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Amori, passioni e segreti di un grande antiquario
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Amori, passioni e segreti di un grande antiquario

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Il racconto di un uomo che non si è mai arreso. Un numero uno partito da zero. Un’ incredibile lezione di vita, nella quale Il calcio, l’antiquariato e la storia di un grande amore sono gli ingredienti che fanno di questa biografia un libro imperdibile.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 20, 2014
ISBN9788891155504

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    Amori, passioni e segreti di un grande antiquario - Nunzia Manicardi

    633/1941.  

    La via per le Indie

    Per raccontare questa storia sono venuta fino in Kenya, vicino alle coste dove Vasco da Gama lasciò sulla punta di un piccolo promontorio una colonna di corallo sormontata da una croce in pietra di Lisbona per ritrovare la strada di ritorno dalle Indie.

    Ma quella che voglio raccontare io è una storia iniziata in mezzo alle brume della Pianura Padana e alle prime pieghe dell’Appennino tra Modena e Reggio Emilia, quando il destino – tra bellissimi mobili antichi e preziosi oggetti d’arte – fece incontrare, e per la seconda volta, un uomo e una donna…

    1. PIOVUTA DAL CIELO

    Da Modena a Mombasa

    Hello! dico con il mio più cordiale sorriso.

    Il poliziotto al posto dell’ultimo controllo documenti non risponde e men che meno si sogna di sorridere. Alza su di me uno sguardo greve e atono per vedere se la mia faccia è uguale a quella che è sul passaporto. Il cuore mi fa un tonfo. Oddio, e se fosse... No, no, per fortuna è proprio lei, la stessa mia faccia che mi porto davanti già da un tot di anni!

    Mi viene restituita insieme con il visto su cui la mano nerboruta imprime con forza il bollo di rito. Ecco fatto: sto per essere in Africa. E per venti giorni potrò godermela tutta. Hello, hello! grido in silenzio, esultante, al Continente Nero che mi attende oltre l’ultimo cancello.

    La prima impressione non è molto dissimile da quella che provo ogni volta che col treno dei pendolari scendo alla Stazione di Modena di ritorno da Bologna, quaranta chilometri più in là: una marea di uomini neri, tutti alti e ben piazzati. Visi pallidi assai pochi. Qui, a Mombasa, è la stessa cosa, solo che i visi neri sono ancora di più e quelli bianchi ancora di meno. Meno male che sono ben sicura di essere in Africa… Ne ho già avuto la conferma quando, non più di un’oretta fa, dal finestrino dell’aereo ho visto all’improvviso il Kilimanjaro con i suoi oltre cinquemila metri innevati tra le nuvole, al confine con la Tanzania, dopo l’ampio tavolato desertico più a nord.

    I miei occasionali compagni di viaggio aereo – tutti pallidi – me li sono lasciati alle spalle, ad arrancare tra borsoni multistrato e valigioni con ammortizzatori di lusso verso l’ultimo, agognato controllo che io ho già così brillantemente passato. Volevo essere, se non l’unica, almeno la prima a varcare il confine. Ma... c’è un sorriso bianco che mi viene incontro tra la folla assiepata in attesa di fornire qualche servizio ben pagato ai turisti più sprovveduti... Uno smagliante sorriso tutto per me... Brunella!

    È per Brunella e per Roberto se oggi sono qui, e per certe lettere nascoste tra le venature calde e odorose di uno scrittoio del ’700 in radica di noce…

    Nel segreto di una lettera d’amore

    La prima lettera, arrotolata stretta stretta con un nastrino rosso come nei migliori romanzi d’amore dell’Ottocento, l’avevo trovata davvero per caso. Ed era, anch’essa, una lettera d’amore. Anche il mobile l’avevo comprato per caso, dato che l’antiquariato è fuori della mia portata. Quella volta però avevo voluto fare un’eccezione: i soldi che mi erano capitati dall’eredità della zia Isolde non erano affatto previsti e la zia, del resto, aveva sempre avuto il culto dell’antico. I suoi mobili antichi però erano rimasti ai miei cugini per cui, volendo onorare la sua memoria e il tenero affetto che sempre mi aveva legato a lei, la zia prediletta, avevo deciso con un colpo di fantasia di investire l’inaspettata somma del lascito in un bel mobiletto del buon tempo passato.

