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Sant'Anselmo - Luca Odini
Il filosofo
Se non l’avessero già beatificato da tempo, Anselmo meriterebbe di ascendere alla gloria degli altari per meriti filosofici: per essersi impegnato con tutta la sua autorità nel confronto fra la ratio e la fides; per avere fissato, in sintonia con la cultura del tempo, le regole di tale confronto – fides quaerens intellectum, la fede che cerca l’intelletto –; e infine per aver chiaramente distinto fra l’una e l’altra, per lo meno in ordine all’uso del linguaggio. Quello della ragione è veicolo di un metodo preciso e ben più rigoroso rispetto a quello dalla fede e se alla fine i due metodi si trovano concordi su certe conclusioni, queste sarebbero per Anselmo pienamente valide e chiare.
Il suo contributo alla storia del pensiero va dunque oltre i risultati della dottrina che ha elaborato, perché il linguaggio, il vocabolario e la tematica che consegna ai posteri sono assai più ricchi e precisi di quelli da cui era partito.
Per tale ragione Anselmo agisce sul loro pensiero indipendentemente dal fatto che accettino o rifiutino le sue tesi, e non solo quando diventa modello della loro ricerca ma anche quando fornisce una strumentazione intellettuale più precisa e perspicua. Assume un valore strumentale e influente sul pensiero così come la forma e i caratteri di un mattone influiscono sulla forma e i caratteri di una costruzione.
Nella filosofia ab ovo – cioè dalle antiche origini
, come in un albo di famiglia – che cerchiamo di evocare sistematicamente in questa collana, la formazione del linguaggio filosofico realizzata dai primi pensatori offre rilevanti spunti di confronto anche in relazione al nostro pensatore.
Alle origini del pensiero, le idee e le intuizioni che venivano alla mente dei filosofi – in quanto nuove e senza precedenti – non sempre trovavano parole specifiche per essere comunicate. Occorreva assumerle da altri contesti, affidandosi alla somiglianza dei significati ma caricandole implicitamente di nuovi sensi. Si capisce bene che, in tal modo, siffatti termini risultavano ambigui dal momento che mantenevano per lungo tempo sia l’antico senso sia quelli via via acquisiti per le aggiunte dei filosofi. Questi ultimi avevano per lo più nozioni innovative da esprimere, in particolare quella che nella loro lingua aveva il nome di archè, principio
, e che nella loro speculazione non esprimeva solamente l’inizio cronologico di un processo o di un evento, ma anche la causa di una realtà e perfino la sostanza di cui era fatta. La novità della loro visione consisteva nel fatto che, in ultima istanza, postulavano una sola archè per tutte le realtà, come fosse in un certo senso la causa di tutte le cause, capace di dar ragione della realtà nel suo complesso.
Quale parola di uso comune avrebbe potuto rappresentare la loro scoperta a ciascun uditore? Certamente il termine dio
che, come è facile immaginare, era noto a tutti oltre che materia specifica della religione e del culto, affidata ai sacerdoti. Ora, noi non sappiamo come i sacerdoti di allora intesero questa appropriazione, se alla stregua di un esproprio o come un omaggio alla loro autorità. Magari, sulle prime non se ne accorsero neppure, tanto era scarsa la considerazione di cui godeva la filosofia.
L’appropriazione di dio
, come già si diceva, inizialmente aumentò l’ambiguità del termine principio
, e contestualmente anche del termine dio-dei
e divino
, assimilandoli in un’unica complessa nozione. Il fenomeno è immediatamente evidente e vale la pena di essere seguito in tempo reale
, nelle testimonianze di quattro antichi filosofi: Talete (VII-VI sec. a.C.), Anassimandro (VII-VI sec. a.C.), Eraclito (VI-V secolo a.C.) e Melisso (V sec. a.C.).
TALETE: «LA PIÙ ANTICA TRA LE COSE CHE SONO È DIO, PERCHÉ È INGENERATO; LA PIÙ BELLA, IL MONDO, PERCHÉ È OPERA DI DIO; LA PIÙ GRANDE, LO SPAZIO, PERCHÉ CONTIENE TUTTO; LA PIÙ RAPIDA, LA MENTE, PERCHÉ ATTRAVERSA TUTTO; LA PIÙ FORTE, LA NECESSITÀ, PERCHÉ DOMINA SU TUTTO; LA PIÙ SAPIENTE, IL TEMPO, PERCHÉ TUTTO RIVELA» (DK 11 A 1). E INOLTRE: «PER TALETE IL DIO È LA MENTE DEL MONDO, E IL TUTTO È ANIMATO E ANCHE PIENO DI DÈMONI; E, IN PIÙ, ATTRAVERSO L’ELEMENTO UMIDO PENETRA
ANASSIMANDRO: «E TALE SEMBRA ESSERE IL DIVINO: INFATTI, È ESENTE DA MORTE E DA DISTRUZIONE, COME DICONO APPUNTO ANASSIMANDRO E LA MAGGIOR PARTE DEI FILOSOFI DELLA NATURA» (DK 12 A 15).
