Schiavo d'amore: I Grandi Romanzi Storici
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Appena Anna di Heraclea posa gli occhi su un giovane in vendita al mercato degli schiavi di Costantinopoli, un'idea tanto assurda quanto allettante le balza alla mente: comprarlo e sposarlo per impedire al padre di combinarle un matrimonio indesiderato. Ma quell'uomo attraente e dall'animo nobile non è un prigioniero qualunque, bensì un cavaliere franco, Guillaume Bradfer, che è stato vittima di un orrendo tradimento. Così, in cambio di quel servigio, Anna gli promette la libertà. È una proposta allettante che Guillaume non può certo rifiutare. Tanto più che nel frattempo si è innamorato perdutamente di Anna.
Carol Townend
La passione per il Medioevo ha portato l'autrice a studiare storia all'università di Londra e poi a prediligere quel periodo per l'ambientazione dei suoi romanzi d'amore. Vive con il marito e la figlia vicino a Kew Gardens.
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Schiavo d'amore - Carol Townend
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Chained to the Barbarian
Harlequin Historical
© 2012 Carol Townend
Traduzione di Federica Isola Pellegrini
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5898-831-2
Frontespizio. «Schiavo d'amore» di Townend Carol1
Guillaume digrignò i denti, deciso a non perdere conoscenza. Scure, impetuose ondate minacciavano di privarlo della vista, la testa gli pulsava dolorosamente a causa delle percosse che aveva ricevuto, ma non avrebbe perduto conoscenza.
Le bambine erano raggomitolate ai suoi piedi. Fino ad allora né Daphne né Paula erano state messe in vendita. Né lui. Be’, non era molto probabile che qualcuno lo acquistasse, malconcio com’era. Benché non fosse particolarmente religioso, adesso stava pregando. Signore, fa’ che non veniamo separati. Se fossero rimasti insieme, avrebbe potuto proteggerle un po’ più a lungo. Misericordia. Due bimbette minuscole, che non avevano che lui, un cavaliere diventato schiavo, per vegliare su di loro. Sapeva per esperienza che cosa significasse essere abbandonati in tenera età. E quelle povere creature erano perfino più piccole di quanto lo era stato lui quando... Non aveva importanza in confronto alle sofferenze che potevano venire inflitte a quelle orfanelle, che non erano certo in grado di provvedere a se stesse.
Non poteva riportare in vita la loro madre, ma, se fosse stato umanamente possibile, le avrebbe aiutate.
Qualcosa gli si abbatté sulla schiena. Il manico di una lancia. Mentre si avviava incespicando verso la pedana della sala delle aste, un’altra ondata di oscurità gli si rovesciò addosso. Le catene sferragliavano, imprigionando le sue caviglie, pendendo dai suoi polsi. L’oscurità era talmente impenetrabile da impedirgli di vedere davanti a sé. Sembrava che fosse l’imbrunire, ma la sera non poteva essere calata così presto. Avrebbe potuto giurare che non fosse ancora mezzogiorno.
Si sforzò di reggersi in piedi, tentando nello stesso tempo di conservare la lucidità. Si trattava di una battaglia, una battaglia impegnativa quanto tutte le altre a cui aveva partecipato, e non doveva fallire. Le bambine avevano bisogno di lui.
Percepì un forte ronzio nelle orecchie. Numerose macchie nere stavano svolazzando nella sala delle aste, simili a corvi in un campo di grano. Sapeva che cosa significava. Da un momento all’altro sarebbe crollato come un pioppo abbattuto. Le membra gli pesavano come piombo e i suoi movimenti, mentre saliva sulla pedana, erano estremamente lenti. La vista gli si schiarì a sufficienza da consentirgli di scorgere Paula e Daphne di fronte a lui sulla piattaforma soprelevata, aggrappate l’una all’altra. Gli occhi di Paula erano enormi, il suo viso terribilmente pallido. Sia lei sia la sorella erano stremate dalla fame, ovviamente, ma Guillaume aveva imparato che, nel misero mondo degli schiavi, la mancanza di cibo era uno dei mali minori. Arricciò le labbra. Il miscredente che stava tentando di venderli riteneva che affamare uno schiavo non fosse che un sistema per tenerlo sotto controllo. Si concentrò sulle bambine, augurandosi di essere venduto insieme a loro. Paula doveva avere... quanti, due anni? E Daphne solo pochi mesi. Sbatté le palpebre per sbarazzarsi delle macchie nere e un fiotto di bile gli salì alla gola. E pensare che aveva giudicato dura la sua esistenza precedente!