    Mi ero recata alla Fiera Antiquaria di Modena che proprio in quei giorni si stava svolgendo e, in fretta in fretta per non cambiar idea, avevo acquistato una ribalta emiliana della metà del Settecento. Una cosina piccina che, se devo esser sincera, avevo scelto più che altro per il prezzo che era tra i più abbordabili. Ma poi mi era piaciuta sul serio, quella deliziosa ribaltina tutta lastronata, in radica di noce, che si apriva con un tocco leggero rivelando alcuni minuscoli scomparti laterali e un incavo centrale abbastanza profondo contenente una microscopica cassettiera. L’avevo messa nell’angolo della sala adibita a studio e lì era rimasta finché un giorno non avevo deciso di utilizzarla sul serio, e non solo per bellezza, per infilare in quegli scomparti alcune carte che mi stavano particolarmente a cuore. Era stato allora che mi ero accorta della fessura. Stava lungo la sponda laterale sinistra.

    Avevo fatto scorrere la mano lungo il pannello, in su e in giù; dapprima non era successo nulla, poi qualcosa aveva cominciato a muoversi e ad un tratto la fessura si era come staccata verso l’alto rivelando che in realtà si trattava di un pannello scorrevole che nascondeva al proprio interno un’intercapedine. Avevo trovato il segreto del mobile! E, insieme con quel segreto della falegnameria artistica, avevo trovato anche le loro lettere. Erano scaturiti un po’ alla volta tre o quattro fogli, sempre indirizzati alle stesse persone: da un certo Roberto a una certa Brunella e da una certa Brunella a un certo Roberto.

    Allo scoperto li avevo poi portati io. Ancora una volta era successo per caso. Aprendo uno dei cassettini laterali dello scrittoio avevo scovato infatti anche il biglietto da visita di un antiquario, che non era colui che mi aveva venduto il mobile. Questo si chiamava Roberto Camellini ed era, quasi certamente, il precedente proprietario della ribalta, che doveva averla poi venduta o ceduta a un collega altrimenti non si sarebbe spiegata la curiosa circostanza di trovare il suo nome nel mobile di un altro. Avevo fatto una rapida ricerca in internet e... eccoli lì, Roberto e Brunella!, nella loro Galleria antiquaria di Sassuolo. Una bellissima coppia di signori non più giovanissimi, ritratti in una splendida fotografia da cui emanava un senso di grande complicità e completezza.

    C’era, in quel periodo, il Gotha di Parma e, sempre dopo aver verificato in internet, vidi che la Galleria Camellini sarebbe stata presente. Coinvolta, mio malgrado, dalla bizzarra circostanza di essere entrata così intimamente nella vita di quei due sconosciuti, mi ci recai un sabato pomeriggio appena subito dopo pranzo, quando il flusso dei visitatori sarebbe stato ancora limitato.

    Lo stand Camellini era magnifico, tutto avvolto in velluti color cremisi su cui i meravigliosi mobili risaltavano al massimo grado tra oggetti e quadri preziosi appoggiati a vezzose poltroncine damascate. C’erano tutti e due. Non potevo sbagliarmi, perché li sentii chiamare per nome da una persona che si avvicinò per un breve saluto e poi erano uguali identici a come li avevo visti nel loro sito. Lui alto, imponente, elegantissimo in un abito blu con cravatta regimental, i capelli brizzolati, stempiato, gli occhi azzurri, la mascella volitiva; lei con un bel viso dai lineamenti regolari, gli occhi dal taglio vagamente orientale, soffici capelli castano chiari fin sulle spalle, con un abito bianco e nero di sartoria sobrio e discreto come lei e indubbiamente di uguale fascino.