ERACLITO: «SECONDO ERACLITO, DUNQUE, NOI DIVENTIAMO INTELLIGENTI ASPIRANDO QUESTO LOGOS (RAGIONE) DIVINO MEDIANTE LA RESPIRAZIONE, E MENTRE DURANTE IL SONNO DIMENTICHIAMO, QUANDO CI SVEGLIAMO TORNIAMO AD AVERE SENNO» (DK 22 A 16).
MELISSO: «MELISSO RITENEVA CHE IL DIVINO FOSSE L’UNICO PRINCIPIO DI TUTTE LE COSE, IMMOBILE E INFINITO» (30 A 13).
I primi filosofi assunsero il termine dio
– in greco theos – per definire il carattere dell’eternità del principio e il fondamento della conoscenza – la mente del mondo
; noi diventiamo intelligenti
–, ma, facendo questo, misero in gioco anche il termine divino
come aggettivo derivato. Quest’ultimo non tardò ad assumere, con Melisso, la funzione sostantivale di il divino
– in greco theion –, dopo di che i due termini, dio e divino, presero direzioni diverse quanto al significato e, pur rimanendo ambiguamente legati per via grammaticale (come sostantivo/aggettivo), designarono in un caso il dio personale celebrato nel culto – per esempio secondo la mitologia omerica – e nell’altro il principio eterno come elemento costitutivo – l’acqua, l’aria, l’indefinito, o l’essere – o come forza produttrice della realtà. Finché ha retto l’ambiguità, nessuno notò la distinzione ma quando Senofane di Colofone (VI-V secolo a.C.) venne alla ribalta si giunse allo scontro: le divinità dei sacerdoti furono accusate di immoralità e di irrazionalità – «Ma se i buoi e i cavalli […] avessero mani, […] i cavalli dipingerebbero immagini di dei simili a cavalli, e i buoi simili a buoi» –, e persino di essere impresentabili
alla gente per il fatto di dare un pessimo esempio – «Attribuirono agli dei, sia Omero sia Esiodo, tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di vergogna» (DK 21 B 11). Al contrario di quanto la fede olimpica propone, per Senofane, si deve credere che dio è il cosmo nella sua interezza, «ingenerato, eterno e incorruttibile, […] uno solo, sommo tra gli dei e gli uomini, né per figura simile ai mortali, né per pensiero».
Con ciò il termine dio
, fin dalle origini adottato dai filosofi, venne disambiguato
cioè distinto nelle due componenti che lo costituivano: da una parte la divinità (o le divinità) personali oggetto della cura dei sacerdoti, dall’altro il divino nella forma dell’archè, ideato e sviluppato dai filosofi.
Questi due principi divennero progressivamente incompatibili fino al punto di incandescente ostilità che il poeta romano Lucrezio – filosofo epicureo del I secolo a.C. – esprimerà con queste parole: «Mentre la vita umana giaceva sulla terra, oppressa dal grave peso della religione (cioè del dio
) un uomo di Grecia (Epicuro) che le leggende degli dei non domarono osò infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo (cioè del principio divino
)».
Si creò in tal modo, un rapporto di proporzionalità inversa fra la devozione, pietas, agli dei e la religiosità, intesa filosoficamente come anelito alla conoscenza del sommo principio: quanto più cresceva l’una tanto più diminuiva l’altra. Il punto di rottura di questo confronto si ebbe con Socrate. Socrate – se non il più grande, certamente il più sfortunato dei filosofi –, nella situazione che abbiamo illustrato, fu in un certo senso il capro espiatorio: profondamente religioso, di una religiosità operativa, aveva ricevuto da dio il mandato di esercitare la filosofia a vantaggio dei suoi concittadini e, oltre a ciò, il dio stesso lo guidava – per la precisione il daimonion, cioè la voce divina
che lo consigliava – passo dopo passo nei suoi rapporti con gli altri. E siccome era religioso, per la formula che abbiamo appena espresso, non era né pio né devoto. Potremmo dire, con una formula anselmiana, che era «curioso di dio» – cioè di quello che chiamavamo divino
– alla maniera dei filosofi e non devoto agli dei della tradizione. Ma nella sostanza, qual era il suo divino
?