Una ciocca di capelli biondi gli cadde sugli occhi. Quando mosse la testa per scostarla, una fitta lancinante gli trafisse le tempie e il ronzio alle orecchie aumentò di volume. Nel frattempo, il furore gli si era insediato nello stomaco, corrosivo come un acido. Non avrebbe dovuto essere lì. Quello era il mercato degli schiavi di Costantinopoli e lui era in vendita. Un cavaliere sulla pedana su cui venivano esibiti gli schiavi. Gesù, che cos’era diventato il mondo?
Guillaume si costrinse a passare in rassegna quanto lo circondava. La pedana era situata al centro di un mercato coperto gremito di gente. Dei pilastri di pietra sostenevano il tetto. Con un sussulto, comprese per quale motivo le torce non erano state accese. La luce del sole irrompeva dalle arcate in stile romano, vivide lame che gli si conficcavano nel cervello come pugnali roventi. L’oscurità era stata evocata dalla sua mente esausta, dal suo corpo contuso.
Gli abitanti di Costantinopoli si stavano spingendo a vicenda, chiacchierando e ridendo mentre si assiepavano attorno alla pedana. Fissavano le bambine con gli occhi stretti. E lui.
Da quanto gli era dato di capire, la schiavitù era considerata un fatto comune, nel cuore dell’impero.
Era la seconda volta che veniva fatto salire su una pedana del genere. Non ricordava niente della prima, dato che lo avevano drogato per renderlo inoffensivo, anziché malmenarlo. La droga era risultata oltremodo efficace. Non si era accorto di niente finché non si era svegliato in catene per scoprire che lui, Sir Guillaume Bradfer, era diventato uno schiavo.
La collera per la propria sorte, per l’ingiustizia che aveva subito, gli torse le viscere. Era un cavaliere, non avrebbe dovuto trovarsi lì! Accantonò risoluto la rabbia, poiché avrebbe avuto tutto il tempo per abbandonarvisi il giorno seguente. Adesso le bambine avevano bisogno di lui.
Le macchie nere, i corvi... la sua mente era ormai incapace di distinguere la realtà dall’immaginazione... si stavano lanciando verso una lama di sole. Sbatté di nuovo le palpebre e riuscì a mettere a fuoco la stanza. Colonne. Due bambine. Estranei che esaminavano, che valutavano.
Non doveva perdere i sensi. Doveva accertarsi che Daphne e Paula non fossero comprate da un uomo malvagio come l’ultimo. L’oscurità non lo avrebbe inghiottito finché non avesse saputo che erano al sicuro...
La sala delle aste oscillò, i corvi si innalzarono, la luce gli ferì gli occhi. Mordendosi la lingua, lui percepì il sapore del sangue. Anche se neri brandelli guizzarono ai margini del suo campo visivo, rimase cosciente.
Un movimento nei pressi della pedana catturò la sua attenzione. Due giovani donne stavano fissando attentamente le bambine. Scosse di nuovo il capo per scostarsi i capelli dalla fronte e si sentì gelare.
Speranza.
Si augurò di non esserselo immaginato, ma gli occhi di entrambe le donne esprimevano quella che sembrava compassione. E sbigottimento. Emozioni indubbiamente estranee a un’indole crudele, emozioni che Guillaume non si era aspettato di trovare nel mercato degli schiavi di Costantinopoli.
«Dovete comprarle, dovete!» La più alta delle due donne afferrò il braccio della sua compagna, indicando le bambine. I suoi occhi grigio fumo erano lucidi di lacrime.
Guillaume trattenne il fiato mentre lei portava lo sguardo nella sua direzione. Un’unica lacrima rifletté la luce mentre le cadeva dalle ciglia. Malgrado il tramestio e il brusio della folla, malgrado il dolore alla testa e alle spalle, lui la udì trattenere il fiato, vide le sue dita rafforzare la stretta attorno al braccio dell’amica.
Speranza.
«Compratelo! Dovete comprarlo!» La voce della donna risuonò chiara. Pressante.
