Clima, Storia e Capitale
By Dipesh Chakrabarty and Matteo De Giuli (Editor)
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Book preview
Clima, Storia e Capitale - Dipesh Chakrabarty
Nota dell’editore
I due saggi di Dipesh Chakrabarty raccolti in questo volume sono stati, come scrivono i curatori Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi nell’appassionata introduzione, un punto di riferimento essenziale per il confronto tra le scienze umane e quello che, con urgenza sempre crescente, i geologi e altri scienziati della natura hanno definito Antropocene: l’epoca segnata dalla drammatica impronta ecologica
degli umani – divenuti potenza geologica
– sul pianeta. La crisi antropogenica del sistema terrestre problematizza le visioni moderne del mondo impostate ed esportate dall’Occidente, mettendo in discussione la nozione stessa di comprensione storica
: per Chakrabarty è necessario che il pensiero storico e politico-economico inserisca tra gli elementi in gioco non più solo il tempo breve e documentato delle società umane, ma quello profondo dei cambiamenti che hanno segnato (e segnano) la Terra e l’evoluzione di tutti i suoi abitanti, umani e non. Da quest’approccio derivano una serie di domande decisive: in che modo la storia del capitalismo e dei suoi limiti ecologici strutturali si sovrappone a quella ben più lunga – e non antropocentrica – della vita sul nostro pianeta? Come si intrecciano, cioè, il globale
e il planetario
? Come pensare e agire su una scala non-umana o in-umana
(nella prospettiva aperta dalla crisi, gli umani sono incidentali) con i mezzi di cui disponiamo, sviluppati su una dimensione temporale a noi familiare? L’emergenza planetaria ha aperto crepe e lacune
sotto i nostri piedi, mostrando come la Terra sia altro da noi. Un presupposto di enorme portata e difficoltà, ma indispensabile a ogni politica complessiva del cambiamento climatico.
Dipesh Chakrabarty è professore di Storia all’Università di Chicago. Il suo Provincializzare l’Europa (Meltemi, 2000) si è imposto come un classico del pensiero post-coloniale. Nel 2014 ha ricevuto il Premio Toynbee e da una dozzina d’anni è tra gli autori più citati nel dibattito sul cambiamento climatico.
Matteo De Giuli è senior editor del Tascabile di Treccani. Scrive per diverse riviste culturali, cartacee e on-line. Ha collaborato con Rai3 e Radio3.
Nicolò Porcelluzzi è redattore del Tascabile di Treccani e autore di podcast. Ha scritto per Internazionale e altre riviste.
Insieme, De Giuli e Porcelluzzi hanno scritto MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo), pubblicato da NERO editions nel 2021.
logo nottetempoClima, Storia e Capitale
ISBN 978-88-7452-936-0
Titolo originale: The Climate of History: Four Theses
(Critical Inquiry 35.2, Winter 2009, pp. 197-222); Climate and Capital: On Conjoined Histories
(Critical Inquiry 41.1, Autumn 2014, pp. 1-23)
Licensed by The University of Chicago Press, Chicago, Illinois, USA
Critical Inquiry 35.2:
© 2008 by The University of Chicago Press. All rights reserved
Critical Inquiry 41.1:
© 2014 by The University of Chicago Press. All rights reserved
© 2021 nottetempo srl
nottetempo, Foro Buonaparte 46 – 20121 Milano
Progetto grafico: Dario Zannier
Copertina: Fabio Zenobi
www.edizioninottetempo.it
nottetempo@edizioninottetempo.it
Dipesh Chakrabarty
Clima, Storia e Capitale
A cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi
Traduzione di Andrea Aureli
logo nottetempoIndice
Introduzione: Chakrabarty e la natura della società
di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi
Clima, Storia e Capitale
Il clima della storia: quattro tesi
Clima e capitale: storie congiunte
Note
Introduzione: Chakrabarty e la natura della società
di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi
Lo studio della natura ci mette di fronte ai nostri limiti cognitivi: davanti al non umano, spesso non vediamo e non tocchiamo davvero, e fatichiamo a capire. Per misurare il resto
ci inventiamo cose che non stanno né in cielo né in terra, come per esempio il livello del mare. Più che un fenomeno, un concetto. Non è però soltanto un metro di paragone, il mare è un’interfaccia: si macchia, specchia, ospita microplastiche e megattere, si lascia tirare, schiacciare, trivellare… la sua forma si attacca alla nostra vista, così come quella che chiamiamo la sua misura dipende dalla nostra tecnologia. Ma per quanto lo si circondi di satelliti e sonde, per quanto si cerchi di cablarlo e calibrarlo, la sua superficie resta più vasta delle nostre capacità di previsione: succede che travolga intere città, che bruci, che fiorisca di carcasse da trascinare a riva.
All’inizio del 2020, qualche settimana prima della monopolizzazione del ciclo di informazione da parte di SARS-CoV-2, una delle tante notizie di devastazione ecologica si è propagata per qualche giorno, forse qualche ora, perdendosi poi in mezzo alle altre. La notizia nasceva dalla pubblicazione di uno studio dell’Università di Washington intorno al ritrovamento di sessantamila cadaveri di urie comuni, un uccello diffuso sulle coste atlantiche del Nord America più settentrionale e del Portogallo, ma anche sul bordo del Pacifico, dall’Alaska e dalla Columbia Britannica fino alla California. I cadaveri si erano ammucchiati tra l’estate del 2015 e la primavera del 2016, soprattutto lungo le coste di Alaska, Washington, Oregon e California. Secondo i ricercatori però, dato che la maggior parte degli uccelli morti non era arrivata a riva, il totale dei cadaveri andava stimato intorno al milione di esemplari.
