Il bello, l’utile e il buono
The beautiful, the useful and the good
“Se raggiungi la semplice bellezza e null’altro Raggiungi il meglio che Dio abbia fatto È qualcosa: e quando gli renderai grazie troverai in te l’anima che hai perso”.
Questi versi appartengono al poemetto Fra Lippo Lippi di Robert Browning (1855), interessante brano di transfert immaginario in cui l’autore, impersonando il pittore rinascimentale fiorentino Filippo Lippi, analizza i modi in cui una vita creativa, consentendo all’artista di prendere le distanze dalle norme sociali, gli permette più felicemente di trascenderle. Perciò la bellezza sostituisce l’ortodossia cattolica come fede personale di Lippi, anche se egli continua a indossare il saio del frate carmelitano.
Questo credo estetico, scritto un secolo e mezzo fa, ancora suscita un’eco, per quanto sfumata e ambigua, nel mondo del design contemporaneo. Browning scriveva in un contesto di utilitarismo trionfante, della divinità della macchina, dell’utensile contrapposto alla decorazione, dell’industria come fine etico in sé, al punto che ogni tentazione di continuare a chiedere bellezza di linee e di colori in un determinato prodotto appariva decisamente peccaminoso.
La reazione era inevitabile, specialmente se capitanata da John Ruskin e William Morris, i più formidabili influencer dell’epoca. Il primo aveva elencato nel 1849 nel suo Le sette lampade dell’architettura i valori dal sapore fin troppo vittoriano del ‘sacrificio’ e della ‘obbedienza’ ma considerava suo obiettivo finale “far risplendere, rafforzare, affinare e formare lo spirito di vita”. Morris combatteva non solo per il predominio del progetto, ma per la sua realizzazione a un prezzo accessibile a chi aveva redditi più bassi. Entrambi predicavano la funzione di redenzione della creatività. Non a caso Dante Gabriel Rossetti, poeta e pittore amico di Morris,
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