    Nonostante la mia disinvoltura e la mia esperienza nell’occuparmi di fatti privati altrui come giornalista, avevo provato un certo imbarazzo. Tuttavia non avevo perso tempo, preoccupata dal fatto che l’arrivo di qualche potenziale cliente potesse disturbare il nostro colloquio.

    Quando avevano saputo delle lettere, Roberto e Brunella per poco non mi avevano buttato le braccia al collo. Certo che appartenevano a loro! Le avevano infilate lì dentro anni addietro, poi il mobile era stato venduto senza che loro si ricordassero di estrarle e dopo non era più stato possibile farlo perché era passato subito di mano in mano. Non avrei dovuto meravigliarmi, del resto, perché mi dissero anche che di lettere e di biglietti nel corso della loro unione se ne erano scritti moltissimi e che ancora capitava che lo facessero per cui, tutto sommato, si erano anche rallegrati all’idea che quel mobile conservasse nel suo segreto un pezzetto della loro storia. E quanto ai loro nomi... be’, Brunella e Roberto – come avrei scoperto in seguito – sono, nel profondo, due anticonformisti e perfino questa circostanza li aveva divertiti anziché imbarazzarli. E poi, lo si capiva chiaramente, erano ben consapevoli del loro amore e non volevano far niente, in realtà, per nasconderlo. Non solo, quindi, non avevano negato di essere i proprietari di quelle lettere ma, anzi, il fatto che io mi fossi così data da fare per cercarli mi aveva reso immediatamente loro amica. Avevano voluto a tutti i costi che rimanessi fino alla chiusura per poi potermi accompagnare in un rinomato ristorante poco distante dalla Fiera dove, in un tavolo d’angolo accuratamente apparecchiato, ero stata messa a conoscenza della loro storia degustando nel contempo ottimi tortelloni burro e salvia e un indimenticabile arrosto di prosciutto accompagnati da una vivace bonarda.

    Appena terminati i tortelloni e l’arrosto, prima di dedicarci al carrello dei dolci con una zuppa inglese particolarmente invitante, mi era già arrivata la proposta: Perché quest’estate non vieni in Kenya con noi?. In Kenya? Io?

    Non ci avevo mai pensato. Amo viaggiare, ma l’estate pensavo di dedicarla alla Romagna e ad alcune ricerche su vecchi piloti motociclistici da inserire in un mio nuovo libro sulla gloriosa Mondial campione del mondo e di velocità. In Kenya?!

    Al biglietto e a tutto il resto pensiamo noi. Tu devi soltanto andare alla Malpensa. Verrà a prenderti Brunella all’aeroporto di Mombasa. Detto, e deciso: Roberto è fatto così. Se non fosse fatto così, in Kenya non ci sarei mai venuta.

    L’idea è questa: trascorrere con loro una ventina di giorni per conoscerli meglio e più da vicino e per scrivere poi, al mio ritorno, la loro storia di vita e d’amore. È da tanto tempo che ci pensavo – mi aveva detto Roberto. – Adesso sei arrivata tu e tu sei la persona giusta. Tu ci riuscirai, lo so, lo sento! Riuscirai, vero? Riuscirai a mettere sulla carta i nostri sentimenti?

    Spero di sì, Roberto. Non è un compito facile, non è mai facile scrivere di sentimenti e tanto meno se sono quelli degli altri. Certo che ci riuscirà! assicura Brunella.

    Quindici giorni dopo ero all’aeroporto di Malpensa in attesa del volo; sette ore e mezzo dopo il decollo scendevo a quello di Mombasa. Piovuta dal cielo, letteralmente, così come le loro lettere d’amore erano piovute nella mia vita. Al posto di quei monsoni che qui ormai da parecchi mesi stanno invano aspettando.

