Louise Bourgeois, Laurie Simmons, Monica Bonvicini, Rachel Whiteread, Tracey Emin, Judy Chicago, Miriam Schapiro, Letizia Cariello
La perfezione non abita qui / Perfection doesn’t live here
Happy realm or prison? A place of selfaffirmation or a symbol of frustration? The domestic domain has always been a crucial space in the process of deconstructing gender stereotypes
Per secoli, le case sono state disegnate e costruite dagli uomini. Le donne le hanno abitate, passando tra le mura di quelle architetture, che si sono rivelate rifugi, ma anche prigioni, una quantità incalcolabile di ore – accudendo, pulendo, cucinando, aspettando –, mentre gli uomini entravano e uscivano senza sosta. “Sono già milioni di anni che le donne stanno sedute in queste stanze, sicché ormai perfino le pareti sono pervase dalla loro forza creativa”, scrive Virginia Woolf nel celebre saggio Una stanza tutta per sé (1929) in cui rivendica, con un certo anticipo sui tempi, che la possibilità di fare qualcosa di tutta quell’energia creativa femminile passa attraverso l’indipendenza economica e il possesso di una zona privata che difenda la concentrazione: “La donna deve avere denaro e una stanza tutta per sé, per scrivere racconti”.
Louise Bourgeois, uno tra i più grandi e prolifici talenti artistici del XX secolo – senza distinzione di genere –, questa stanza tutta per sé in senso strettamente fisico non l’aveva, almeno all’inizio della sua lunga, lunghissima carriera.
Il suo spazio di autonomia creativa era, piuttosto, delimitato temporalmente: cominciava quando il marito e i tre figli (maschi) uscivano di casa per andare in ufficio o a scuola e si chiudeva al loro rientro. Uno spazio mentale potenzialmente infinito, ma comunque a ridotta capacità produttiva tanto che, in quel periodo, Bourgeois immaginava, fissandole su carta, sculture che avrebbe realizzato una volta
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