare e a distruggersi a vicenda. Di quegli anni terribili, nei quali per sfuggire ai bombardamenti su Genova eravamo sfollati nel basso Piemonte, voglio ricordare solo una cosa. Nel 1944, quando mio padre era in una lista di persone che dovevano essere deportate in Germania, lo ricordo a onore dei miei genitori, una signora ebrea fu nascosta in casa nostra, Bice Guggenheim Castello, una donna straordinaria, la madre di Giulio Cesare Castello, che fu poi un critico cinematografico di primissimo ordine. Dopo qualche mese i miei genitori vissero l’angoscia di doverle trovare un rifugio più sicuro, perché in paese se ne cominciava a parlare, e oltre a tutto se la sua presenza veniva denunciata c’era la minaccia di sterminare tutta la famiglia che l’aveva accolta.

    Ricordo che nel 1945, tornati a Genova, fui messo a bottega da un pittore. Solo più tardi ho capito che i miei genitori mi mandavano dal pittore nelle stesse ore in cui vi andava un ragazzo ebreo, il figlio dell’avvocato Salvatore Jona, collega e amico di mio padre. I nostri rispettivi genitori volevano promuovere un’amicizia capace di superare i tanti

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