    Il balzo del leone

    Sembrava tutto così solito, così normale, quasi banale... E invece, non appena la grossa Toyota che è il taxi di Mohamed, dipendente stipendiato da non si sa chi, si allontana dall’ordinato parcheggio dell’aeroporto, l’Africa vera mi viene incontro con il balzo e il ruggito di un leone e in un istante mi stordisce spazzando via tutte le mie certezze. E mi accorgo di essere dentro un film già tante volte visto, solo che questa è la vita vera. Ci sono, per esempio, due ali di folla che ininterrottamente camminano ai bordi della strada. L’unica strada asfaltata, e anche bene, ma nella quale all’improvviso possono aprirsi fenditoie, buche, voragini, crepacci, abissi senza fondo; l’unica perché le laterali, quando ci sono, non sono che piste di terra battuta, con ampie pozzanghere venute non dal cielo, per via dell’assenza di quei tanto desiderati monsoni estivi (che in realtà qui, in pieno luglio, sono invernali), ma dagli scarichi di chi compra, vende e vive nelle innumerevoli baracchine che le affiancano.

    Definire negozi queste baracchine di assi sconnesse e lamiere sbilenche non si può, ovviamente; eppure lo sono. Le merci più disparate mi sfilano sotto gli occhi incapaci di raccogliere tante novità in un colpo solo, così che li strabuzzo a destra e a manca: copertoni usati e qualcuno anche nuovo di auto e camion, letti a baldacchino di legno scolpiti a mano, cataste di quadrotti di carbone e di legna da ardere, lunghi biscioni coloratissimi di tegamini di plastica appesi come festoni natalizi, ceste cestini cestoni di vimini e poi cataste di manghi, papaye, noci di cocco... Donne bellissime dagli sgargianti parei dove nascondono sulla schiena bimbi addormentati si alternano ad altre donne chiuse dentro cappe nere fino a terra dove solo la sottile feritoia per lo sguardo lineare lascia intravedere l’essere umano che è in loro... Uomini altrettanto belli, dai muscoli ben torniti che emergono da magliette con le scritte più assurde, comprese quelle di una squadra di calcio italiana del girone C di promozione, sono indaffarati su motorini e motociclette in avaria, mentre altri in cerchio si consultano sul da farsi... E tutti camminano avanti e indietro incessantemente, o comunque danno l’impressione di farlo. Non è una strada, in realtà, ma un fiume dalla corrente incessante, un’onda umana dentro la quale il nostro taxi nuota a velocità non indifferente insieme con altre modernissime Toyota di modelli che in Italia non ho mai visto, a motociclette di marchi a me ignoti, a carretti strapieni di banane e ferri vecchi, a qualche rado pullman che arriva e parte senza orario...

    Brunella si diverte del mio stupore. Sì, è proprio l’Africa! annuisce. È un caos ordinato dentro il quale nessuno dovrebbe sognarsi di provare a mettere ordine. E poi... da che parte incominciare? Tutto si regge su un ritmo invisibile che però, a quanto pare, funziona. Così riusciamo ad attraversare questa Mombasa di periferia senza il minimo danno a cose e a persone e anche ad una velocità sostenuta, il che ci permette dopo un quarto d’ora nemmeno di esserne già fuori. Ammesso che di fuori si possa parlare, perché il fiume umano anche lì continua. Tutti vanno, tranne pochi, a piedi. Ma dove?

    Ai loro villaggi mi spiega Brunella. E infatti, come per incanto, dalle prime macchie di verde che escono dalle ultime propaggini della città sorgono circoletti di capanne ricoperte di frascame dove bimbi scalzi e festanti giocano da soli nello spiazzo centrale. Tutto intorno, piantagioni di mango e alberi dai grandi fiori bianchi. I frangipane. E quelli sono baobab, ed ecco... vedi, lì? Le agavi. Dalle fibre ci fanno cordami, che servono a tante cose...

    Poi a un certo punto i piccolissimi agglomerati scompaiono e mi accorgo di una recinzione di filo spinato che costeggia la strada. Subito orribili pensieri mi attraversano la mente... Ma la mia gentile guida mi rassicura all’istante: No, non è per loro, ma per i leoni. Quella che stiamo attraversando è una zona naturale protetta e il filo è anche elettrificato per impedire che possano balzare sulla strada. Meno male... Mi sento sicura e protetta dentro il taxi che Mohamed continua a far filare a bella velocità. Vedrai, l’Africa ti piacerà. Noi è da sette anni che veniamo almeno tre volte l’anno e ogni volta scopriamo sempre cose nuove dice Brunella.