Se ne avesse avuto la forza, si sarebbe accigliato. Quella donna voleva comprarlo, contuso e malridotto com’era? Doveva essere fuori di senno. Eppure, quegli occhi grigio fumo erano gentili.
La stanza oscillò ancora una volta, la sua vista si stava di nuovo offuscando. Guillaume aveva l’impressione di sbirciare attraverso una spessa caligine. Si impose di rimanere cosciente. Se quelle donne le avessero acquistate, le bambine sarebbero state al sicuro.
Come facesse a saperlo non ne aveva idea, ma lo sapeva senza ombra di dubbio. Se quelle donne avessero comprato le bambine, non avrebbe più dovuto temere per la loro incolumità. Non avrebbe avuto importanza chi avesse comprato lui, non era uno schiavo e non aveva intenzione di restare in quella città. Aveva dei progetti, che non aveva ancora attuato a causa di Paula e Daphne.
Fissò quei luminosi occhi grigi e il resto del mercato si dissolse. Molto vagamente, sentì protestare l’amica della donna. «Ha l’aria di un attaccabrighe.» Si riferiva a lui.
Gli occhi grigi rimasero fissi sul suo viso, il velo della donna ondeggiò. Al pari della veste che indossava, era semplice, di un marrone spento. «Comprate anche lui, oltre alle bambine» dichiarò. «Vi prego, mia signora... io non possiedo del denaro, ma vi ripagherò in qualche modo. Vi darò il mio braccialetto d’oro e il resto dei miei gioielli. Potrete venderli e comprare altri schiavi.»
Il ronzio nelle orecchie di Guillaume era più forte che mai, i corvi erano riapparsi e stavano agitando frenetici le ali fra lui e le due giovani donne. Il pavimento vacillò.
«Mia signora» riprese la ragazza con la veste marrone, «vi darò Zephyr, potrete vendere anche lei...»
Guillaume doveva essere svenuto per alcuni minuti, poiché quando tornò in sé le licitazioni erano già in corso. Lo stomaco gli si contrasse. Le due giovani donne non sembravano abbastanza ricche per acquistare degli schiavi. In effetti, quella che stava facendo un’offerta indossava una veste che sarebbe potuta appartenere a un’ancella. Seguirono altre offerte da parte di un uomo che aveva l’aspetto di un facoltoso mercante e di una donna che indossava una veste color ciliegia e aveva un viso talmente dipinto da sembrare smaltato. Le parole cortigiana di Babilonia gli balzarono all’istante alla mente.
Fece una smorfia. Doveva avere la febbre. Il braccio destro gli pulsava in modo atroce. Facendo sferragliare le catene, si sforzò di mitigare il dolore sorreggendolo con l’altro braccio, e dovette ricacciare un’ondata di nausea. Si rifiutò di ricordare a se stesso che molto spesso la nausea indicava che c’era una frattura.
Ai piedi della pedana, le due giovani stavano parlottando fra loro. Paragonandole agli altri offerenti, Guillaume si sentì stringere il cuore. Il tessuto delle loro vesti era troppo grossolano, il colore troppo anonimo. Il loro abbigliamento non reggeva il confronto con gli abiti di sfarzoso broccato verde del mercante né con quelli di seta color ciliegia della signora imbellettata. Era assurdo illudersi che quelle donne fossero in grado di acquistare sia lui sia le bambine.
Comprate le bambine. Lasciate perdere me, ma, per l’amor del cielo, comprate le bambine!
Sbirciando attraverso una fitta nebbia grigia, stava tentando di decidere se quelle donne avessero la possibilità di prevalere sugli altri offerenti quando si udì un trambusto in fondo alla stanza. Un uomo si stava aprendo un varco tra la folla per avvicinarsi alla pedana, i capelli neri come la notte, l’espressione irata. Allorché raggiunse la più bassa delle due donne, quella che aveva fatto le offerte, tentò di prenderle il braccio. Qualcosa nel suo portamento, nella sua postura, lasciava capire che era un soldato.
Anche se Guillaume si sforzò disperatamente di reggersi in piedi, la nebbia grigia si stava avvicinando inesorabilmente. Prima inghiottì le colonne del mercato, poi cominciò ad avvolgere le due donne.
No! Doveva restare cosciente!