A uccidere un milione di urie comuni è stata un’enorme bolla di acqua calda. Negli anni ’10 abbiamo assistito a gravi aumenti di temperatura delle acque oceaniche, soprattutto nella stessa finestra temporale della morte delle urie, accelerati in quel caso dal Niño (un’oscillazione periodica del sistema oceano-atmosfera legata a variazioni di temperatura nell’Oceano Pacifico tropicale
¹), che è andato ad aggravare la condizione anticiclonica ormai presente da anni.
Gli anticicloni si formano quando una massa d’aria si raffredda, contraendosi e addensandosi, aumentando quindi il peso dell’atmosfera e la pressione dell’aria sulla superficie. Il mare, già ogni anno più acido per il surplus di carbonio antropico, aumenta così di temperatura. L’enorme bolla d’acqua calda, in quella finestra temporale, ha innalzato la temperatura media di quella fetta di mare di 6 gradi Celsius, estendendosi per oltre un milione di chilometri quadrati: un’area pari a due volte la Spagna, che nella sua espansione sterile e anossica ha inglobato e reciso diverse catene alimentari.
Secondo lo studio citato le urie, che ogni giorno dovrebbero mangiare il corrispettivo di metà del loro peso corporeo per sopravvivere, sono morte di fame. Questo perché il metabolismo di salmoni e halibut, che si sono ritrovati a loro volta con poco cibo a disposizione, li ha portati a cacciare pesci più piccoli del solito: il risultato è stato meno cibo per le urie, più morti, meno nati.
Tra le stagioni riproduttive 2015 e 2016, più di 15 colonie non hanno prodotto nemmeno un pulcino. I ricercatori hanno precisato che queste stime potrebbero essere basse, dato che monitorano solo un quarto di tutte le colonie, e hanno scoperto anche altri effetti della bolla di acqua calda, tra cui una vasta fioritura di alghe nocive lungo la costa occidentale degli Stati Uniti che è costata alla pesca perdite per milioni di dollari².
Julia Parrish, coautrice dello studio e docente della Washington University, ha aggiunto che anche altri animali sono morti, tra cui leoni marini, pulcinelle di mare e balene
³.
La morte degli ecosistemi è silenziosa, e spesso ci concede solo poche immagini sparute: il candeggiarsi dei coralli, gli olocausti di animali sulle spiagge… L’attività antropica, invece, con i suoi calcoli scalibrati, non manca mai di stupirci: il 2 luglio 2021 un gasdotto sottomarino di Petróleos Mexicanos, l’azienda petrolifera statale messicana, a seguito di un guasto ha scatenato un incendio sulla superficie delle acque del Golfo del Messico. Pemex ha dichiarato che il guasto è stato causato dalla caduta di un fulmine; inoltre, ha dichiarato di avere chiuso le valvole del gasdotto cinque ore dopo l’inizio della perdita di gas. Nel giro di ventiquattr’ore, settantatré milioni di persone hanno visto il video dell’enorme palla di fuoco nell’oceano.
L’oceano brucia, e con lui le terre. Ogni anno, circa il 5 per cento della superficie terrestre australiana è colpita da incendi: dal luglio del 2019 al marzo del 2020 è andato in fumo il 10 per cento della produttività primaria netta del continente, ovvero la sua capacità di fotosintetizzare l’energia solare. Di ripararsi dal sole e farne qualcosa di utile alla vita. Tra ottobre e gennaio, a cavallo fra la primavera e l’estate australiana, sono bruciati 8 milioni di ettari di terreno, il doppio della superficie complessiva colpita dagli incendi del 2019 in Siberia e in Amazzonia, e pari all’80 per cento di tutte le foreste italiane.
A bruciare in Australia non è stata la foresta, ma il cosiddetto bush, popolato da piante in realtà pirofite e pirofile, impregnate di resine infiammabili e al tempo stesso cariche di semi praticamente impermeabili al fuoco. Come precisa Giorgio Vacchiano, ricercatore forestale all’Università degli Studi di Milano:
In Australia, metà delle accensioni sono causate da fulmini, e metà dall’uomo per cause sia colpose che dolose. Il 2019 è stato in Australia l’anno più caldo e più secco mai registrato dal 1900 a oggi. Nell’ultimo anno le temperature medie sono state di 1,5 gradi più alte rispetto alla media 1961-1990, le massime oltre 2°C in più, ed è mancato oltre un terzo della pioggia che solitamente cade sul continente. La straordinaria siccità australiana è stata generata da una rara combinazione di fattori. Normalmente il primo anello della catena è El Niño, un riscaldamento periodico del Pacifico Meridionale che causa grandi cambiamenti nella meteorologia della Terra, ma quest’anno El Niño non è attivo. Si è invece verificato con un’intensità senza precedenti un altro fenomeno climatico, il Dipolo dell’Oceano Indiano (IOD) – una configurazione che porta aria umida
