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I mangiafemmine
I mangiafemmine
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I mangiafemmine

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About this ebook

A un passo dalle elezioni, la placida vittoria di Valerio Corti – uomo forte dei Conservatori – è minata da una vera e propria epidemia di donne, di donne ammazzate a casa, dai mariti, dagli amanti, dagli ex fidanzati, donne fatte a pezzi da compagni devoti. Ma il candidato premier non intende occuparsene, perché le donne sono sempre morte, perché le donne per bene, normali, le madri di famiglia, le fidanzate discrete non corrono rischi. Oltre ogni strategia politica però pare che la strada della sua incoronazione a presidente del consiglio sia lastricata di sangue, con l'opinione pubblica che chiede conto e le poche voci delle attiviste che gridano al massacro. Ma c'è davvero un'epidemia di donne? C'è davvero un problema? E che cosa succede quando la politica, un'intera classe politica, uno Stato, il problema non sono in grado di risolverlo? Con I mangiafemmine Giulio Cavalli firma la sua opera più radicale e provocatoria, con lo stile riconoscibile di un narratore raffinato che non ha paura di raccontare un mondo che già c'è. DF è ora più che mai lo specchio oscuro di una società in cui non vorremmo mai guardarci.
LanguageItaliano
PublisherFandango Libri
Release dateNov 14, 2023
ISBN9788860449993
I mangiafemmine

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    I mangiafemmine - Giulio Cavalli

    I MORTI

    Lei e lui

    LUI

    Tullio cominciò a trasformarsi in topo il 3 marzo. In pieno orario di ufficio, chino a ticchettare la tastiera del suo computer, fu interrotto dall’incaricata all’ordine. Chiamava così le donne delle pulizie perché riteneva inelegante qualsiasi altra definizione. Pulizie e donne, aveva detto ai suoi colleghi e aveva pacatamente illustrato ai suoi collaboratori, sono un binomio che sa di passato, di modi fuori tempo. Il rispetto si è evoluto come tutto il resto, aveva spiegato. Si evolve la tecnologia, si evolve il nostro approccio alla progettazione del flusso di lavoro, si evolvono i toni con cui scriviamo le lettere commerciali per non parlare di come si evolvono le comunicazioni sociali sugli account della nostra azienda. Quelle poi, aveva aggiunto, si evolvono nel giro di una notte, mannaggia, e concluse confidando di risultare simpatico. No, niente. Tullio Ravasi possedeva molte qualità: l’ordine disciplinato, la capacità di analisi, un talento nella mediazione che sfociava nel parossismo, la magia di riuscire a essere d’accordo con due opinioni opposte nella stessa discussione, nell’arco di pochi minuti. Peggio, Ravasi avrebbe potuto allinearsi nella stessa giornata con i generali di una decina di eserciti in guerra tra loro senza nemmeno sgualcirsi. Anche per questo piaceva al direttore, Marco Miano, sempre troppo imbolsito dall’alcol per trovare un bravo sarto su misura. Diceva Miano che, tra i pregi di Ravasi, non si doveva commettere l’errore di dimenticare il suo impegno lento ma incessante. Per vincere non sempre conta essere i più veloci, a volte basta partire prima, come Ravasi, diceva Miano in quei brindisi con i bicchieri di plastica troppo molle che singhiozzano il vino se vengono schiacciati per un fremito. E sorrideva Tullio, eccome se sorrideva, per quel complimento che inghiottiva con un senso di rivincita perché era anche veloce, lui, lo sapeva Tullio di essere veloce. E se gli altri non se n’erano accorti o convinti, meglio così. Non aveva, questo lo può sottoscrivere chiunque l’abbia conosciuto, nessun cenno di simpatia. Quando si sforzava di risultare simpatico, prendeva troppa rincorsa, gli si disegnava un ghigno da tombino di ghisa e scrollava la gamba come per disfarsi di un ragno sul polpaccio. Come può risultare simpatico chi non ha la percezione del tempismo?