La pedana scivolò via da sotto i suoi piedi.
Anna di Heraclea si conficcò le unghie nel palmo delle mani. Il cuore le batteva a un ritmo irregolare. Era tornata solo due giorni prima nella capitale e l’ultimo posto in cui avrebbe voluto trovarsi era il mercato degli schiavi. Chi lo avrebbe desiderato, se avesse potuto evitarlo? Nel migliore dei casi, si trattava di un luogo che trasudava brutalità, in cui venivano trattati gli affari più sordidi. Un luogo in cui vendevano carne umana.
Si rifiutava di pensarci, tanto più che avrebbe dovuto riflettere su quello che avrebbe detto al padre quando lo avesse incontrato il giorno seguente. Due anni... Non lo vedeva da quando si era recata a Rascia due anni addietro. Intendeva ancora costringerla a sposare Romanos?
Quella prospettiva le gelò il sangue nelle vene. Doveva escogitare un sistema per persuaderlo che il matrimonio con Romanos era impossibile, invece di perdere tempo nel mercato degli schiavi.
Katerina era voluta venire lì a tutti i costi e lei si era resa conto che, se non l’avesse accompagnata, ci sarebbe venuta da sola. Cosa che sarebbe stata oltremodo imprudente. Era già abbastanza terribile il fatto che avessero lasciato il Palazzo scortate unicamente da un sergente variago e da un paio di guardie fuori servizio, ma che Katerina avesse anche solo preso in considerazione l’idea di venire lì da sola... sarebbe stata una tale follia. Katerina doveva salvare le apparenze, se voleva interpretare il ruolo della Principessa Theodora.
Avrebbe dovuto spadroneggiare nell’appartamento della principessa circondata da un numeroso seguito, avrebbe dovuto comportarsi in modo da convincere tutti gli abitanti del Grande Palazzo che era la principessa. Non avrebbe dovuto trovarsi nel mercato degli schiavi, non avrebbe dovuto comprare degli schiavi. Grazie al cielo, il comandante Ashfirth le aveva rintracciate. Era convinto che Katerina fosse la principessa e aveva il buonsenso di mostrarsi discreto.
Anna ascoltò con un orecchio solo mentre il comandante tentava di dissuaderla dall’acquistare quegli schiavi.
«Quelle bambine sono troppo piccole per essere emancipate» stava dicendo. «Dovrete badare a loro finché non saranno cresciute. E, se avete intenzione di addestrarle per diventare delle serve, ci vorranno degli anni prima che possano rendersi utili...»
Un groppo le serrò la gola mentre osservava le bambine rannicchiate sulla pedana. Povere creature. Povere piccole creature. Avevano gli abiti a brandelli, la faccina sporca e, cosa infinitamente peggiore, l’aria di non toccare cibo da una settimana. Se Katerina le avesse comprate, avrebbe compiuto una buona azione. Sarebbe valsa la pena di venire in quel posto orribile.
E poi c’era lui. Il giovane uomo che aveva l’aspetto di un vichingo. Nel medesimo istante in cui Anna lo aveva visto, l’idea più assurda le era balzata alla mente, un’idea totalmente assurda e pericolosamente allettante nello stesso tempo.
Quell’uomo era disperato. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per riacquistare la libertà.
Sposalo.
Sposare uno schiavo?
Sì! Il matrimonio con un uomo del genere le avrebbe consentito di sfuggire a quello con Romanos. Una volta che fosse diventato suo marito, gli avrebbe restituito la libertà. Non l’avrebbe più rivisto e Romanos non si sarebbe mai sognato di toccarla, quando avesse appreso che era stata la moglie di uno schiavo.
Non poteva sposare un perfetto estraneo. Ma meglio che sposare Romanos...
Per la Beata Vergine, non poteva farlo. Eppure...
L’idea si rifiutò di abbandonarla.
Il comandante Ashfirth stava fissando l’uomo con un fiero cipiglio. «Quanto a quello schiavo, sembra possedere un’indole ribelle. Dubito che sarebbe disposto a ricevere degli ordini.»