Non si sa. Nel senso che, propriamente, non l’ha mai definito, o se l’ha fatto, nessuno ha mai raccolto la sua testimonianza. Invece, quello che ha proclamato a chiare lettere è, sulla linea di Senofane, una chiara avversione per la religione ufficiale: «Ma è proprio questa, o Eutifrone, la ragione per cui sono accusato: perché, quando uno mi narra cose simili intorno agli dei, duro fatica ad accettarle». L’accusa di cui parla è la seguente: «Socrate non crede negli dei della Città, introduce nuovi dei [con riferimento alla voce divina che diceva di sentire], corrompe i giovani con le sue dottrine e semina dubbi». Tutti sanno come è finito il processo.
Al partito di Senofane
– quello, per così dire, anti-mitologico – bisogna iscrivere pure Platone, anch’esso filosoficamente religioso, e se si vuole anche Aristotele, il primo teologo in senso proprio. Con gli stoici e il celebre Inno a Zeus di Cleante, si ricompose il binomio fides e ratio in rapporto a dio ma furbescamente
sbilanciato verso la ratio, perché Zeus, il theos, è un nome o una funzione del principio del logos – la ragione –, cioè il theion.
Da questo momento filosofare è come pregare, per il fatto che anche i miti che parlano degli dei esprimono in termini figurati gli stessi argomenti della teologia, quando vengano tradotti secondo le regole dell’allegoria, di cui peraltro gli stoici furono gli inventori e i propugnatori.
Per quanto Anselmo non avesse grande conoscenza del pensiero antico – aveva, infatti, a disposizione poche fonti e in campo teologico tutt’al più poteva disporre del Timeo attraverso la mediazione di Agostino –, si può ben inquadrarlo nella linea programmatica che abbiamo fin qui illustrato e comprenderlo nell’intento metodologico di far uso della sola ragione. Non, però, per contrastare una fede nemica dell’uomo e opprimente – come quella concepita da Lucrezio –, né per gusto di competizione, ma, anzi, per dare a una fede ritenuta giusta tutta la forza e lo slancio che la sola ragione sa dare, gettando luce su aspetti nascosti all’occhio di chi non è filosofo.
Al seguito di questo atteggiamento – precisa Luca Odini nella sezione Temi
–, filosofia e teologia assunsero linguaggi e profili diversi e specifici, mentre l’indagine razionale su Dio guadagnava una legittima indipendenza dall’individuale percorso di fede.
Insomma, Anselmo prolungò l’opera di disambiguazione degli antichi ma senza mai uscire dai confini della sua fede e muovendo da posizioni opposte rispetto ai pensatori greci, la cui strumentazione concettuale era sostanzialmente sprovvista della nozione di volontà e quindi di peccato, estranea alla creazione dal nulla – ritenuta, anzi, un vero e proprio paradosso –, e soprattutto, per quanto concerne la tradizione platonica e aristotelica, avversa all’idea di un dio che potesse assumere la stessa natura corporea dell’uomo.
I temi
Immagine seguita da didascaliaTratto dal volume Les vrais Pourtraits et Vies des Hommes illustres, il volto di sant’Anselmo ci viene restituito in questa incisione del 1584, su disegno di André Thévet.
IL CONTESTO FILOSOFICO
Il tempo in cui si trovò a vivere Anselmo fu particolare sotto moltissimi punti di vista. Il mondo intellettuale era in fermento: si sentiva sempre più urgente il bisogno di riordinare il materiale e il bagaglio di conoscenze possedute, sperimentando e fissando modi nuovi di utilizzare tale sapere. Una fedeltà puramente recettiva rispetto all’eredità lasciata dall’antichità classica e cristiana risultava assai difficile da immaginare. Possiamo in qualche modo dire che proprio per questi motivi incominciarono a fiorire la dialettica e la retorica insieme a una nuova letteratura.
Nacquero nuovi luoghi di creazione e di elaborazione del sapere e, tra questi, i più produttivi furono senza dubbio le nuove scuole che sorsero all’ombra di monasteri o cattedrali: in quest’orizzonte il pensiero teologico e filosofico incominciava a ripensarsi con un’identità diversa rispetto a quella classica.
Filosofia e teologia non avevano confini così netti e anche quando si volevano affrontare temi di carattere squisitamente filosofico lo si faceva riconducendoli sempre nell’alveo teologico; diversamente non era pensabile. In effetti fu proprio questo uno dei problemi con cui si dovette scontrare Anselmo e le difficoltà nacquero in seno all’applicazione metodologica delle dottrine filosofiche, in particolare nel rapporto tra teologia e dialettica.
Si può citare in modo paradigmatico la famosa controversia eucaristica di Berengario di Tours (998-1088) che tentò di sottoporre la dottrina eucaristica all’applicazione di principi dialettici, risolvendo tale disputa in favore della ratio con cui operava. Appare evidente come il rapporto tra ratio e auctoritas obbligò pensatori laici e religiosi a una presa di posizione in merito.