    Quel 3 marzo, quando a Tullio Ravasi spuntò una coda di anelli di carne molle, c’era la pausa caffè. Pausa obbligata per concedere alle incaricate all’ordine di dare una passata veloce alle postazioni, prima di tornare con la pulizia profonda della sera. Si alzò dalla sedia ergonomica con un cigolio di plastica e viti, spalmò la cravatta, guardò per decidere di non indossare la giacca e si avviò verso la stanza del ristoro. Porta a vetri, parquet stritto dal cuoio delle suole, falcata media verso la stanza dei distributori automatici, avrebbe preso un caffè senza zucchero. Lo preferiva macchiato ma quella macchinetta di merda non scioglieva il latte che galleggiava a grumi. Espresso, senza zucchero, glang del bicchierino che gli ricordava il copricapezzolo di una domatrice di elefanti. La stagista lasciò il posto. Prego, faccia pure, disse lei scostandosi e lui fu sicuro di vederne il clitoride sotto il labbro superiore spuntare tra le palette. Gli capitava, era ormai qualche anno, di vedere le colleghe d’ufficio nude. Le immaginava a pecorina quando recuperavano la borsa dall’auto nel parcheggio sotterraneo. Alla stagista pesò il seno calcolando la tensione della maglia. Non c’era bisogno che fossero vestite appena scoperte o fantasiose. Aveva imparato a spogliare le donne anche sul letto di morte, scostando il lenzuolo con i denti per gustarsi lo spettacolo più da vicino. Intuiva le forme coperte dai vestiti più abbondanti, desumendo la larghezza delle anche dall’oscillazione del passo. Sentiva le mani sotto la cravatta senza bisogno di sfiorarle. Quella sardonica fantasia gli si era accesa anche se aveva smesso con i porno guardati sul cellulare e con i pantaloni abbassati sdraiato nel cesso, il culo nudo sul freddo delle piastrelle, la sabbia delle suole e chissà forse sul piscio degli altri. Il porno dallo schermo del telefono si era iniettato nel dito, salito al polso, navigato il braccio, attraversato il collo e s’era conficcato come una lente dietro gli occhi. Passerà, si era detto Tullio Ravasi e invece non era passato, era diventato un terzo occhio. Il più delle volte lo controllava ma talvolta non ne era capace. Quando usciva da una concentrazione troppo assorta, quando beveva con il caldo o quando si sentiva sporco. Ultimamente si sentiva sporco sempre più spesso. Uno sporco come qualcosa tra i denti, ma infilato in tutto il corpo.

    La stagista aveva bisogno di quel lavoro. Non era una stagista perché i genitori hanno perso la pazienza, questa percorreva lo stage per trovare un reddito alla fine del corridoio. Poveretta. Provò pena, Ravasi. Nessuno dovrebbe mai trovarsi nella situazione di avere bisogno di un lavoro, pensò Tullio Ravasi. Quando si scopriva compassionevole, si sentiva una persona migliore ma sotto la crosta aumentava lo sporco, il nero sotto le unghie.

    Come va, come si trova?, chiese lui.

    Bene, rispose lei, tutto bene grazie, e abbassò le ciglia da prostituta cilena.

    Indossava caviglie sottili, cosce come prosciutti, fianchi maniglie, un corpetto vassoio delle tette, un collo agile, mascelle volitive, la bocca una vagina orizzontale. Il resto non lo vide, il terzo occhio oscurava il pleonastico.

    Si augura di restare?, chiese lui.

    Certo, rispose lei.

    Non vorrei essere indiscreto, disse lui, ma non ha qualche bel fidanzato che le consenta di lavorare senza preoccupazioni?

    A Tullio Ravasi esplose una sacca di sangue sul pavimento del cervello. Aveva tenuto diverse lezioni sul benessere aziendale, non aveva mai osato infrangere le regole che dettava. Fu una sensazione di onnipotenza. La stagista sperò di riuscire a non rispondere ma la pausa che venne dopo le strinse la gola. Sorrise.

    Non scherzo, disse lui.

    Eh, sì, ne ho bisogno, di lavorare, concesse allora lei. Poi con un moto aggiunse che non si vergognava di avere bisogno di soldi per vivere.

    Certo, disse lui, gli si erano forati i capillari e voleva umiliarla per rosolarla. Però allora non si deve vergognare nemmeno di essere disposta a riconoscerlo, disse lui.

    Riconoscere cosa?, chiese lei.

    Riconoscere che questo è il mondo dei furbi, mica dei coraggiosi, disse lui.

    Non la seguo, dottor Ravasi, disse lei.

    Coraggiosi, impudichi, disse lui mentre il ragno da scrollare gli era arrivato al pube.

    Credo di non capire, disse lei.

    Non capire non gioca a suo favore, disse lui.

    La stagista sperò di non dover rispondere, ancora. Qualcuno spruzzò un profumo finto di centro massaggi cinese.