    Come un succo d’ananas

    La villa, bianca, è dietro un grande cancello di legno dipinto in azzurro che un boy ci apre con ampi gesti e altrettanto ampi sorrisi. Il suo lavoro consiste in questo: aprire e chiudere il cancello ogni volta che entriamo o usciamo. Per questo lavoro è pagato molto bene, rispetto ai prezzi locali, ed è molto invidiato. Ma sono cose, queste, che scoprirò nei giorni seguenti. Adesso c’è soltanto un grande cancello azzurro che si apre, invitante, su una striscia di terreno ricolma di una vegetazione varia e variopinta lungo la quale sorgono una, due, tre, quattro ville tutte bianche. La nostra, quella che una coppia di amici di vecchia data mette a disposizione di Roberto e di Brunella nel periodo invernale (cioè per noi luglio e agosto) e in altri periodi dell’anno anche perché non rimanga troppo a lungo vuota e deserta, è l’ultima, la più vicina al mare. Però, mentre ci avviciniamo, il mare non lo vedo perché un altro cancello lo separa da noi. Così è l’abitazione in tutta la sua originalità che mi si para davanti a strapparmi le prime, inevitabili grida di stupore e ammirazione.

    È a due piani, con un ballatoio che corre per tutto il perimetro e, sopra, un tetto che dà l’impressione di chinarsi fin quasi a terra e che è completamente ricoperto di lunghissime frasche grigiastre in mezzo alle quali si aprono finestre che paiono occhi. Sul bianco immacolato delle pareti, venato soltanto dal celeste tenue delle porte e degli infissi, questo coperchio vegetale ondeggia ad ogni minimo alito di vento ricamando ombre sul lastricato spazzato con la massima cura. Sotto di esso sono allineati in bell’ordine lunghi tavolini di legno scuro, poltroncine colorate, stoffe a strisce gialle e rosse con un sentore già di India nei fili di seta cangiante. Intravedo giganteschi gusci di animali strani, vasi colmi di conchiglie, lampadari con mosaici infilati nel ferro battuto, i tanti bellissimi oggetti che il buon gusto, il denaro e un artigianato sapiente possono offrire per rendere questa casa, se possibile, ancora più cara e preziosa, agli occhi e al cuore.

    Tutto questo in un attimo, ma è già dentro di me, un flash abbagliante, mentre Mohamed si affretta ad aprirmi la portiera e io, come una vera regina, muovo i miei primi passi passando sotto un arco benaugurale di fiori bianchi, rossi e viola intrecciati al bambù insieme con tralci di un verde brillante. Con gli stessi fiori i boys hanno composto anche il gigantesco cuore che orna il cancello che dà verso la spiaggia e pure quello che era sul cancello che dava sulla strada. Adesso lo so che anche quel cuore era per me. Per me, l’ospite. Ben arrivata, Nunzia! esclama una voce maschile, forte e chiara, che emerge dal fondo del portico formato dal digradare del tetto sorretto da grossi tronchi nodosi lucidati fin quasi a brillare. Ben arrivata in Africa!

    Roberto Camellini, l’altro pezzo del motivo per cui sono qui, nel luglio 2011, sulle coste kenyote che guardano verso Malindi (con la linea dell’Equatore che potrebbe tagliare esattamente a metà la mia camera da letto come, ridendo, abbiamo verificato le mie amiche ed io sull’atlante geografico online, la sera prima della mia partenza, in una sorta di addio all’Europa), mi viene incontro alto e imponente così come mi era apparso la prima volta che l’avevo visto al Gotha di Parma, la mano tesa, cordiale, anche lui sorridendomi. Stavolta però non indossa un elegante abito blu con cravatta regimental ma pantaloni beige larghi, un po’ sformati, comodi, e sopra una maglietta bianca di cotone, decisamente informe,

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