Il vecchio
pensiero teologico cercava di spiegare un’autorità attraverso l’altra, citando sentenze e pensieri dei Padri della Chiesa raccolti nei cosiddetti florilegi
, mentre la nuova dialettica auspicava un’applicazione del metodo logico-dialettico anche a questi testi. Pur con un po’ di semplificazione potremmo quasi sostenere che le opere di Anselmo si collocano tutte all’interno di questo orizzonte.
Per comprendere meglio l’opera dell’autore sarà bene specificare come vada sicuramente osservato che le basi di cui disponevano i pensatori dell’epoca, sia per le auctoritates ecclesiastiche sia per quelle filosofiche, erano piuttosto esigue sia per quanto riguarda la mole di materiale che avevano a disposizione sia per la qualità dello stesso.
Su questa base piuttosto incerta dal punto di vista filologico della conoscenza dei Padri della Chiesa non si poteva certo affermare che la tradizione filosofica classica godesse di miglior salute.
Platone poteva essere conosciuto dal Timeo o attraverso la mediazione di Agostino, due scritti di logica di Aristotele erano sicuramente conosciuti ma bisognava affidarsi in questo campo alla mediazione di Porfirio e Boezio; nel XII secolo, con l’apertura di orizzonti data dai contatti con ebrei e arabi in Spagna, Siria e Costantinopoli, iniziò un’intensa attività di traduzione che portò ad avere ben presto a disposizione l’intera Logica di Aristotele e una quantità sicuramente maggiore di fonti platoniche.
Si possono osservare anche due curiose coincidenze: è fuori discussione che in un primo periodo di quel tempo che chiameremo scolastica, l’autorità principale in campo filosofico fosse Platone e nello stesso tempo le opere filosofico-teologiche prodotte risentivano di una lingua letterario-poetica plasmata dalla Bibbia, dai Padri e dalle opere classiche. Con il progredire della dialettica e della filosofia aristotelica anche la lingua si modificò, tralasciando aspetti stilistico-poetici, per privilegiare un apparato concettuale più preciso, che sicuramente influiva anche sulla forma. La filosofia e la teologia europea devono molto in questo senso alla scolastica, che contribuì a creare e a rimodellare il latino classico in una lingua filosofica diversa e sicuramente più puntuale dal punto di vista contenutistico.
Questa capacità di rielaborazione e di creazione di un nuovo sistema logico-concettuale si rese possibile grazie alla libertà di cui godevano le nascenti istituzioni universitarie, smarcate da influenze di stati o Chiesa, e allo stesso tempo dall’affermazione di un ceto accademico cui era richiesta solo ed esclusivamente conoscenza scientifica.
Il nostro bisogno di certezze e di categorizzazioni ci ha sempre portato a cercare se vi fosse, e con chi coincidesse, un netto momento di stacco e di inversione tra ratio e auctoritas dando così inizio a quello che abbiamo definito il periodo della scolastica e in molti furono concordi nel vedere in Anselmo d’Aosta questo personaggio. Ci sentiamo in qualche modo di prendere le distanze da ogni pretesa di ingabbiare o incasellare con nostri concetti e principi storici la realtà e la complessità di un tempo e di personaggi che si sforzavano di rivisitare e di rielaborare il pensiero alla luce dello sviluppo degli eventi tipici del trascorrere della storia, ma allo stesso tempo non si può negare che questo autore abbia rivestito un ruolo di primaria importanza.
LE OPERE
Tutte le opere di Anselmo vanno lette come strettamente collegate tra loro le une con le altre, come se fossero una grande summa del sapere cristiano, a sua volta composta da lavori che se possono essere letti anche indipendentemente gli uni dagli altri, assumono un significato più profondo e più ampio se contestualizzati all’interno del piano più generale dell’autore. Comprendere tali aspetti e partire da questi per delinearne un profilo intellettuale ci pare piuttosto saggio.
Come sappiamo Anselmo spese la sua vita alla ricerca di Dio all’interno del solco della tradizione monastica. A ventisei anni, nel 1059, approdò all’abbazia del Bec dove solo un anno dopo ricevette l’abito monastico.
Proprio in quell’abbazia ebbe come confratello il famosissimo Lanfranco che non solo fu un suo sicuro riferimento di carattere spirituale e intellettuale ma lo precedette anche nel ricoprire la gravosa carica di arcivescovo di Canterbury.
Quello che ci può interessare di questo periodo, che arriverà fino al 1093, deriva dal fatto che qui Anselmo riuscirà a trovare quella tranquillità che gli servì per pacificare il suo animo sensibile e acuto, per soddisfare