    Dai su, non perdiamo tempo, disse lui. Lo vuole questo lavoro?, e lei rispose che certo, sì, l’aveva detto all’inizio di questa discussione ora un pelo imbarazzante. Imbarazzante? Tullio Ravasi spremette in quella domanda l’autorità tossica che aveva imparato combattendola, usò un tono risentito e vetrato. La stagista si ritrasse. Una tartaruga che rientra ma ha perso il carapace. Mi potrei risentire io sentendomi dare dell’imbarazzante, disse lui. Imbarazzante non era riferito a Ravasi, pensò la stagista, ma l’errore era il messaggio. Non bene, non bene, per niente bene, borbottò lui mentre girava il caffè di acque nere. Tullio Ravasi sentì un’erezione a cui erano spuntati i denti. Ogni dente che sbocciava ripeteva un non bene più cattivo, più tronfio. Mancare di rispetto, a un superiore, disse lui, per di più mentre si è in prova, è una mossa stupida. Lei pensò che scherzasse. Non scherzava. L’aveva provocato senza accorgersene, pensò lei, e ora giustamente si era irritato.

    Ci vorrebbe un bacino, disse lui.

    Un bacino?, chiese lei gocciolando terrore ma indossandolo con eleganza, sopra le spalle.

    Non scherzo, disse lui.

    Non scherza, disse lei.

    La stagista ingoiò un respiro e lo baciò su una guancia. Dovette curare di non pulirsi. Tullio Ravasi provò l’ubriacatura. È questa l’autorità? Perché non aveva mai avuto il coraggio di pretenderla?

    Non qui, disse lui.

    Qui dove?, chiese lei.

    Il bacio non qui, disse lui.

    Perché?, chiese lei.

    Che domanda stupida, pensò lei.

    Il danno è fatto, disse lui.

    Che danno?, chiese lei.

    Offendere un superiore, disse lui. Come può sperare di essere assunta se si comporta così?

    Lei qui avrebbe dovuto chiedere così come? ma era di sale. Scema. Il bacio non qui, disse lui, e Tullio Ravasi chiuse felino la porta della stanza per il ristoro, girò la chiave come un leopardo ruberebbe un’auto lasciata fuori da una stazione e si slacciò i pantaloni.

    La stagista aveva disperatamente bisogno di quel lavoro. E così Tullio Ravasi divenne topo.

    LEI

    Frida quel 3 marzo lo trovò spento di una spentezza nervosa, pronta a implodere. Quando lo aspettava dopo il lavoro, era pronta a caricarsi le scarpe sfilate con fastidio appoggiato con un braccio alla porta d’ingresso, avrebbe potuto disegnare i suoi occhi bassi mentre si scambiavano un bacio da ospedale. La traiettoria, sempre quella. Un trascinamento che attraversava il corridoio, sfiorava la cucina a naso alzato per riconoscere la preda sul fuoco, i baffi che di colpo si facevano molli, il divano della sala occupato come un varo storto a cui non è venuto nessuno. Com’è andata?, chiedeva lei, e lui rispondeva normale, diceva sempre così, la e era una foglia incastrata in una grata. Com’è andata?, chiese lei quel 3 marzo e lui rispose: Solito. Un matrimonio come devono essere i matrimoni. La madre di Frida aveva girato il mondo, moglie a cui per cent’anni avevano chiesto dove fosse suo marito all’inizio di ogni conversazione. Suo padre, una vita da piccolo imprenditore diventato medio. A DF gli imprenditori piccoli non esistevano più dagli anni ottanta, quando si erano spostati tutti in seconda corsia, anche quelli che viaggiavano comunque a sessanta all’ora. Il tuo matrimonio è esattamente come devono essere i matrimoni, le disse sua madre quando, per la prima volta, Frida le fece presente quel soffocante senso di consunzione che le galleggiava in gola ogni sera che Tullio tornava a casa. Devi cogliere il lato bello, disse la madre, pensa a me, tuo padre rientrava, se andava bene, una volta alla settimana. La famiglia era una tappa del viaggio. Ci aveva provato Frida ad apprezzare il ripetersi stanco di quella litania. Non c’era riuscita. Il matrimonio è sacrificio, le dicevano. Pensa a cosa ha dovuto subire lui, cosa ha dovuto districare lui, quanti pesi si deve togliere insieme alle scarpe per non farli entrare in casa. Sono lì che grattano la porta, le preoccupazioni da cui ti salva.