Alzando il capo, il cuore in gola, Anna studiò il giovane che, malgrado le catene, si mostrava così protettivo nei confronti delle bambine. La sua somiglianza con Erling era stupefacente. A differenza degli altri schiavi, appariva robusto, dotato di lunghe cosce possenti e di spalle larghe. Come sarebbe stato Erling, se fosse vissuto. Delle ciocche di capelli biondi gli ricadevano sugli occhi, occhi di un verde brillante che per un istante sconvolgente avevano fatto vibrare le corde del suo cuore. Quegli occhi verdi le ricordavano Erling. L’avevano riportata indietro nel tempo, in un’altra epoca e un altro luogo.
Non essendo un ricordo piacevole, però, lo relegò in un remoto recesso della memoria. Non era stata colpa sua, ciò che era accaduto a Erling non era stata colpa sua. E, del resto, quel guerriero non era Erling. Erling era morto. E lei non aveva modo di sapere se poteva fare assegnamento su quell’uomo.
Le avrebbe obbedito. Benché non sembrasse arrendevole come Erling, le avrebbe obbedito. Bastava guardarlo negli occhi: quell’uomo desiderava la libertà più di quanto anelasse a prendere il respiro successivo. Se gliel’avesse offerta, le avrebbe obbedito.
E suo padre? Che cos’avrebbe fatto se lei avesse rinviato il loro incontro fino a quando non avesse sposato lo schiavo? Come avrebbe reagito?
Mentre fissava la pedana, avvertì una contrazione alle viscere. Lo schiavo era stato picchiato. Aveva gli zigomi contusi e c’era una macchia color ruggine sul tessuto strappato della sua tunica. Quando si spostò, le sue catene tintinnarono rumorosamente.
Erano necessarie quelle catene? Non sembrava del tutto cosciente. Ma era possibile che il comandante Ashfirth avesse ragione? Era possibile che fosse un ribelle? Non aveva importanza. Sembrava perfetto per raggiungere lo scopo che si era prefissa, assolutamente perfetto. Sarebbe stato più che in grado di tenere a bada suo padre. Quell’uomo lo avrebbe indotto a rendersi conto che non poteva più darla in moglie a Romanos.
Scoccando un’occhiata ad Ashfirth, Anna notò che il suo cipiglio si era un tantino attenuato. Le parve che stesse cedendo al desiderio di Katerina di comprare le bambine, ma certo non le avrebbe permesso di acquistare uno schiavo di sesso maschile.
Tuttavia, Katerina doveva acquistarlo, lui aveva bisogno del loro aiuto. Poteva darsi che lei avesse fallito con Erling, ma non avrebbe fallito con quell’uomo.
Purché lui avesse fatto esattamente ciò che desiderava. Purché l’avesse sposata.
Ricorrere a un simile stratagemma era pura follia, ovviamente. Sposare un uomo per evitare di sposarne un altro non era un’eventualità che avesse mai preso in considerazione prima di allora. Nondimeno, appena aveva visto lo schiavo biondo, appena aveva notato la sua somiglianza con Erling, l’idea le era balzata alla mente già completamente formata.
Follia. Chi era più disperato dei due?, si chiese Anna. Lei o lo schiavo?
Le occorreva del tempo per riflettere, ma prima doveva comprare quell’uomo. Rendendosi conto che il battitore stava fissando Katerina in un silenzio carico di aspettativa, le assestò una leggera gomitata. «Fate un’altra offerta!» sibilò. «Altrimenti li perderemo.»
Il comandante Ashfirth corrugò ulteriormente la fronte, ma, poiché credeva che Katerina fosse la principessa, non si sarebbe azzardato a contrastarla. Quando Katerina sollevò il mento, Anna intuì che l’avrebbe spuntata.
«Intendo acquistarli» dichiarò. Alzò la mano, fece segno al battitore e le licitazioni ripresero.
Il mercante che si trovava dall’altra parte della pedana dava l’impressione di possedere una borsa molto capiente. Loro avevano portato il denaro sufficiente? Sarebbero state in grado di rilanciare? La tensione che le attanagliava ogni muscolo, Anna tornò a conficcarsi le unghie nel palmo delle mani.
Seguirono altre offerte, ma infine Katerina alzò di nuovo la mano e risuonò un colpo di gong.
«Aggiudicati!»
Anna lasciò andare il fiato che aveva trattenuto. Ce l’avevano fatta, gli schiavi appartenevano a loro!