    Frida Novelli avrebbe potuto essere una brillante segretaria, per qualche anno aveva coltivato questa assurda utopia. L’aveva anche fatto. Sistemava le carte e teneva in ordine le agende e i conti più spicci di Lucio Bizzotto della Bizzotto & Figli. Lui aveva peli neri sulle dita e si ungeva la camicia entro il primo pomeriggio. I suoi operai fabbricavano spalline che riempivano gli abiti di moda in quegli anni. Frida e Tullio da fidanzati andavano ogni venerdì a mangiare una pizza, Tullio era generoso e forte, Tullio rideva abbracciandola. Un venerdì le raccontò di essere stato promosso al lavoro, avrebbero dovuto sposarsi, non era cosa rimanere fidanzati troppo a lungo, anche per le chiacchiere in paese su Frida che sicuro non si sposava perché era rotta, non faceva figli e chissà quali altre sconcerie. Lei accettò commuovendosi con la faccia su una pizza ai quattro formaggi che s’erano fatti duri e freddi, lui le chiese di non fare quelle scene davanti a tutti. L’anello non ce l’ho mica, disse Tullio, e rise forte scompigliandole i capelli e abbracciandola a strattoni. A Frida mentre si sballottavano le vertebre e si sguinciava la mascella, salì quella sensazione in gola, un grumo di peli, di infelicità puttana che rovina sempre tutto. Non se l’era ancora perdonato di essersi rovinata un momento che avrebbe dovuto raccontare a tutti.

    Così ora puoi smettere di lavorare, disse Tullio.

    Come mi ama, pensò Frida.

    Ti vuole tutta per lui, dissero le amiche.

    È un uomo serio, disse il padre.

    Vuole darti una bella vita, disse la madre.

    Per la lettera di dimissioni Frida partorì la firma più ben fatta di tutta sua vita. Desiderava un’uscita di scena all’altezza della propria utopia. Avrebbe profumato la carta se non si fosse vergognata di un’idea tanto infantile.

    Quel 3 marzo Tullio, rientrato a casa, aveva detto solito al posto di normale. Nei sentieri stantii gli scricchiolii sembrano deragliamenti.

    È successo qualcosa?, gli chiese lei.

    Cosa deve succedere?, disse lui. Ti manca qualcosa? Tullio alzò la voce.

    Niente, ti trovo così stanco, disse Frida provando a spruzzare tenerezza. Non dico passione, quella ormai a una certa età era roba che lo innervosiva. Ma almeno tenerezza. Che poi la tenerezza è l’evoluzione dell’amore, ripeteva sua madre. Tullio si alzò dalla buca nel divano sollevandosi sui pugni. Che c’è per cena?, chiese. Andò in cucina, Frida che aveva amato il suo dinoccolare ora lo detestava. Tullio sollevò il coperchio di una pentola che sbottava. Ma con questo caldo, ’sta roba..., disse lui. Frida gli chiese cosa avesse.

    Ancora, disse lui.

    Ancora, sì, disse lei.

    Tullio si voltò. Lei pensò che erano anni che non lo vedeva a figura intera, piantato in cucina. Le venne in mente un uomo sconsolato e stropicciato sulla banchina che aveva perso il traghetto per un soffio. Frida provò quel gomitolo che le rantolava in gola ma contemporaneamente ebbe un moto di misericordia. Com’era invecchiato Tullio, la faccia che gli cade, liso, quel colore della pelle vetrocemento. Avrebbe voluto abbracciarlo. Lei si avvicinò, lui corteccia.

    Non voglio essere invadente, gli disse lei, voglio solo sapere come stai. Passo la giornata ad aspettare che torni, ti chiedo di capirmi.

    Trascorri la giornata con la massima preoccupazione di farmi trovare una cena, scusami se proprio non riesco a compatirti, disse lui.

    Era cattivo. Tullio si faceva sempre cattivo quando non sapeva come rispondere. E tu non metterlo sotto pressione, spiegava a Frida sua madre. Non è cattivo, è stanco, è sempre troppo stanco, non ce ne sono tanti che prendono sul serio il lavoro come lui, dicevano le amiche.

    Senti Frida, disse lui prendendola per le braccia come se la dovesse caricare su un rimorchio. Non l’aveva mai toccata con quel piglio. Te lo spiego per la milionesima volta ma vorrei che ti entrasse bene in testa: dopo una giornata di lavoro io non ho voglia di parlare, non ho voglia di ascoltare, non ho voglia di pensare. Non è maleducazione nei tuoi confronti, le spiegò Tullio, è che merito anch’io di staccare a fine giornata. Non trovi?, chiese lui.

    Sì sì, rispose Frida.

    Benissimo, disse lui.

    Non volevo, giuro, disse lei ma lui la interruppe dicendole che non faceva niente. La baciò sulla fronte, la sua lingua fu un tappeto di verruche.

    "Allora

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