Guillaume tornò in sé mentre veniva trascinato giù dalla pedana e in un recinto adiacente. L’oscurità era tornata a calare su di lui e, poiché riusciva a stento a vedere al di là, e tanto meno a reggersi in piedi, si accasciò contro una colonna e osservò incuriosito il pavimento che stava cominciando a fluttuare verso di lui.
E poi lei lo raggiunse, la donna dagli occhi grigio fumo. Un uomo corpulento dall’aria marziale le stava accanto, ma a Guillaume non interessava. Gli occhi grigi incontrarono i suoi, una mano femminile si tese verso di lui. Fiori primaverili... percepiva un sentore di fiori primaverili.
«Lasciate che vi aiutiamo.»
La sua voce era dolce e fumosa, al pari dei suoi occhi. Lei e l’uomo corpulento lo abbassarono sul pavimento.
«Le bambine... Daphne... Paula?» Guillaume si costrinse a formulare quella domanda con estrema difficoltà. Il suo greco, la lingua ufficiale di Costantinopoli, era alquanto arrugginito. Sebbene, naturalmente, lo comprendesse meglio di qualsiasi cavaliere dell’Apulia di sua conoscenza, quel giorno doveva esercitare uno sforzo sovrumano su se stesso per esprimersi chiaramente.
«Sono al sicuro, saranno accudite a dovere» mormorò la ragazza. «Come voi.»
«Dove... dove...?» All’improvviso, prima che Guillaume riuscisse a mettere insieme la forza necessaria per chiedere dove li avrebbero portati, la nebbia grigia tornò ad avvilupparlo, offuscandogli la vista, privandolo della voce. Mentre la testa gli ciondolava sul petto, lo sferragliare delle catene fu l’unica risposta che gli giunse all’orecchio.
Nell’appartamento della principessa nel Boukoleon, Anna si inginocchiò sul pavimento di marmo del salone, accanto al pagliericcio dello schiavo. Studiò il suo viso incosciente. Poco prima che trovassero una lettiga, il capo degli schiavi aveva dichiarato che era franco, uno dei molti normanni che erano giunti nell’impero.
Era un franco, quindi, non un vichingo come Erling. Un franco che probabilmente aveva ereditato i suoi colori da un antenato nordico. Tuttavia, se Erling fosse vissuto, sarebbe stato somigliante a quell’uomo. Sebbene i capelli color chiari e gli occhi verdi, ora chiusi, fossero i tratti comuni più evidenti, la rassomiglianza generale era innegabile. Le parve di riconoscere Erling in quella possente corporatura, nel modo protettivo con cui il franco aveva vegliato sulle bambine. Malgrado le catene e le ferite, era stato pronto a battersi contro il mondo intero per difenderle. Erling si era mostrato altrettanto protettivo. Verso di lei.
Lei invece lo aveva abbandonato alla sua sorte e il rimorso l’aveva perseguitata per anni. Ma non avrebbe abbandonato anche quest’uomo. Poteva darsi che non avesse ancora deciso se servirsi o meno di lui, ma, qualunque decisione avesse preso, lo avrebbe liberato.
Il franco emise un gemito e agitò la testa sul cuscino, anche se non sollevò le palpebre.
Anna batté le mani per chiamare una delle serve. «Manda a prendere altra acqua, per favore, Maria. E dei panni puliti. E...» Scoccò un’occhiata alla tunica insanguinata. «... anche un paio di forbici. Voglio che si senta pulito e a suo agio.»
«Sì, mia signora. Quel pavimento deve essere duro sotto le vostre ginocchia. Desiderate un cuscino?»
«Sì, grazie.»
Anna portò lo sguardo all’altra estremità della sala, in direzione delle bambine. Il cuore le si strinse. Povere piccole. Dietro suo ordine, alcune serve si stavano prendendo cura di loro. Avevano portato una tinozza di rame, brocche di acqua fumante, delle spugne...
«Penso che prima dovrebbero mangiare» osservò. «Dubito che tocchino cibo da giorni. Date del pane e del latte alla maggiore. Quanto all’altra... c’è una nutrice nel palazzo?»
«Mi informerò, mia signora.»
Una delle ancelle si abbassò in una riverenza e corse fuori, oltrepassando la sentinella di guardia alla porta, un’altra entrò con una cesta di panni puliti.
Anna riportò
